III, 2020/1

Maria Passaro

Artisti in fuga da Hitler

Review by: Tomas Sommadossi

Authors: Maria Passaro
Title: Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee
Place: Bologna
Publisher: Il Mulino
Year: 2018
ISBN: 9788815278135
URL: link to the title

Reviewer Tomas Sommadossi - Freie Universität Berlin

Citation
T. Sommadossi, review of Maria Passaro, Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee, Bologna, Il Mulino, 2018, in: ARO, III, 2020, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2020/1/artisti-in-fuga-da-hitler-tomas-sommadossi/

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L’effetto immediato dell’ascesa al potere del partito nazionalsocialista nel 1933 consistette nella cosiddetta "Gleichschaltung", l’allineamento ideologico dell’intero apparato politico, mediatico e culturale. L’omologazione forzata a colpi di censura e terrore travolse da subito anche il mondo delle arti. Due sono gli eventi sintomatici da cui prende le mosse il volume di Maria Passaro: da un lato, poche settimane dopo la nomina a cancelliere di Adolf Hitler, il sequestro del Bauhaus, già fiore all’occhiello della sperimentazione artistica della Repubblica di Weimar; dall’altro, la mostra propagandistica "Arte degenerata", celebratasi nel 1937 con l’intento di condannare pubblicamente “l’intera modernità artistica” (p. 24) e rimarcare il divario tra essa e “il culto nazista della durezza, dell’aggressività e della forza virile” (p. 27). Nel tratteggiare le premesse storico-politiche che produssero la dispersione globale dei protagonisti dell’avanguardia, Passaro passa in rassegna, nel primo capitolo, i presupposti pseudoscientifici che fecero della degenerazione uno stigma estetico. È emblematico il titolo del trattato di Wolfgang Willrich Säuberung des Kunsttempels (1937), dove la voluta ambiguità di Säuberung lascia ben intendere come la bonifica del tempio dell’arte sarebbe dovuta passare attraverso l’epurazione degli artisti.

Nei tre capitoli successivi, il volume si concentra sui percorsi dell’esilio americano, mostrando come quell’anomala fase storica, determinata da un’angosciosa esperienza di sradicamento, si sia rivelata una preziosa occasione di rinnovata creatività, al punto che “l’imponente ondata delle fughe dall’Europa ha l’effetto di cambiare radicalmente il paesaggio artistico internazionale del XX secolo” (p. 11). Il clima culturale statunitense appare particolarmente sensibile agli stimoli di rinnovamento e di internazionalizzazione che l’immigrazione illustre recava con sé. Hitler’s Gift to America titolava un mensile nell’estate del 1943, un’espressione che Passaro fa propria (p. 55) per illustrare la portata epocale del transfer intellettuale euro-americano. Nella cornice di una New York elettrica e cosmopolita ha luogo "Artisti in esilio", “la mostra simbolo di quello storico momento” (p. 62). Voluta dal gallerista Pierre Matisse, con opere di quattordici artisti in fuga (a cominciare da Marc Chagall, Fernand Léger e, ovviamente, papà Henri Matisse), l’iniziativa equivale a “una presa di posizione contro i regimi” “proprio nel momento in cui gli Stati Uniti sono in guerra contro la Germania nazista” (p. 63). Alla deriva sciovinista si oppone “il progetto americano di creare un’arte internazionale” che “possa costituire un prezioso strumento per ampliare l’immaginario delle persone, facilitando l’incontro con l’alterità e riducendo così i pregiudizi verso lo straniero e il diverso” (pp. 63 s.).

Per diversi degli artisti in fuga da Hitler l’attività creativa si intreccia a quella educativa. Nel capitolo "Gli esiliati in cattedra", Passaro presenta i casi esemplari di Hans Hofmann, Josef Albers e László Moholy-Nagy. Erede dell’esperienza della Scuola di arti visive di Monaco, in cui Hofmann aveva messo a frutto la propria formazione parigina, la Hans Hofmann School of Fine Arts di New York rimane nel solco di quella tradizione europea stimolando gli studenti a perseguire la sintesi ideale di linea (Picasso) e colore (Matisse), poiché, citazione d’artista, “questo è il nostro futuro, questo è il nostro problema” (p. 81). Dal canto loro, Albers e Moholy-Nagy, già colleghi al Bauhaus, per quanto su posizioni dissonanti, trapiantano e fanno fiorire in America le loro concezioni artistiche weimariane. Il primo metterà a punto, nelle aule del neonato Black Mountain College prima e a Yale poi, quel "cromatismo scientifico di ispirazione goethiana" (p. 101) che troverà la sua applicazione più compiuta nella celeberrima serie di Omaggi al quadrato. Anche il contributo di Moholy-Nagy al New Bauhaus e alla School of Design di Chicago lascia il segno. Passaro evidenzia la visione avveniristica di un design sì tecnologicamente avanzato, ma anche sensibile all’impegno civile. Le sofisticate tecniche di camouflage messe a punto durante la guerra su incarico governativo precorrono i tempi dei “visual studies, luogo di convergenza di saperi teorici e strategie operative connessi allo studio dei media e dei linguaggi visuali” (p. 120).

L’ultimo capitolo, più tecnicamente storico-artistico, si compone di tre ritratti individuali rispettivamente di Max Ernst, Piet Mondrian e Lyonel Feininger, di cui Passaro mette in luce gli impulsi disseminati durante il loro transito attraverso la scena artistica americana, accompagnando il lettore a scoprire influssi, affinità e relazioni interculturali e intergenerazionali. Per esempio, tra Ernst e Jackson Pollock, nel cui dripping converge la tecnica dell’oscillazione dell'artista tedesco, cosa non di poco conto. Le geometrie musicali dell’ultimo Mondrian (morto a New York nel 1944) precorrono “la fine dell’opera pittorica tradizionalmente intesa” (p. 149); Passaro ne trova la dimostrazione nei neon verdi, altrettanto geometrici, che Dan Flavin dedica negli anni Sessanta alla memoria dell’artista olandese. Anche lo stesso Feininger, forse il più sofferente per la sua condizione di esule (“Gli mancava l’intimo rapporto con le cose. … I [disegni dei] grattacieli di New York mostrano un desolante vuoto metafisico”, pp.158 s.), trova conforto nel sodalizio intellettuale con Mark Tobey, con il quale condivide la cura calligrafica del segno così come l’amore per Bach, simbolo del più alto umanesimo tedesco che nemmeno Hitler poté scalfire.

Il lavoro di Maria Passaro è più che meritorio non solo per la ricchezza di suggestioni e l’avvincente alternanza di riflessione teorica e saggi di pittura, grafica e design, ma ancor più per la capacità di mettere in luce, con una prosa lucida ed essenziale, i complessi intrecci e le ibridazioni lungo l’asse transatlantico durante la complessa fase di transizione tra la klassische Moderne e il dopoguerra.

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