IV, 2021/3

Vincenzo Lagioia, Maria Pia Paoli, Rossella Rinaldi (eds.)

La fama delle donne

Review by: Fernanda Alfieri

Editors: Vincenzo Lagioia, Maria Pia Paoli, Rossella Rinaldi
Title: La fama delle donne. Pratiche femminili e società tra Medioevo ed Età moderna
Place: Roma
Publisher: Viella
Year: 2020
ISBN: 9788833134925
URL: link to the title

Reviewer Fernanda Alfieri - FBK-ISIG

Citation
F. Alfieri, review of Vincenzo Lagioia, Maria Pia Paoli, Rossella Rinaldi (eds.), La fama delle donne. Pratiche femminili e società tra Medioevo ed Età moderna, Roma, Viella, 2020, in: ARO, IV, 2021, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/3/la-fama-delle-donne-fernanda-alfieri/

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Come avvertono le curatrici e il curatore, studiare la fama nella cultura di antico regime significa confrontarsi con una presenza ubiqua. Nel lungo arco temporale in cui viene esplorata, e in una geografia che include Italia, Francia e Spagna, la fama emerge come un dispositivo di relazione costantemente teorizzato e applicato per regolare equilibri e confini delle comunità, dalle più popolate aree urbane (Bologna, Venezia, Firenze, Tolosa, Granada) a territori meno densamente abitati quando non remoti (il contado bolognese, le campagne del Languedoc, le zone montane fra Lombardia e Svizzera). L’ubiquità della fama e la sua persistenza nel corso dei secoli la rendono un oggetto insidioso, perché all’apparenza quasi connaturato, e al contempo però assai proficuo, nella misura in cui consente, studiandolo, di entrare nei più disparati modi di organizzazione delle comunità, siano essi formalizzati (le procedure dei tribunali, le regole degli istituti di reclusione) o incorporati negli immaginari e negli habitus che regolano le relazioni.

In questo paesaggio reso all’apparenza uniforme dall’onnipresenza della fama vi sono delle zone, quelle dell’illecito, in cui la densità delle tracce aumenta: la fama cattiva lascia più tracce di quella buona. Le donne delle quali il volume in oggetto ci restituisce le vicende, di cui se ne possono qui solo richiamare alcune, sono tutte alle prese con una fama danneggiata o discussa, e hanno avuto per lo più grane con la giustizia, nei cui ingranaggi di funzionamento la fama è elemento fondamentale. A questo è connesso un altro aspetto da segnalare, ovvero che le fonti dalle quali riceviamo le loro vicende sono per lo più di mano maschile, come lo era la regia delle istituzioni e della produzione di saperi ad essi finalizzate per il controllo dei comportamenti (diritto e teologia in primis). Benché le molte donne in cui ci imbattiamo agiscano a loro volta negli ingranaggi della fama negoziando con le sue regole, provando a infrangerle, piegandole a proprio favore, e benché anche gli uomini fossero vincolati ai suoi codici (è noto il ruolo cruciale dell’onore da tutelare pena la perdita della presentabilità e dell’autorità) l’impressione complessiva è che le donne ne escano come sorvegliate speciali. La si riceve dal saggio di Laura Pasquini dedicato all’iconografia tra Medioevo e Rinascimento in cui vediamo una teoria di rappresentazioni femminili del peccato, di cui quello della lussuria è quintessenza, riempire capitelli, portali di chiese e capilettera di codici miniati. In una cultura diffidente nei confronti della corporeità, l’occasione del peccato viene simbolicamente incarnata nel corpo di donna. Se si osserva ciò in un’ottica di genere, ovvero di relazione, questa è una palese messa in forma della fragilità dell’occhio che guarda: non c’è infatti seduttrice senza un seducibile, senza uno sguardo pronto a turbarsi. Tanto che la controparte che l’iconografia ci propone è fatta di santi che si flagellano eroicamente, mentre corpi femminili si offrono spudorati. I primi sono corpi di soggetti che vanno nel mondo, i secondi corpi di soggetti destinati per lo più al chiuso del matrimonio o dei chiostri, eppure vengono rappresentati come perennemente esposti e pronti ad offrirsi. Un notevole paradosso, se si pensa alla concretezza limitata del quotidiano in cui il ruolo femminile, quantomeno quello atteso, era chiamato ad esprimersi. Ne è conferma il fatto che la pittura infamante intercetti soprattutto soggetti maschili, perché attori sulla scena pubblica, dove è in gioco un onore di tipo civile e non una fama di tipo morale che invece per le donne è situata sul piano del privato e del sessuale. Nella mentalità di Antico regime (con ramificazioni nel contemporaneo) le donne hanno, quindi, una fama che prescinde dalla condotta individuale. Per questo, come riporta il saggio di Matteo Duni, dedicato alla manualistica inquisitoriale fra Quattro e Cinquecento, qui la strega è quasi sempre donna, per le caratteristiche oggettive del suo sesso incline alla lussuria (tanto da arrivare ad accoppiarsi con il diavolo) e al conflitto (notoriamente è guastatrice di equilibri di comunità). Per questo, come riporta il saggio di Cesarina Casanova, i racconti di stupro (deflorazione di vergine di cui la violenza poteva costituire aggravante) del tribunale bolognese del Torrone sono «impersonali» (p. 149) anche se dettagliati. L’evitamento dell’emotività e una certa esibita «goffaggine» delle denuncianti sono parte di una strategia difensiva. Così la vittima scongiurava il sospetto di un suo consenso, smentiva cioè lo stereotipo della donna seduttrice approfittando di un altro luogo comune sulla natura femminile: la fragilità, che la rende ingenua, quindi cedevole alle lusinghe, specialmente se accompagnate da una promessa di matrimonio. Come illustra Daniela Lombardi, questo accadeva anche nella Firenze del XVIII secolo. Anche qui la vittima giocava sulla sua presunta innocenza, e gli accusati di stupro sulla sua presunta malizia. La procedura giudiziaria rinsaldava così luoghi comuni e al contempo se ne nutriva anche perché, in mancanza di testimoni diretti di un reato, la certificazione della fama della persona in giudizio doveva in qualche modo bastare.

Con l’affermarsi della procedura inquisitoria dal tardo Medioevo, la fama intesse quindi trame sempre più fitte tra società e istituzioni, che a Bologna furono spesso relativamente indulgenti, inclini a una sorta di paternalismo mirante ad appianare i conflitti e a farsi carico delle situazioni irregolari purché non turbassero la quiete della comunità dando scandalo, altro dispositivo cardine per il mantenimento degli equilibri delle società di Antico regime. A Firenze poteva anche accadere che, in assenza di gravidanza, la giovane deflorata fosse disincentivata dai parroci – spesso i primi interlocutori in confessione, mediatori con i tribunali – a denunciare per non diffamarsi, perché il processo avrebbe inevitabilmente reso pubblico il fatto, senza garantire l’attesa risoluzione del conflitto: matrimonio con il defloratore o dote, da questo sborsata, per unirsi con un altro. La fama era mobile, poteva perdersi e per questo andava tutelata. La fama poteva, però, anche recuperarsi con le nozze, che stendevano un velo sulla scandalosa castità perduta della deflorata. Farsi sposare o dotare sarebbe stato fino alla metà del XVIII secolo relativamente facile. Il Settecento sarebbe stato più severo verso le donne vittime di deflorazione, tutelando non il favor matrimonii ma le scelte dei padri sui figli. Il consenso paterno viene infatti reso obbligatorio in molti stati della penisola e nella Spagna studiata da Milagro Leon Vegas, dove la Prammatica sanzione di Carlo III nel 1776 autorizza i padri a vietare ai figli di contrarre unioni sfavorevoli al patrimonio o dannose per l’onore della famiglia. Il risvolto di tale circostanza, quasi una eterogenesi dei fini, è una presa di parola da parte dei giovani desiderosi di sposarsi contro le volontà paterne, che intentano cause per rivendicare la propria scelta matrimoniale. E la presa di parola, come emerge dai processi della Cancelleria reale di Granada, ha protagoniste femminili, dalle cui voci prenderebbe forma un germe di soggettività che si vuole padrona di se stessa.

L’indagine sulla fama delle donne non può non toccare situazioni che situeremmo ai margini, come quelle delle prostitute. Osservandone però il fitto intreccio con le vicende di altri soggetti che collocheremmo, per il medesimo senso comune, al centro della comunità, siamo costretti a rivederne la posizione: le meretrici, come spiegano i saggi di Nobile Mattei, Agathe Roby, Rossella Rinaldi, sono molto più incardinate nella ordinaria fisiologia del vivere civile di quanto non si sospetti. Nella Tolosa del tardo Medioevo le autorità inquadrano l’esercizio della prostituzione in spazi e norme precise. I bordelli sono dei veri «établissements» (p. 92) pubblici in cui le meretrici vengono impiegate come un male necessario per il mantenimento di un ordine altrimenti destinato a sconvolgersi per la forza esplosiva della concupiscenza. Sulla messa in luce di una tensione costante fra integrazione ed esclusione insiste anche Rossella Rinaldi, delineando la fisionomia della meretrix famosa nella Bologna medievale, fissata in una identità stabile che le consente di essere testimone, stipulare contratti con istituzioni pubbliche, svolgere il ruolo di perita in cause di nullità matrimoniale confermando o smentendo l’impotenza del marito in questione. Come spiega Nobile Mattei indagando le posizioni dei giuristi di età moderna, quella della meretrice è una infamia di diritto, cioè derivante dalla sua stessa condizione, e determina in teoria l’interdizione all’amministrazione dei propri beni, a testimoniare in un processo, a sporgere denuncia per una offesa subita, tantomeno per stupro perché non ha alcun onore da difendere. Tuttavia, per il carattere quasi necessario della sua infamia, funzionale al mantenimento dell’equilibrio di una comunità che istituzionalizza la trasgressione, questa particolare infamia può non escludere totalmente dalla civitas la persona che ne è toccata. E anche in questo ambito la cattiva fama poteva essere riscattata dalle istituzioni cittadine, a patto che le meretrici si redimessero: è il caso bolognese del 1332, che vede svariate decine di donne venire «dotate» per volontà del legato al fine di farle convolare a nozze. Insomma, la dimensione repressiva nella storia della prostituzione ha parte minore rispetto a quella contenitiva che tende a tollerare purché non vi sia scandalo. A includere, o meglio, a recludere, come racconta il lavoro di Lucia Ferrante sull’internamento delle donne di cattiva fama a Bologna, che poteva avvenire anche per iniziativa del coniuge, cosa che le istituzioni tendevano ad osteggiare per tutela non del soggetto recluso ma del potere emanante dall'autorità assoluta del sovrano, che solo può stabilire di recludere qualcuno: giovani sedotte e abbandonate, donne sposate a uomini violenti, povere a rischio di vendersi per sopravvivere, promesse spose che non vogliono guastarsi. Impressiona, fra l’altro, la lunga serie di suppliche delle aspiranti recluse per essere accolte negli istituti che avrebbero permesso loro di custodire la loro fama o di rifarsela, a prezzo della rinuncia al mondo.

Decidono del proprio destino? Quelle di cui resta traccia sono voci di volontà liberamente espressa? Sono domande che emergono anche dallo studio di Vincenzo Lagioia sulle ex meretrici convertite di Sant’Agostino a Bologna, che, quando si vedono sottratti i propri beni dalle autorità locali con la scusa della cattiva fama, prendono la parola e si riprendono gli spazi, vagando per la città. Un fatto inaudito che destò molta impressione, in un mondo – forse non così distante dal nostro – che manteneva i propri equilibri dando ospitalità all’indecoroso, a patto però di occultarlo.

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