V, 2022/3

Gianni La Bella

I gesuiti

Review by: Raffaella Perin

Authors: Gianni La Bella
Title: I gesuiti. Dal Vaticano II a Papa Francesco
Place: Milano
Publisher: Guerini e Associati
Year: 2019
ISBN: 9788862507622
URL: link to the title

Reviewer Raffaella Perin - Università Cattolica

Citation
R. Perin, review of Gianni La Bella, I gesuiti. Dal Vaticano II a Papa Francesco, Milano, Guerini e Associati, 2019, in: ARO, V, 2022, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/3/i-gesuiti-raffaella-perin/

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Il libro ricostruisce la storia della Compagnia di Gesù a partire da quella che, secondo lo storico John O’Malley, si può considerare la quarta rifondazione dell’istituto dopo il Concilio Vaticano II, fino all’elezione al soglio pontificio del gesuita Jorge Mario Bergoglio. La narrazione delle vicende che riguardano il governo centrale della Compagnia, tema del libro è scandita dagli eventi che segnano delle cesure nella storia dell’ordine. Per citarne alcuni: le successioni al vertice da Arrupe a Sosa, gli anni del post-Concilio, la ricerca di equilibrio tra tradizione e progresso, il commissariamento, la crisi degli ordini religiosi, i fermenti sociali in America Latina ai quali i gesuiti partecipano, anche a costo della vita. La prima metà del volume (tre capitoli) è dedicata al generalato di Pedro Arrupe, due capitoli ripercorrono i cambiamenti impressi dal successore, l’olandese Peter Hans Kolvenbach, mentre l’ultimo capitolo è quasi cronaca, trattando del periodo di Adolfo Nicolás (2008-2016) per concludersi con il generalato di Arturo Sosa, tuttora in corso.

Si tratta di un volume molto denso di dati e informazioni, che cerca di collocare la storia della Compagnia nel contesto degli anni Sessanta-Duemila, cogliendo quei rivolgimenti sociali e politici che hanno avuto un riverbero sugli aspetti religioso-ecclesiastici. Di questa ricca ricostruzione ci limitiamo a sottolineare alcuni aspetti del generalato di Arrupe, che l’autore ha potuto analizzare a partire da documentazione archivistica inedita.

La XXXI Congregazione generale ridisegna il profilo della Compagnia da diversi punti di vista, che vengono ricostruiti dall’autore grazie alla consultazione degli Acta Congregationis Generalis XXXI conservati nell’Archivum Romanum Societatis Iesu. Si tratta della Congregazione che il 22 maggio 1965 elegge Pedro Arrupe preposito generale, dopo trentasette anni di missione in cui aveva cercato di «farsi giapponese» sulle orme di Valignano, come insegnava il Cerimoniale redatto dall’«apostolo del Giappone».

Il lungo periodo trascorso nel Paese del Sol Levante condizionò fortemente Arrupe. Già da provinciale (venne nominato nel 1958 ma era spesso impegnato fuori sede) attirò antipatie e insofferenza da parte dei confratelli, tanto che nel 1964 fu inviato un visitatore a Tokyo, che peraltro trasmetterà il suo rapporto a Roma quando Arrupe sarà già generale. Un’elezione che avvenne in un momento di «transizione epocale» della Chiesa cattolica e il gesuita di origini basche, poco avvezzo agli ambienti e alle dinamiche curiali ma molto esperto del mondo, essendo la provincia giapponese la più internazionale dell’ordine, trasmise immediatamente ai suoi confratelli l’urgenza di adeguare la missione della Compagnia alle trasformazioni in atto. Arrupe, spiega l’autore, rinnovò il modo di esercitare l’autorità con una diversa concezione del superiore generale, umanizzandolo, spogliandolo dell’aura di solennità che aveva sempre accompagnato la figura del «papa nero» e inaugurando un nuovo stile di governo della Compagnia. Il ritratto biografico e caratteriale viene ben delineato grazie, anche in questo caso, a fonti inedite come quelle contenute nel Fondo Speciale Padri Generali: Pedro Arrupe. Il mandato di rinnovamento ricevuto dalla XXXI Congregazione generale lo costrinse a lavorare su più tavoli, ma tra tanti Arrupe privilegiò tre obiettivi: la riforma delle strutture interne della Compagnia, il ripensamento della missione, il rinnovamento spirituale e dei metodi di reclutamento. I suoi viaggi in Africa, India e America Latina lo convinsero della necessità di trovare una nuova strategia di «accomodamento». La Carta di Rio, una lettera di Arrupe del 1968, diventò un documento chiave per il nuovo impegno dei gesuiti in un continente dilaniato dalla violenza causata dall’ingiustizia sociale. La fiducia di Paolo VI, che lo accompagnò per i primi cinque anni del suo generalato, è confermata nel discorso inaugurale del pontefice alla Conferenza di Medellin. L’invito di Arrupe a obbedire al papa, anche in seguito alle polemiche suscitate dall’Humanae vitae, non è però sufficiente a calmare quanti all’interno della Compagnia e in Curia non concordano con il cambiamento impresso dal generale. Su questo punto sono interessanti le opinioni coeve dei confratelli riportate dall’autore. Per esempio, padre Roberto Tucci, direttore della rivista dei gesuiti «La Civiltà Cattolica», scrisse ad Arrupe lamentandosi delle opposizioni all’interno del Collegio degli scrittori per ogni minimo cambiamento che egli voleva apportare; padre Giuseppe De Rosa, nel 1970, scrisse ad Arrupe per esprimergli le sue preoccupazioni circa le molte voci di dissenso per il suo operato: la lettera, citata per intero (pp. 87-89) rispecchiava in effetti le divisioni e il clima teso all’interno della Compagnia. Nel gennaio del 1969 un gruppo di gesuiti spagnoli stese un documento in cui accusava il generale e il suo Consiglio di debolezza dottrinale, disobbedienza al papa ed eccessiva tolleranza della libertà di opinione. Essi chiesero addirittura a Paolo VI di poter continuare a vivere da gesuiti senza dipendere dal superiore generale. Né il Vaticano né Arrupe compresero subito quanto grave fosse la crisi, di cui la vicenda della «vera» Compagnia spagnola era solo un sintomo. E tuttavia, durante il periodo preparatorio della XXXII Congregazione generale, nel 1973, il segretario di Stato vaticano Jean-Marie Villot scrisse ad Arrupe che la Sede Apostolica seguiva con «crescente ansietà» «una crisi che coinvolge riviste, persone, cattedre in settori ognor più larghi di codesta Compagnia» (p. 113). In un successivo memoriale di tredici pagine, Villot elencava le critiche che «da anni, insistentemente provengono al Santo Padre dall’interno della Compagnia e da numerosi vescovi» (pp. 113-114). Nelle carte di Pedro M. Abellan l’autore ha trovato conferma del fatto che in Vaticano si era anche considerata la possibilità di destituire il generale. Le tensioni tra Paolo VI, Arrupe e la Compagnia aumentarono nel corso della XXXII Congregazione generale, nella quale si discusse l’estensione del quarto voto a tutti i gesuiti e il decreto sul «servizio della fede e promozione della giustizia». I numerosi viaggi di Arrupe tra gli anni Sessanta e Settanta lo avevano convinto sempre più della centralità di quelli che allora venivano chiamati Paesi in via di sviluppo e della necessità che la Chiesa annunciasse il suo messaggio liberatore e si impegnasse per la giustizia sociale.

Le criticità dei rapporti con la Santa Sede vennero espresse in un voluminoso dossier distribuito ai cardinali riuniti nel Conclave che elesse Wojtyla. L’operato dei gesuiti in Centroamerica fece crescere l’idiosincrasia nei loro riguardi: tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta si diffonde la convinzione che i gesuiti siano tra i principali artefici della Teologia della liberazione, che l’opzione preferenziale per i poveri abbia finito per far loro abbracciare l’ideologia marxista. Per questo, scrive l’autore, il problema di chiarire il rapporto tra cristianesimo e marxismo non era più eludibile e Arrupe intervenne sul tema più volte e in modo sistematico nel dicembre 1980.

L’autore ricostruisce i rapporti tra Arrupe e Giovanni Paolo II rivelando particolari per nulla secondari: il timore del papa polacco che le dimissioni del generale e la convocazione della Congregazione portassero all’elezione di un progressista e l’inaspettata scelta di Arrupe sul letto di ospedale di nominare Vincent O’Keefe come suo vicario generale in luogo di Cecil McGarry, come invece dettavano le disposizioni scritte in caso di morte improvvisa. O’Keefe era proprio uno dei candidati invisi a Giovanni Paolo II. Tra l’altro, era stato criticato anche da papa Luciani, in una lettera scritta il giorno prima della sua morte, perché aveva rilasciato un’intervista alla rivista olandese «De Tijd» dalla quale, a causa di alcune forzature giornalistiche, risultava che il gesuita americano si fosse dichiarato favorevole alla regolamentazione delle nascite, al celibato sacerdotale e al sacerdozio femminile. Convinto di non poter più procrastinare la questione, tra settembre e ottobre del 1981 Woityla decise di commissariare la Compagnia e di nominare Paolo Dezza suo delegato personale, coadiuvato da Giuseppe Pittau. L’autore sottolinea che la crisi tra la Santa Sede e la Compagnia è «una delle espressioni di quella più generale crisi, che caratterizza le relazioni tra la Santa Sede e la vita religiosa, negli anni Ottanta e Novanta» (p. 168). Più precisamente: «La decisione di Giovanni Paolo II viene da lontano e rappresenta l’ultimo esito delle ricorrenti tensioni e difficoltà che segnano le relazioni tra la Compagnia e la Santa Sede, durante larga parte del generalato di Arrupe, e corrispondono al crescente scontento rispetto ai suoi indirizzi e orientamenti di governo» (p. 170). È innegabile che Giovanni Paolo II abbia privilegiato i nuovi movimenti ecclesiali, mentre più difficili sembrano essere stati i rapporti con gli ordini religiosi. Ma, come dimostra la storia minuziosamente ricostruita dall’autore, con la scelta di Dezza l’intento di Woityla era molto chiaro: normalizzare i rapporti tra Santa Sede e Compagnia e riportare l’ordine su posizioni più moderate.     

È ciò che accade dal 1983 con l’elezione di Kolvenbach, che traghetta l’istituto religioso più potente della Chiesa cattolica in una complessa fase di transizione in cui il generale è chiamato a porre fine ai dissidi con la Santa Sede e alle divisioni interne, ma anche a rivitalizzare la Compagnia. Ci riuscirà, nonostante i nuovi tentativi di commissariamento sotto il pontificato di Benedetto XVI.

L’elezione di Francesco avvia un nuovo corso non solo nelle relazioni con il pontefice, esso stesso gesuita, ma anche nell’autocomprensione della Compagnia, alla quale è richiesta una nuova collocazione nell’ambito del cattolicesimo.

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