V, 2022/2

Fernanda Alfieri

Veronica e il diavolo

Review by: Michela Ponzani

Authors: Fernanda Alfieri
Title: Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma
Place: Torino
Publisher: Einaudi
Year: 2021
ISBN: 9788806211066
URL: link to the title

Reviewer Michela Ponzani - Rai Storia

Citation
M. Ponzani, review of Fernanda Alfieri, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, Torino, Einaudi, 2021, in: ARO, V, 2022, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/2/veronica-e-il-diavolo-michela-ponzani/

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«Mi trovavo a Roma e stavo cercando di concludere una ricerca su un gesuita che, sul finire del Cinquecento, aveva scritto un trattato sul matrimonio, soffermandosi con grande dovizia di particolari su quello che gli sposi possono o non possono fare nell’intimità». Inizia così uno dei saggi storici più sorprendenti ed emozionanti (stavolta non solo per il pubblico dei lettori ma anche per gli storici di professione) pubblicati da Einaudi negli ultimi anni: Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma (2021).

Scritto con raro talento letterario da Fernanda Alfieri, storica della sessualità in età moderna, il volume racconta le vicende di un esorcismo praticato su una ragazza di diciannove anni, nell’inverno del 1834, in una Roma in procinto di attraversare mutamenti epocali, come la fine dell’età napoleonica, i tentativi di insurrezione mazziniani e l’avvento di regimi liberal-costituzionali.

Dal ritrovamento casuale di un manoscritto – il diario dei due padri gesuiti che praticheranno vari tentativi di esorcismo sulla giovane Veronica Hamerani, per cacciare il maligno dal suo corpo – l’autrice si avventura nei sentieri di un racconto capace di mescolare, in modo suggestivo e non di rado poetico, le cronache di un percorso di ricerca che procede tra fatiche, emozioni, momenti di esaltazione e sentimenti di sconforto, tipici del fare il «mestiere di storico».

C’è in fondo – e gli storici e le storiche lo sanno bene – un enorme privilegio nell’entrare in punta di piedi nelle vite di donne e uomini che hanno vissuto secoli prima di noi, anche solo per assaporare il gusto dei loro mondi, di cosa sognavano, pensavano o speravano. E così nel tentativo di capire cosa accadde alla giovane Veronica nelle varie fasi della sua «esorcizzazione», tra chi la riteneva senza dubbio affetta da possessione demoniaca e chi vittima di isteria o addirittura capace di fingere crisi, per ribellarsi all’autorità di un padre che la umiliava e mortificava, l’autrice riconosce l’esistenza di invalicabili limiti nell’uso delle fonti archivistiche, che non possono dirci tutto, potendo ricostruire solo un piccolo frammento del passato.

Sono di certo gli storici a scegliere i preziosi documenti dai quali partire per ricostruire il loro oggetto di ricerca, in un paziente accumulo di dati che può durare giorni, mesi, talvolta anni; e su quei documenti «riversati, parola per parola, segno per segno, anche quelli indecifrabili, dentro i propri computer portatili», ogni studioso, nella propria solitudine, si ritroverà poi a riflettere e a rimuginare «nei mesi e negli anni a venire in lunghi silenzi».

Ma può accadere, talvolta, nelle rare e fortunate epifanie della vita, che siano le fonti a scegliere noi.

Ed è questo ciò che accade all’autrice, in un pomeriggio passato a consultare carte presso l’archivio dei Gesuiti, guardando ogni tanto dalle finestre «il marmo lavato della cupola di San Pietro», in una Roma cupa e tetra, come solo la capitale sa essere quando viene scrollata da una pioggia torrenziale.  

I documenti d’archivio non possono dirci tutto e il diario meticolosamente redatto dai padri esorcisti della Compagnia del Gesù, ritrovato casualmente, (l’anziano padre Kohlmann, fuggito dalla Francia rivoluzionaria che ha visto crollare il suo antico regime, e il giovane e malinconico padre Manera, forse con una visione più moderna del mondo, pieno di dubbi sulla possessione della ragazza) è una fonte in cui si annidano una marea di insidie, tanto che l’autrice sceglie di dichiararsi apertamente in difficoltà; di non voler illudere il lettore sulle sue capacità di ricostruire l’intera vicenda.

Nel suo disperato e commovente tentativo di voler restituire un volto e una voce a Veronica, di sapere di più della storia della sfortunata fanciulla, di trovare un linguaggio che le renda giustizia, l’autrice fa una scelta: di non nascondere al lettore le sue passioni, le sue emozioni, il suo vissuto personale, quando si scrive di storia.

Le fonti, in fondo, hanno un’enorme potenza narrativa e nella necessità di dover maneggiare i sentimenti e gli stati d’animo che accompagnano la ricerca, la suggestionano e la orientano – un bisogno troppo spesso ancora contestato, in nome di una presunta oggettività del fare storia – Fernanda Alfieri decide di entrare nella narrazione con il suo io scrivente, manifestando senza pudori la propria vulnerabilità e il proprio coinvolgimento nella vicenda della giovane ossessa. Mostrando così, l’esistenza di un filo invisibile tra il passato della presunta indemoniata e il presente di cui si nutre la studiosa.  

Chi era, dunque, Veronica Hamerani (erede di una famiglia di stampatori di monete di origine bavarese, ma romana dal Seicento) e cosa ci dice quel diario di lei? Ricostruire la sua storia ha permesso all’autrice di curare il corpo di una giovane ragazza interrogata, legata, trascinata che con sputi, insulti, l’uso di urla, risate sguaiate, morsi e voci diverse, tentava forse di ribellarsi ai due padri gesuiti, che del corpo di una donna stavano abusando?

Nel corso di un’intervista Fernanda Alfieri ha dichiarato apertamente di essere diventata una storica per caso (dopo aver abbandonato l’idea di studiare medicina), proprio per la sua volontà di interrogarsi sul modo in cui la persona era stata definita in età moderna, a partire dalla dimensione del desiderio; sull’uso/abuso del corpo femminile che le società del passato hanno operato, nella cultura occidentale della lunga età moderna (tra Cinquecento e Ottocento).

Se qualcosa di terapeutico esiste anche nella storia, allora con questo libro siamo davvero dinanzi al tentativo di rendere giustizia a una giovane donna il cui corpo diventa oggetto di redenzione spirituale, secondo i dettami di due padri della Chiesa. Perché, in fondo, come suggerito qualche anno fa da Ivan Jablonka, è solo attraverso la partecipazione emotiva ai sentimenti e alle esperienze dei senza voce, degli esclusi, dei messi ai margini della storia, (dalle donne vittime di violenza nell’età moderna, accusate di stregoneria o di possessione demoniaca, fino alle vittime degli stupri nei conflitti armati o ai martiri della Shoah) che possiamo intravedere una minima possibilità di restituire dignità alle vittime del passato.

Dal diario che i due padri gesuiti hanno tenuto durante i mesi in cui si protrae il rito sul corpo di Veronica, in un via vai di visitatori che bussano alla porta degli Hamerani, fra Campo dei Fiori e il Ghetto, (tra parenti della ragazza, il parroco del rione Sant’Eustachio, medici che parlano di isteria, teologi, filosofi e vicini di casa che credono che la ragazza sia sotto effetto di una fattura) si aprono le porte di un mondo, in una testimonianza straordinariamente viva delle tensioni di un’epoca.  

Dalle pagine del manoscritto, sappiamo che gli esorcisti si recavano ogni giorno nell’abitazione di Veronica per condurre gli interrogatori, effettuati prima in stato di coscienza e poi in stato di delirio. E che sulla base di diverse tecniche, ossia la confessione, la direzione spirituale e l’esorcismo, erano tante le voci che uscivano dalla bocca della ragazza, fino alle ingiurie e ai gesti di autolesionismo.

Ma dagli occhi di chi osservava lei, Veronica, accorrendo al suo capezzale, dalle parole degli indagatori del suo male, in una Roma papalina stretta tra superstizione e modernità, cosa emergeva realmente? Cosa sappiamo davvero di Veronica, della sua vita, dei suoi desideri, della sua volontà? Quali tracce del suo desiderio sono rimaste nella marea di documentazione riemersa dal passato?

Ad entrare nella stanza di Veronica e a lasciare una traccia nella sua esistenza, ci sono solo uomini: padri della Chiesa della Restaurazione che portano in dote studi, scelte religiose, viaggi e anche passati traumatici. Orfani cresciuti nei brefotrofi, poi arruolati come soldati di Gesù nella Compagnia di Ignazio di Loyola, che, nel tentativo di riportare la presunta ossessa sotto il loro controllo, finiscono per proiettare sulla giovane ragazza romana quella che è la loro visione del mondo e la loro volontà. E che lottano con e contro il suo corpo per ricondurlo allo stato di naturale obbedienza, anzitutto a Dio e alla Chiesa di Roma.

E come per le donne accusate di stregoneria, quasi sempre vedove, anziane, donne sole e senza tutela, anche il corpo di Veronica (certamente poco incline all’obbedienza e per questo indagato, annotato in ogni manifestazione dell’io, e poi ammutolito) finisce per trasformarsi in una sede dell’immaginario: il luogo in cui tutti i desideri di passione, di carnalità, di avvenenza o di erotismo devono essere messi a tacere. Tanto che il lettore, nel pellegrinaggio di luoghi che l’autrice compie per raccontare i personaggi di questa storia, seguendo i padri gesuiti nella loro diaspora dalla Spagna alla Francia fino alle Americhe, arriva a sentire i rumori, gli odori e persino i silenzi della stanza dell’indemoniata e del mondo che le gira intorno.

La storia di Veronica è dunque la storia di un corpo femminile che diventa teatro di guerra; un luogo della violenza maschile dove ad emergere è il dolore e dove finiscono per convergere tutte le voci delle vittime della storia.

Scorrendo le pagine del libo si scopre così che la famiglia Hamerani era stata funestata da lutti e che degli otto figli avuti dai genitori di Veronica (due maschi e sei femmine, tutti morti al momento del parto o nei primissimi anni di vita) solo lei era sopravvissuta. Era stata forse questa esperienza dolorosa, il fatto di essere un’erede e al contempo una superstite, a scatenarle violenti attacchi isterici? Questa serie di disgrazie avrebbe potuto indurre a credere che vi fosse una sorta di maleficio sulla famiglia, da parte di chi aveva il compito di portare a termine l’«esorcizzazione» di Veronica?

Le fonti, ancora una volta, non svelano risposte a queste domande. L’autrice suppone, però, che Veronica non fosse la perfetta fanciulla devota, tutta grazie, senza conflitto, senza seduzione, come avrebbe auspicato la sua famiglia d’origine, cresciuta fra pregherie e rosari nella Roma papalina di metà Ottocento.  

L’idea che la donna fosse un essere fragile, senza volontà né razionalità, da guidare e dominare come si fa con i bambini, e che l’essere femminile nascondesse nella sua intima natura la perversione del demonio, fino a diventare un’attrazione peccaminosa per gli uomini di fede (in fondo lo stesso Padre Manera dichiara nel suo diario di non voler guardare in volto le donne per non cedere alla tentazione), ci porta dentro un mondo dominato dall’autoglorificazione della virilità maschile; un mondo in cui la verginità assurge a valori sacrali e in cui gli uomini sono chiamati a imporsi in maniera violenta e a sottomettere. Casta, muta, silente fattrice di prole legittima, rispettosa delle tradizioni familiari: è questo il destino riservato alle ragazze come Veronica Hamerani che, in effetti, dopo qualche visita dei padri gesuiti, inizia a mostrarsi «quieta, modesta, accondiscendente e devota, come avrebbe dovuto esserlo sempre una donna, che fosse votata a Dio o a un marito».

Non è un caso che l’autrice citi nel libro le vicende di un’altra ragazza romana di diciotto anni, presa da possessione demoniaca proprio alla vigilia delle nozze, quando sarebbe dovuta passare – nel suo magnifico destino – dal padre al marito. Per lei, scrive la Alfieri, non senza un velo di ironia, «una rete di attese felicità coniugali a venire e gravidanze, una dopo l’altra, morivano».

Il demonio che queste donne si portano dentro e che le fa parlare troppo, condannandole al disonore e all’immoralità, è dunque la spregiudicatezza, l’impudicizia; l’essere incostanti, di indole leggera, desiderose di ribellarsi a un destino che è la prigione della virtù.

Nell’intenso rapporto che finisce per legare Fernanda e Veronica, fino alle ultime pagine del libro davvero struggenti, in cui l’autrice descrive il percorso che la porta a ritrovare il luogo di sepoltura della giovane Hamerani, presso il Cimitero monumentale del Verano, sembra emergere quasi un comune destino, pur trattandosi di due esistenze così lontane nel tempo.  

Nello sferrare il suo attacco, gentile e spietato, ai modelli di sessualità fondati sulla virtù intesa come castità, l’autrice finisce così per delineare un filo invisibile fra se stessa e l’oggetto del suo racconto: due donne entrambe impavide, guerriere solitarie e coraggiose, disposte a battersi per la propria libertà.

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