IV, 2021/3

Ilaria Porciani (ed.)

Food Heritage and Nationalism in Europe

Review by: Claudio Ferlan

Editors: Ilaria Porciani
Title: Food Heritage and Nationalism in Europe
Place: London - New York
Publisher: Taylor & Francis (Routledge)
Year: 2019
ISBN: 9780367234157
URL: link to the title

Reviewer Claudio Ferlan - FBK-ISIG

Citation
C. Ferlan, review of Ilaria Porciani (ed.), Food Heritage and Nationalism in Europe, London - New York, Taylor & Francis (Routledge), 2019, in: ARO, IV, 2021, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/3/food-heritage-and-nationalism-in-europe-claudio-ferlan/

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Il volume Food Heritage and Nationalism in Europe nasce all'interno del progetto «Horizon 2020 CoHere» (Critical Heritages: Performing and Representing Identities in Europe) e il suo punto di partenza è molto chiaro: il cibo, il gusto, la cucina e la gastronomia sono strettamente legati a costruzione e rappresentazione della storia e delle tradizioni dei luoghi. Si tratta di indagare come nascano e si sviluppino tali legami, e questo è quanto cerca di fare la collezione di saggi che dà forma al libro. Lo studio si organizza in due parti, la prima intitolata «Heritagization and Political Uses of Food», la seconda «Contact Zones and Exchanges», completate da un’introduzione della curatrice Ilaria Porciani (Food Heritage and Nationalism in Europe) e una conclusione firmata dalla stessa Porciani e da Massimo Montanari (Careful with Heritage). In chiusura è presente un buon indice analitico, manca invece la bibliografia, per la ricostruzione della quale il lettore è chiamato a fare riferimento alle note dei singoli saggi.  

L’introduzione fornisce alcuni strumenti necessari alla comprensione delle pagine che seguono, a partire dalla opportuna affermazione che nessuno degli autori condivide l’idea di un nazionalismo acritico e per questa ragione non vi sono capitoli dedicati a singoli paesi, ma l’accento è posto sugli spazi transnazionali di lungo periodo. Sempre nell’introduzione, vengono menzionati due concetti chiave: «gastrodiplomacy» e «heritagization» (presente quest’ultimo anche nel titolo della prima parte). Il primo risulta di più facile traduzione e definizione: si riferisce all’insieme delle azioni intraprese da agenzie governative, pubbliche o private per usare il soft power, ad esempio quello dell’attrattività, utile per conquistare attraverso proposte alimentari il favore di turisti, consumatori e potenziali alleati. Meno agevole l’individuazione della heritagization, usata per fare riferimento soprattutto a un processo attraverso il quale si intende rappresentare consapevolmente la cultura alimentare in senso lato come un’eredità, un sistema ricco di significati storico-geografici e magari anche adatto a sviluppare un senso di appartenenza (Laura Di Fiore, Heritage and Food History). Protagonisti della messa in moto di tale processo possono essere tanto istituzioni quanto individui, con diversi livelli di impegno e consapevolezza, come si può leggere nelle pagine scritte da Fabio Parasecoli (Tradition, Heritage, and Intellectual Property in the Global Food Market). Abbiamo menzionato la geografia, oltre alla storia, perché il legame tra cibo e territorio è un elemento fondamentale nella riflessione sulle rappresentazioni ereditarie-identitarie della cultura alimentare (Paolo Capuzzo, Food and Locality. Heritagization and Commercial Use of the Past). Un interessante punto di osservazione sul valore identitario del pasto quotidiano è proposto da Marica Tolomelli (In the Kitchens of ‘68. The Impact of Student Protest and Counterculture on Attitudes towards Food), mentre in chiusura della prima parte Susannah Eckersley si occupa di memoria e della rappresentazione del cibo in ambito museale (A place at the Table? Food in Museums as an “Ersatz Politics” of Difficulty) usando tre chiavi di lettura tra loro molto diverse: il multiculturalismo, inteso come esito felice; un passato più sano del presente; un passato difficile nel quale si celano i segnali di un futuro a rischio.  

Il primo capitolo della seconda parte, riservata a zone di contatto e scambi, è firmato da Massimo Montanari (A Taste for Diversity), che concentrandosi in particolare ma non solo sul medioevo, in linea con i propri fondamentali studi sulla storia dell’alimentazione, ne pone in evidenza il continuo divenire, l’incessante arricchimento di piatti solo apparentemente tradizionali attraverso le aggiunte di nuovi ingredienti provenienti da terre e culture sconosciute. Catherine Horel suggerisce di seguito una stimolante chiave di lettura relativa all’Impero austro-ungarico, spesso ricordato come esempio di convivenza tra molteplici diversità, incentrato sui viaggi compiuti da alimenti e tradizioni gastronomiche all’interno dei domini asburgici (Francis Joseph’s Tafelspitz. Austro-Hungarian Cooking as an Imperial Project). La complessità di un’altra entità politica composita, quella turco-ottomana, segue in una riuscita successione di ingredienti storiografici che stimolano la possibile comparazione tra i due imperi (Özge Samancı, Images, Perceptions, and Authencity in Ottoman-Turkish Cuisine). Jean-Pierre Williot (Station Buffets and Universal Exhibitions. Places of Mobility for Crossing Food Cultures) propone uno studio sui luoghi ottocenteschi di incontro per antonomasia, ragionando sul contributo di turisti internazionali e migranti alla definizione dell’alimentazione nei paesi di transito o di destinazione. Un deciso passo fuori dall’Europa è quello mosso da Katya Knyazeva (Canteens, Cafés and Cabarets. The Food Culture of the Russian Diaspora in Shanghai, 1920-1950), che attraverso un caso di studio non tra i più noti alla storiografia euro-occidentale indaga aspetti della cultura materiale portata con sé nel lunch-box di un movimento migratorio che si definisce anche attraverso alimenti e luoghi di incontro.  

Quello che sembra mancare per la compiutezza di un libro che si pone obiettivi molto complessi, e dunque di difficile raggiungimento, è una maggiore attenzione alla dimensione religiosa della cultura alimentare europea, seppure vi siano dei fugaci richiami poco presenti, però, per l’età contemporanea. I singoli capitoli toccano una grande varietà di argomenti, a scapito della esaustività. Food Heritage and Nationalism in Europe risulta a fine lettura discontinuo, ma certamente ha il merito di porre sul piatto una vasta quantità di ingredienti assai promettenti. Sarà compito dei cuochi che lo consultano cercare il modo più sapiente per farli coesistere, magari attraverso proposte sempre più innovative a stimolanti. L’ultimo paragrafo della conclusione segna con sicurezza la via per future ricerche: Focusing on Time and not on Space.  

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