VI, 2023/3

Marco Armiero, Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg

La natura del duce

Review by: Simona Boscani Leoni

Authors: Marco Armiero, Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg
Title: La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo
Place: Torino
Publisher: Einaudi
Year: 2022
ISBN: 9788806225049
URL: link to the title

Reviewer Simona Boscani Leoni - Université de Lausanne

Citation
S. Boscani Leoni, review of Marco Armiero, Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg, La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo, Torino, Einaudi, 2022, in: ARO, VI, 2023, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/3/la-natura-del-duce-simona-boscani-leoni/

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Il libro analizza le ecologie politiche del fascismo, cioè le pratiche e i discorsi attraverso cui è stata percepita, costruita, trasformata la natura (o meglio, le nature) in funzione delle necessità ideologiche del regime fascista. Fin dall’introduzione, gli autori mettono in evidenza le sostanziali differenze dell’approccio fascista alla natura rispetto alle culture e ai movimenti ambientalisti del dopoguerra. Tale approccio si contraddistingue dalla volontà aggressiva, di supremazia e d’addomesticazione nei confronti della natura e delle popolazioni (in Italia e nelle colonie) come viene mostrato nella rigorosa analisi condotta nei sei capitoli dell’opera.[1]

Il primo capitolo Il Duce e la natura fascista si concentra, dapprima, sul rapporto tra Mussolini e la natura così come descritto in due biografie redatte da due donne che ebbero un ruolo centrale nella sua vita: Margherita Sarfatti e la moglie Rachele. Quella di Scarfatti, pubblicata in inglese a Londra nel 1925, descrive un Duce in ascesa, un esempio di vera razza italiana romagnola, primitiva e feconda, un maschio dotato di una natura leonina. Anche le montagne (il Friuli, le Alpi carniche) assumono un ruolo centrale nella costruzione dell’immagine del Duce, diventando parte integrante del mito fascista della ruralità contrapposta alla mollezza intellettuale e cittadina. La seconda biografia in questione, quella di Rachele Mussolini, venne pubblicata nel 1948 a Milano. In questo caso (siamo già nel dopoguerra) l’autrice sottolinea soprattutto il rapporto del marito con gli animali addomesticati: cani, gatti, cavalli e cerca di trasmettere un’immagine intima e innocua del fascismo. La natura è anche presente nei discorsi di Mussolini, a cui è consacrata la seconda parte del capitolo. Il Duce insisteva spesso sulla necessità del lavoro umano (supportato dalla tecnologia, dagli ingegneri) per «migliorare» e rendere fertile una natura descritta come «malata», il cui sfruttamento doveva essere potenziato. La natura diventava, quindi, una sorta di palestra dove plasmare i corpi della vera razza italiana e fascista. Di quest’idea di natura antropizzata, così come del mito del ruralismo, si fece portavoce dal 1925 in avanti il movimento culturale di Strapaese animato da Mino Maccari.

Oggetto del secondo capitolo Guerre naturali: grano e paludi sono due imprese del regime fascista, la battaglia del grano e la bonifica integrale, due progetti che ben incarnano l’idea aggressiva nei confronti della natura tipica del fascismo. L’analisi della battaglia del grano ne evidenzia l’impatto ecologico negativo: l’imposizione della coltura di cereali in territori poco adatti portò a gravi conseguenze per l’ambiente, favorendo – ad esempio – fenomeni d’erosione. Per quanto riguarda le bonifiche, esse erano già parte integrante delle politiche postunitarie, ma il regime fascista le trasformò in opere «integrali», in lavori pubblici permanenti (p. 30). Tali «bonifiche integrali» riguardavano anche la sistemazione dei torrenti montani, la razionalizzazione delle coltivazioni, l’organizzazione della proprietà terriera, fino ad arrivare a toccare la gestione dei pascoli e delle foreste. In quest’ambito, la considerazione nei confronti delle esigenze (e degli usi tradizionali) delle popolazioni locali fu nulla, favorendo – per contro – l’introduzione di specie allogene, come anche la diffusione dei latifondi nel Meridione. Le bonifiche servirono anche a trovare lavoro ai contadini impoveriti (si pensi ai lavoratori veneti e friulani nell’Agro pontino), ma ebbero un impatto più simbolico che reale. Grazie alla propaganda di regime entrambi i progetti furono, invece, recepiti positivamente a livello internazionale.

Il capitolo 3 Modernità fascista analizza il concetto di autarchia, legato all’idea mussoliniana di un’Italia «naturalmente» povera che necessiterebbe d’ingegno (scienza e tecnica) e lavoro per emanciparsi. Al centro dell’analisi vi sono due esempi di tale modernità: le dighe e il motore a gasogeno. L’esigenza di costruire dighe per la produzione d’energia idroelettrica era già presente fin dagli inizi del Novecento ed era animata dall’intento di sopperire alle scarse risorse di carbone fossile e di petrolio sul territorio italiano. La costruzione di dighe ebbe come conseguenza la riforestazione di alcune regioni e l’esclusione dall’uso dei boschi delle popolazioni locali, inasprendo la repressione proprio contro quel mondo contadino tanto osannato dal ruralismo fascista. Il governo del Duce, oltre a favorire gli interessi dei grandi gruppi industriali e bancari, finiva per occultare le difficoltà e i rischi di tali progetti, anche in caso di catastrofi quali il crollo di dighe. Del piano energetico autarchico facevano parte lo sfruttamento di miniere e la ricerca di petrolio in patria e nelle colonie balcaniche e africane, come anche lo sviluppo del motore a gasogeno alimentato con materiali di scarto provenienti dall’agricoltura e dalla silvicoltura. Gli studi di caso delle dighe e del motore a gasogeno mostrano chiaramente come il rapporto del regime fascista con la natura e l’ambiente fosse inteso come un’imposizione «sugli ecosistemi e sulle comunità locali»: la natura meritava di essere protetta essenzialmente perché funzionale agli interessi nazionali (p. 68). Il regime della tutela è il titolo del quarto capitolo nel quale si riflettono le diverse pratiche e i discorsi intorno alla tutela della natura. In quest’ambito rientrava la creazione dei parchi nazionali, la cui gestione subì un cambiamento fondamentale nel 1926 con la trasformazione del Corpo reale delle foreste nella Milizia nazionale forestale, a sua volta incorporata nella Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Quest’ultima diventerà – in pratica – l’amministratrice dei parchi portando al peggioramento della protezione degli animali e all’inasprimento dei conflitti con le popolazioni locali che si vedevano private delle risorse boschive e della caccia. Nel quadro della propaganda fascista, i parchi del Circeo e dello Stelvio divennero una sorta di «spettacolo», un mezzo per valorizzare non tanto la natura, quanto la romanità imperiale (Circeo) e l’eroismo italiano all’interno del mito della nascita della Nazione dalla Grande Guerra (Stelvio).

Nel capitolo quinto Le ecologie dell’impero si evidenzia l’impegno del regime, ma anche d’intellettuali (per lo più uomini) e di case editrici come la De Agostini, nel diffondere conoscenze sulle colonie, esaltandone la necessità per la madrepatria. In riviste come «L’Italia coloniale» vennero pubblicate numerose testimonianze che lodavano i successi della colonizzazione, mentre la «sanguinosa tragedia» (p. 107) del progetto coloniale nel suo insieme veniva scientemente occultata. Il mito propagato era quello delle colonie come un Eldorado, terre da vincere e dominare in una sorta «creazione dal nulla» che faceva di loro, così come delle zone montane e delle terre da bonificare, dei luoghi predestinati a forgiare il vero fascista (pp. 97-98). Il fallimento fu, invece, totale: tanto nell’ambito minerario (con l’investimento a fondo perduto di 50 milioni di lire), quanto agricolo (nell’incapacità di fronteggiare un clima diverso rispetto a quello europeo marcato dalla stagione delle piogge e dalla siccità), per non parlare delle violenze perpetrate nei confronti delle popolazioni locali. 

L’ultimo capitolo Paesaggi fascisti oltre il fascismo propone una riflessione sulle continuità nei paesaggi urbani e rurali italiani tra il fascismo e l’Italia repubblicana. Un esempio tra i più interessanti è quello del Monumento al Legionario commissionato nel 1938 allo scultore Romano Romanelli che avrebbe dovuto essere trasportato ad Addis Abeba, centro dell’impero italiano in Africa orientale. Nell’impossibilità di collocarlo là dove era stato previsto, esso fu conservato, riciclato e "neutralizzato" (dopo aver censurato i riferimenti fascisti e cambiato l’intitolazione varie volte) ed esposto nel 1968 come Monumento ai Caduti d’Africa in Piazza dei Cappuccini a Siracusa. La parabola di questa scultura mette in evidenza forme di «narrazione tossica» (Wu Ming, p. 123) all’interno di una storia repubblicana che non vuole veramente fare i conti col proprio passato fascista e coloniale. Casi simili si ritrovano a Littoria (diventata Latina), nella quale pur si conservano molte iscrizioni che ricordano il passato fascista e nella conservazione/riapparizione di scritte di dimensioni imponenti che marcano il paesaggio montano ad Antrodoco e a Villa Santa Maria. Questi esempi evidenziano il pericolo della “neutralizzazione” di tali segni nel paesaggio, un processo che rischia di farli divenire dei residui del passato senza profondità storica e senza memoria, a cui ci si abitua in modo acritico.

Il libro si chiude con delle conclusioni che tirano le fila dei diversi punti sottolineati nei sei capitoli precedenti e con un indice analitico.

L’opera è fondamentale per diverse ragioni. Dapprima perché, per la prima volta, si evidenzia la portata dell’ecologia politica fascista, sottolineando quanto pratiche e discorsi sulla natura fossero funzionali al discorso del regime. Con le loro analisi gli autori chiariscono le differenze tra i movimenti ambientalisti che si sono sviluppati nel secondo dopoguerra e il significato di natura e di tutela della natura fascista caratterizzati da un approccio “guerresco” che vuole addomesticare il mondo naturale percepito nel suo aspetto utilitario. In questo approccio aggressivo rientrano i disastri idroelettrici e minerari messi a tacere dal regime, le bonifiche integrali pagate con la salute dei lavoratori, ma anche la scarsa sensibilità ecologica di un regime che pensava d’introdurre piante o specie animali allogene nei boschi e nei parchi nazionali. Questa poca (per non dire nulla) considerazione dei contesti ambientali diversi è visibile anche nell’esclusione delle popolazioni locali nei processi decisionali, che si tratti dell’organizzazione dei parchi naturali o dei regolamenti d’uso dei pascoli e dei boschi. Secondariamente, il libro è fondamentale perché sottolinea la continuità di alcune politiche d’intervento sul paesaggio e sull’ambiente tra i governi liberali postunitari, il fascismo e lo stato repubblicano: si pensi ai progetti si bonifica, alla creazione dei parchi naturali o ancora ad aspetti legislativi legati alla tutela dell’ambiente. Inoltre, perché propone una riflessione attualissima sulla memoria, sia delle catastrofi naturali (negate dal regime), sia legata ai monumenti e agli altri segni lasciati nel paesaggio dal fascismo (ma il discorso è valido anche in altri contesti storici e geografici). Infine, perché gli autori dimostrano ancora una volta le potenzialità fortemente e positivamente “politiche” della storia ambientale nel suo proporre nuove prospettive d’analisi e nuove questioni trasversali che toccano il passato e, quindi, anche il presente.

 

[1] L’introduzione, la conclusione e i capitoli I e III sono redatti da Marco Armiero, i capitoli II e IV da Wilko Graf von Hardenberg, e V e VI da Roberta Biasillo.

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