V, 2022/2

Fernanda Alfieri

Veronica e il diavolo

Review by: Ottavia Niccoli

Authors: Fernanda Alfieri
Title: Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma
Place: Torino
Publisher: Einaudi
Year: 2021
ISBN: 9788806211066
URL: link to the title

Reviewer Ottavia Niccoli

Citation
O. Niccoli, review of Fernanda Alfieri, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, Torino, Einaudi, 2021, in: ARO, V, 2022, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/2/veronica-e-il-diavolo-ottavia-niccoli/

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Non è facile recensire questo libro, perché la sua ricchezza e complessità costringono il lettore – e tanto più chi deve darne conto – allo sforzo necessario per superare le modalità consuete della confezione dei libri di storia. Questo è infatti innanzitutto un esperimento molto forte di scrittura, sia di scrittura storica sia, e forse ancor più, di scrittura letteraria (giustamente la casa editrice Einaudi ha inserito l’opera nella collana Frontiere). La narrazione storica standard esclude l’uso dell’«io», mentre qui l’autrice non si nasconde dietro l’usuale anonimato degli studiosi di storia, ma si fa avanti fin dalla prima pagina, e più ancora nelle ultime, e il suo io ci appare sottinteso anche quando non emerge esplicitamente. Questa è anche la storia della sua ricerca, collocata nello spazio e nel tempo (anche nel tempo meteorologico), fino al mancato ritrovamento della tomba della protagonista della vicenda e a un sogno che segna la conclusione dell’indagine. La prima pagina inizia con le parole:

«Ho un ricordo piuttosto vago di come sono andate le cose, sono passati anni. Mi trovavo a Roma, e stavo cercando di concludere una ricerca su un gesuita che, sul finire del Cinquecento, aveva scritto un trattato sul matrimonio … . Doveva essere all’inizio dell’inverno, probabilmente fuori pioveva una di quelle piogge torrenziali che si riversano su Roma a frustate, squassando i pini marittimi aperti come ombrelli al rovescio…»

Raccontare la propria ricerca insieme ai suoi risultati è una tecnica di scrittura storica già utilizzata, per esempio da Ginzburg e Prosperi nel loro Giochi di pazienza (recentemente riapparso per le edizioni di Quodlibet); ma in quel libro A e B, non identificati con i nomi sul frontespizio, non avevano una personalità differente da quella che incarnavano nella ricerca. L’esito era ovviamente più asciutto; qui le cose vanno diversamente, ma su questo elemento tornerò anche più avanti. La vicenda parte dal casuale ritrovamento, tra le carte che Fernanda Alfieri si trova in mano nel corso della sua ricerca sul gesuita Tomás Sánchez [Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità (secoli XVI-XVII)], Bologna, Il Mulino, 2010] di una Esorcisazione di Maria Antonina Hamerani, ritenuta ossessa (1834-1835), nome successivamente corretto in «Veronica». Il contenuto è il resoconto di un esorcismo condotto per sei mesi, apparentemente senza successo, e infine interrotto, da un piccolo gruppo di gesuiti che ne danno relazione; uno di essi aveva lasciato altra documentazione, pure ritrovata dall’autrice nella Biblioteca Nazionale di Roma, contenente il proprio resoconto personale, definito qui «Diario di padre Manera». Il libro segue le vicende dell’esorcismo, soffermandosi su tutti i personaggi coinvolti: non solo Veronica e i suoi familiari, ma anche i gesuiti, i medici e i visitatori che entrano nella camera della presunta ossessa.

La diciannovenne Veronica era figlia di Giovanni Hamerani, erede di una famiglia di cesellatori di medaglie, e di Vittoria Cecchi. Gli esorcismi sulla sua persona iniziano nel dicembre 1834 (o almeno, le prime relazioni su di essi risalgono al 23 dicembre 1834). Il primo attore che incontriamo è il padre Antonio Kohlmann, che era nato a Kaysersberg in Alsazia nel 1771; seguendo quella che è la linea investigativa dell’autrice, apprendiamo tutto ciò che poteva emergere sulla sua infanzia e sul suo aspetto, sull’economia, sulla vita quotidiana di Kaysersberg all’epoca, allo scopo di rendere più concreta la sua personalità. In seguito incontreremo ancora molte informazioni sulla sua vita: passerà in Lettonia e poi in America, missionario nel Maryland e fondatore della diocesi di New York. Nel dicembre 1834, tornato a Roma, tenta di costringere il diavolo che a suo parere ha invaso Veronica a rivelare il suo nome e a uscire da lei, ma vanamente. Le descrizioni del tormento della giovane sono minuziose: braccia e gambe alzate e dimenate, grida roche, insulti, corpo deformato in quello che Charcot definirà «l’arco isterico». Nei giorni successivi nuovi e inutili esorcismi vengono compiuti, mentre impariamo a conoscere un altro dei gesuiti che partecipano all’esorcismo, il padre Francesco Manera, nato a Napoli il 20 agosto 1798. Un uomo tempestoso e di umore instabile, venuto infatti alla luce mentre minacciava un temporale (lo apprendiamo dal diario di Ferdinando IV di Borbone). Il temperamento del padre Manera, come si vedrà anche in seguito, è melanconico e incline al dubbio e all’incertezza; egli non è convinto che la causa del tormento di Veronica sia il diavolo. Peraltro il supposto demonio Satanasso – questo il nome pronunciato da Veronica – ha dichiarato che tutto deriva da un maleficio lanciato da una Francesca marchigiana di Genzano. Più avanti nel libro verremo a conoscere i legami della famiglia Hamerani con il borgo di Genzano, dove nel 1809 Giovanni, padre di Veronica, aveva ereditato un palazzo malridotto, che ospitava, oltre alla famiglia dei padroni che vi soggiornava d’estate, circa quaranta altre famiglie di braccianti. Il licenziamento di una di quelle famiglie che avrebbe dovuto custodire la casa e che invece, secondo gli Hamerani, l’aveva derubata, era stato causa, per vendetta, di una fattura, scagliata, su commissione della custode, da quella Francesca marchigiana. L’accusa verrà confermata da un anonimo, di cui rimaneva nel fascicolo un appunto che accusava di maleficio Francesca, ora partita da Genzano.

Intanto i due gesuiti, e noi con essi, vengono ad apprendere la storia della famiglia Hamerani: già gloriosa stirpe di incisori bavaresi di medaglie, ora in decadenza per il cambiamento dei gusti e delle committenze. Né sarà possibile un cambiamento di questa situazione nella nuova generazione: degli otto figli di Giovanni e Vittoria, Veronica sarà quella che avrà vita più lunga, mentre cinque dei suoi fratelli moriranno entro i due anni di età, e due sorelle avranno anch’esse vita breve. Sappiamo che un tasso di mortalità infantile del genere non era infrequente, ma gli Hamerani lo considerano frutto di una fattura.

Frattanto, il 28 dicembre 1834 riprende la descrizione degli esorcismi, opera ora di padre Manera. Questi peraltro, spinto anche dalle sue letture scientifiche, dubita costantemente della possessione diabolica e conduce a esaminare Veronica un medico, Andrea Belli; costui dichiara, dopo la visita, che «non ammette la vera ossessione», e «di non aver veduto se non le cose puramente naturali». Manera confida i suoi dubbi anche al padre generale, l’olandese Jan Roothaan, che gli prescriverà di astenersi in futuro dall’assistere agli esorcismi; dovrà invece riposarsi, lo richiede il temperamento melanconico che lo opprime. Tuttavia Manera continua a occuparsi del caso, e apprende da informazioni riservate che Veronica è stata coinvolta in una «pratica disonesta» durata oltre un anno, che potrebbe averle ispirato l’idea di fingersi ossessa. In effetti altrove la stessa Veronica racconta a lui, che ne dà conto nel suo diario, di essere stata corteggiata da un giovane che la fissava insistentemente in chiesa e la seguiva obbligandola anche a nascondersi dietro un confessionale: un modo per tacitare le voci malevole?

Infine, il padre Manera viene sostituito nella camera di Veronica dal padre Massa (Tommaso Maria Camillo, alla nascita), appartenente a una famiglia bolognese di mercanti di spezie. Padre Tommaso si assumerà il compito di riscrivere l’Esorcisazione riorganizzandola; di lui veniamo a conoscere gli studi e la vita studentesca a Bologna, e in seguito il soggiorno in Spagna, a Madrid e poi a Graus, nei Pirenei aragonesi. Intanto entrano nella stanza dell’ossessa altri testimoni, fra cui monsignor Nicholas Wiseman, poi cardinale e arcivescovo della cattedrale di Westminster, che conduce con sé un medico inglese, il dottor Knight, anch’egli dubbioso sulla realtà dell’esorcismo.

Sarebbe inutile continuare a descrivere tutte le pratiche che con benedizioni, interrogazioni in latino, passi del Rituale ecclesiastico, tentano e tenteranno di liberare Veronica sino al maggio 1835. Il 22 giugno veniamo infine a sapere che padre Roothaan ha dato l’ordine di sospendere gli esorcismi. Nell’agosto di quello stesso anno, il colera invade Roma, e i gesuiti dal capezzale di Veronica si sono spostati all’impegno di cura fra i colerosi; moriranno nel 1836 il padre Kohlmann, nel 1837 il padre Massa, dieci anni dopo il padre Manera. Veronica concluderà la sua vita molto tempo dopo, nel 1883, avendo vergato già nel 1871 il suo testamento, in cui lasciava tutto il suo ad un avvocato Aquari, al quale aveva già venduto alcuni suoi beni. Di lei, nei quasi cinquant’anni intercorsi tra la conclusione degli esorcismi e la morte, non sappiamo più nulla, tranne che negli anni 1846-1847 era l’unica della sua strada, insieme alla sua vecchia servente, a non ricevere i sacramenti; ma di questo fatto non sappiamo il motivo.

Le ultime pagine della parte narrativa del libro vedono riemergere in primo piano l’autrice, che racconta la sua vana ricerca della tomba di Veronica nel cimitero del Verano e il sogno che ne sigilla il ricordo come di una vergine né morta né viva, che giace inerte e tacita su un letto di fiori.

Chiudendo queste pagine, percepiamo che a colpirci è stata innanzitutto la limpida eleganza dello stile, che attraversa tutto il libro rendendolo una lettura di forte fascino. Alcuni capitoli o parti di essi mostrano una capacità di scrittura creativa veramente di grande qualità: basti pensare, a mero titolo di esempio, alle pagine dedicate a Genzano (pp. 165-172) o a quelle sulla sporcizia di Roma devastata dal colera (pp. 250-251). Ho detto «scrittura creativa», ma in realtà nulla è lasciato alla fantasia dell’autrice, ogni parola è radicata in una molteplicità di minute ricerche documentate nelle note alla fine del volume. Sarebbe infatti un errore sottovalutare la qualità del lavoro storico su cui il testo si basa, che è di una ricchezza veramente straordinaria. Basti dire che le note (estremamente asciutte per ridurne l’ampiezza), l’elenco delle fonti e la bibliografia coprono non meno di 80 pagine minutamente stampate. Le ricerche dell’autrice inseguono ogni personaggio dalla nascita alla morte, anche al di fuori non solo di Roma ma d’Italia; nella camera chiusa di Veronica entrano così in qualche modo la Lettonia, la Russia Bianca, la Pennsylvania traversate dall’infaticabile padre Kohlmann, la Castiglia e l’Aragona montuosa in cui si spinge padre Massa. Una parte significativa del libro consente infatti di seguire la vita e l’attività dei gesuiti esorcisti e, dietro di loro, dell’intera Compagnia di Gesù risorta con ancor maggiore energia dopo la soppressione del 1773 e la rinascita del 1814. Sappiamo di loro molto di più di quanto veniamo a conoscere della protagonista del libro, che rimane costantemente presente ma risulta quasi sempre muta o ridotta alla sua dimensione di supposta oppressa dal demonio – e certamente oppressa dall’educazione e dal controllo paterno prima, dagli esorcismi e dagli esorcisti poi. Il sogno che Fernanda Alfieri pone a conclusione della sua opera è certamente l’espressione di ciò che è Veronica in questo libro.

All’inizio di queste pagine abbiamo parlato dell’opera come di un esperimento di scrittura; di scrittura storica e di scrittura letteraria. È un esperimento riuscito? Dal punto di vista letterario certamente, e come tale è stato ripetutamente recensito. Dal punto di visto storico rimangono delle perplessità. Sappiamo quanto è intenso il dibattito sulla scrittura della storia, e soprattutto su una costruzione narrativa del discorso storico, contrapposta alla storia come spiegazione dei fatti. Il dibattito sulla storia come costruzione retorica, che ha visto l’accesa contrapposizione tra Hayden White da un lato e Carlo Ginzburg e Arnaldo Momigliano dall’altro, non dovrà però farci dimenticare che ogni buon libro di storia richiede una scrittura che contiene una spiegazione dei fatti offerta retoricamente. La consapevolezza di questa necessità aiuta a non trascurare, scrivendo, la necessaria compresenza di fatti tratti correttamente dalle fonti e di una loro pensata spiegazione offerta con una scrittura anch’essa pensata e costruita. Questo libro ha i fatti che le fonti ci offrono (impossibile dubitarne!), ha una scrittura pensata e costruita, ma lascia implicita la spiegazione degli eventi presentati. Sentiamo quindi che qualcosa manca, dall’accostamento della vicenda narrata ad altre analoghe, sino all’esplicitazione del rapporto fondamentale tra teologia e medicina così mirabilmente affrontato da Elena Brambilla nel suo Corpi invasi e viaggi dell’anima. D’altronde, questo è un esperimento; apprezziamolo come tale, preferendolo forse a scritture più corrette, ma anche più banali.

 

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