VI, 2023/2

Giorgio Caravale

Libri pericolosi

Review by: Mario Infelise

Authors: Giorgio Caravale
Title: Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna
Place: Roma - Bari
Publisher: Laterza
Year: 2022
ISBN: 9788858147511
URL: link to the title

Reviewer Mario Infelise - Ca' Foscari - Università di Venezia

Citation
M. Infelise, review of Giorgio Caravale, Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna, Roma - Bari, Laterza, 2022, in: ARO, VI, 2023, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/2/libri-pericolosi-mario-infelise/

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1. Il libro di Giorgio Caravale segna un punto fermo nella recente e ricca produzione italiana di studi sulla censura libraria dell’età moderna. Opera di sintesi, affronta un tema centrale della storiografia italiana degli ultimi decenni. Il sottotitolo Censura e cultura italiana in età moderna ne fissa i contorni complessivi, suddivisi in cinque parti che si imperniano soprattutto sul XVI secolo, «l'età aurea della censura», ovvero quella stagione che vide nascere e affermarsi un apparato di controllo preventivo e repressivo su tutta la produzione a stampa condotto in primo luogo dalle istituzioni ecclesiastiche cattoliche, come difesa e reazione all’affermarsi della Riforma protestante. Fu un «disegno ambizioso, esplicitamente coercitivo, segnato da un tratto inequivocabilmente totalizzante», ma alla fine anche velleitario. Finirono sotto la lente dei censori non soltanto i libri sospetti di eresia, ma anche quelli contenenti frasi offensive per la reputazione dei religiosi, affermazioni lesive della fama dei principi, proposizioni contro la libertà ecclesiastica.

Il Cinquecento è dunque il cuore del libro, anche se non mancano riferimenti a epoche precedenti e successive, ma sempre con lo scopo di illustrare quel sistema che allora venne concepito e messo in piedi e gli effetti di lunga durata sulla cultura e sulla società italiana. Non vi è dunque uno sviluppo cronologico, ma una ripartizione tematica, volta a mettere a fuoco gli aspetti centrali della questione. Si parte dall’affermazione della nuova tecnologia della stampa, che si impone in Italia molto velocemente, a causa della difficoltà di fissare sistemi di protezione efficaci per quei prodotti dell’ingegno destinati a divenire merce. È su questo mondo che si abbatte l’ambizioso progetto ecclesiastico di imporre un rigido controllo centralizzato, allestendo istituzioni e strumenti precedentemente inesistenti con lo scopo di vegliare sui pericoli che la parola stampata poteva alimentare.

Si passa quindi agli obiettivi del neocostituito apparato di vigilanza e viene accuratamente messa a fuoco «l’offensiva contro il volgare». Uno degli effetti principali della diffusione della tecnologia della stampa era stato l’incremento dell’alfabetizzazione e del desiderio di leggere di quei settori della società precedentemente «non letterati» che non conoscevano il latino, gli stessi ambiti in cui la predicazione protestante aveva colto importanti risultati. Fu pertanto tutto l’universo della lettura volgare, per scopi educativi, o semplice piacere a cadere sotto stretta osservazione. È questa una parte rivelante del libro che affronta la diffusione dei romanzi, dei classici dell’antichità e di tutte quelle forme di scritture dalla problematica conservazione, come i fogli volanti e le stampe effimere, i libelli infamanti, le orazioni superstiziose, gli almanacchi. Dalla scrittura a stampa si deviò quindi verso altre forme di comunicazione capaci di suggestionare il pubblico poco o per nulla alfabetizzato. Ci si occupò di regolamentare le immagini, anche se con limitati risultati; si provò a «indirizzare» l’oralità e a disciplinare il canto.

Nelle due ultime parti si prendono in considerazione gli effetti. L’apparato predisposto non si limitò a proibire e a escludere, ma tese a espurgare, mutilare, cambiare il senso dei libri. La seconda metà del Cinquecento vide un impegno straordinario in tale direzione, certamente superiore alle forze di cui le istituzioni preposte potevano disporre. Alle drastiche proibizioni dell’Indice paolino successero le disposizioni forse ancor più inquietanti del tridentino che consentivano di espurgare testi che dopo tali procedure potevano ritornare in circolazione. Insieme ai censori, entrarono in campo i filologi, che riscrissero opere tra le principali della letteratura italiana, dal Cortigiano al Decameron, sulla base di precise e studiate direttive. Nessun aspetto del sapere rimase indenne. Vecchi testi non ritenuti più idonei, anche se non proibiti, vennero corretti. Non rimase indenne la storia che tese a reinventare il passato e non si salvarono neppure i teologi teorici del controllo, se anche Roberto Bellarmino, cardinale e gesuita, corse il rischio di vedere le proprie Controversiae nell'Indice di Sisto V che poi non venne promulgato.

Inevitabilmente la costruzione di questo complesso apparato creò un ambiente diverso. L’autocensura, la dissimulazione, la scrittura tra le righe divennero regola. L’intera società dovette adattarsi al nuovo clima. Mutarono i cataloghi dei librai, i generi e le abitudini culturali. «Leggere, nonostante tutto», titola Caravale per spiegare comportamenti e atteggiamenti dei lettori. In uno dei migliori libri su temi vicini di una trentina di anni fa, Silvana Seidel Menchi aveva spiegato le trasformazioni generazionali subite dai lettori[1]. Chi fu testimone del passaggio da un regime di sostanziale libertà a uno sorvegliato visse le proibizioni come una sorta di violenza, ma chi venne dopo finì con l’abituarsi al nuovo clima e con l’introiettare le proibizioni. Caravale illustra con abbondanza di dettagli questo complesso processo di adattamento, che ebbe ripercussioni in tutti gli aspetti della vita. Chi scriveva doveva infatti conoscere il sistema e trattare con i censori. Tipografi e librai finirono con l’adeguarsi passivamente al nuovo corso, ma qualcuno si attrezzò a correre i rischi della produzione clandestina che sino al pieno Settecento fu elemento caratterizzante del mercato editoriale.

Il volume si conclude con una serie di considerazioni sul presente che tornano assai di frequente nel dibattito pubblico nazionale. In Italia si dice che «molti scrivono, pochi leggono». Grandi scrittori del passato, a partire da Giacomo Leopardi, hanno lamentato tale situazione che continua a trovare conferma nelle desolanti statistiche annualmente pubblicate dall’Istat sui livelli medi di lettura, decisamente più bassi rispetto a quelli degli altri paesi europei ai quali normalmente si fa riferimento. E più o meno automatica è l’associazione tra tale aspetto della situazione attuale e gli ostacoli posti alla libera lettura nel corso dei secoli, a partire dal periodo preso in considerazione. Non è forse un caso che proprio questo aspetto sia stato colto nelle varie recensioni sulla stampa che il libro ha avuto.

2. Il volume offre molteplici spunti di discussione, sia di carattere storiografico, sia più generali, connessi in molti casi con aspetti non secondari della storia e dell’identità nazionale. Non vi è dubbio che il discorso sulla censura libraria in altri paesi europei, come Francia, Inghilterra e Spagna, tenda più frequentemente a essere legato al problema della costruzione dello stato. In Italia invece gli studi restano ancorati alla necessità di chiarire il nesso tra controllo e istituzioni ecclesiastiche e hanno un archetipo ben noto. È stato Antonio Rotondò nel 1973 a pubblicare nella Storia d’Italia (Einaudi) un saggio giustamente famoso che ha quasi il medesimo titolo del sottotitolo del libro di Caravale, La censura ecclesiastica e la cultura. Lo studio attribuiva all’intervento della Chiesa la principale responsabilità del presunto isolamento della cultura italiana da quella europea dopo il Concilio di Trento[2]. Era stata quella la stagione in cui l’organizzazione repressiva si era affermata e rafforzata. Alla fine del secolo i principali risultati erano stati raggiunti. Solo la Repubblica di Venezia, grazie all'opera di Paolo Sarpi, era riuscita a resistere all'offensiva controriformistica, ma anche quel baluardo finì in seguito con l’indebolirsi. La ripresa della cultura italiana e il ricongiungimento con l’Europa sarebbero avvenuti solo a partire dagli inizi del Settecento. Benché l'attività repressiva proseguisse, perse però di efficacia, non essendo più in grado di fronteggiare la prepotente avanzata dei Lumi.

A quel modello si sono ispirati fortemente buona parte degli studi successivi, che hanno approfittato dell’apertura nel 1998 dell’archivio della Congregazione per dottrina delle fede - che conserva i materiali della Congregazione dell’Indice - per approfondire in dettaglio i molteplici aspetti di quel sistema e quindi il funzionamento dell’Indice e l’attività repressiva del Sant’Uffizio. Tra i molti studi usciti hanno soprattutto lasciato il segno i tre libri di Gigliola Fragnito, pubblicati tra 1997 e 2019, che centrano l’attenzione su vari aspetti nodali, ma legati da un filo conduttore dominante: la proibizione della lettura in volgare della Bibbia e gli effetti sulla letteratura, questioni su cui ha finito con l’imperniarsi la discussione sulle conseguenze di lungo periodo dell’apparato allestito dalla Chiesa[3]. Gigliola Fragnito descrive quello che definisce il «progetto pedagogico post-tridentino», all’interno del quale «ebbero un posto di primo rilievo i testi in volgare» e «l’aura di sospetto» che «finì col circondare il libro, qualsiasi libro». Contro la diffusa idea di una funzione disciplinante della censura, funzionale anche alla costruzione dello stato moderno, Fragnito ha insistito con forza sull’azione repressiva volta alla «moralizzazione dei fedeli», con l’intento consapevole della Chiesa «di esercitare più facilmente il suo potere sulle menti e sulle coscienze, riducendo i fedeli a ‘minorenni’ perpetui»[4].

All’intransigente posizione di Gigliola Fragnito non sono mancate le obiezioni. Vale la pena citare per qualità di riflessione e per passione argomentativa, la «polemichetta» – come la chiama l’autore – fitta di divagazioni e lunga 730 pagine di Amedeo Quondam, che sostiene «la necessità di una profonda revisione dei paradigmi delle nostre storie dell'età moderna, compresa la stagione della cosiddetta Controriforma». A suo parere «il gioco delle parti tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’ con l'inquisitore factotum onnipresente e decisore universale e con un'idea dell'inquisizione come passepartout della storia moderna in tutti i campi [è] ancora troppo segnato da un archetipica invidia della Riforma, questa sì di esplicita matrice anticlericale in senso proprio», divenuta una sorta di tratto distintivo del carattere nazionale italiano. Pur chiarendo di non avere intenzione di minimizzare il forte impatto della censura ecclesiastica, Quondam tiene a essere esplicito nelle sue conclusioni: «nulla della letteratura del Rinascimento è andato perduto» [5].

3. È chiaro che le due posizioni, quella di Fragnito e quella di Quondam, sono da prendere in considerazione con grande attenzione per l’importante e intelligente apporto analitico e documentario e per gli infiniti spunti che ne possono derivare. Entrambe hanno però un aspetto comune, che è quello di puntare lo sguardo, in primo luogo, sulla censura ecclesiastica e meno su altro. C’è però da chiedersi, se non vi siano ulteriori aspetti che è importante mettere in gioco, se il fine è quello di comprendere l’insieme delle interrelazioni tra opinioni, scrittura e potere. Ho infatti l’impressione che all’accumulo di dati che nel tempo è stato prodotto, si debbano affiancare riflessioni circa il ruolo che i sistemi di controllo hanno avuto, all’interno di un tentativo più articolato di definire le relazioni tra la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero e le eventuali costrizioni sociali, politiche e culturali che vanno in senso contrario, all’interno di un itinerario che non deve avere una prospettiva teleologica, che semplificando va dalle proibizioni e dai controlli antichi alle libertà contemporanee. Edoardo Tortarolo ha notato, traendo spunto da Max Weber e Norbert Elias, che il discorso sulla censura è stato spesso inconsapevole, mentre «la storia dell’Europa moderna ha avuto nella continua costruzione, decostruzione e ricostruzione dei sistemi di controllo sulla comunicazione scritta una sua dimensione fondamentale, la cui importanza non sempre è stata colta in tutto il suo valore»[6]. Da qui, dunque, la necessità di storicizzare, muovendosi in equilibrio tra elaborazione di concetti interpretativi e analisi di situazioni specifiche, nel proposito di capire perché in determinate situazioni certe società finiscano con l’avvertire più che in altri momenti il pericolo della parola libera, sulla spinta dell’emergere di preoccupazioni e timori ritenuti in grado di mettere in discussione la convivenza civile. La delicatezza della questione è aggravata dalla difficoltà di prescindere dalla constatazione che si ha a che fare con quanto dalla fine del Settecento è divenuto uno dei cardini dei diritti umani in tutti gli ordinamenti di matrice democratico-liberale.

Qui naturalmente le questioni tendono a complicarsi, anche perché le suggestioni che ci derivano dal presente diventano inevitabili. Viviamo ormai, almeno dall’inizio di questo secolo, una stagione di profonde trasformazioni. Se il cambiamento è un tratto normale nella storia, più eccezionale è l’irruzione nella nostra quotidianità degli effetti di tecnologie della comunicazione precedentemente inesistenti e inimmaginabili che hanno alterato in profondità e in pochissimo tempo il nostro rapporto con quest’ordine di questioni. E pur vivendo in un’epoca e in luoghi in cui la libertà di espressione è costituzionalmente garantita, è un dato di fatto che essa non è assoluta, ma deve essere bilanciata con altri diritti. È questo un argomento di vivace confronto non solo sulle pagine dei giornali, ma anche nelle riflessioni di filosofi, giuristi, politici. Al riguardo pare istruttivo il dibattito in corso tra i giuristi che, constatando la proliferazione dei reati di opinione e la crescente tendenza a ricorrere allo strumento penale per questioni che hanno a che fare con la libertà di espressione, si chiedono cosa sottintendano queste forme di criminalizzazione del pensiero. Negli ultimi vent’anni, negli ordinamenti di molti paesi, sono infatti comparse nuove fattispecie di reati di opinione, alle quali magari facciamo poco caso poiché tendono a colpire aspetti francamente odiosi che non vorremmo tutelare. Si è partiti dalle sanzioni nei riguardi del negazionismo della Shoah, riconosciuto come reato nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea e punto di partenza per la repressione di altre situazioni ritenute analoghe[7]. Si pensi alla negazione del genocidio armeno o a questioni più locali, come la legge polacca del 2018 che punisce penalmente chi accosta la Polonia a crimini legati all’olocausto[8]. In vari paesi, come in Francia e Spagna, inoltre, le più recenti disposizioni contro il terrorismo si accompagnano a norme che toccano le manifestazioni di opinione, con formulazioni spesso ambigue, suscettibili di estensione[9]. Ma tali fattispecie stanno allargandosi velocemente ad altri ambiti, quali razzismo, discriminazioni religiose, xenofobia, omofobia. Contemporaneamente aumentano le comunità identitarie che per una ragione o per l’altra avanzano richiesta di non essere turbate nelle loro convinzioni e di non essere offese. Parallela è l’attenzione nei riguardi delle false notizie (tema peraltro antichissimo), verso i discorsi d’odio e le mutazioni del linguaggio pubblico, che costituiscono un aspetto non secondario della questione.

È naturalmente banale, ma non superfluo, rilevare che le sensibilità che spingono in queste inedite direzioni sono soprattutto effetto dei nuovi media centrati sulla disintermediazione, ma anche sull’esistenza di piattaforme digitali private sottratte alle giurisdizioni tradizionali. Ne è derivata una relazione libertà/potere assai diversa non solo rispetto all’ecosistema creato dalla stampa, ma anche all’universo elettronico descritto dai sociologi della comunicazione della seconda metà del Novecento, a partire da Marshall McLuhan. È una situazione in incessante evoluzione con tratti fortemente contradditori, sicché più o meno contemporaneamente vediamo un ex-presidente degli Stati Uniti escluso e poi riammesso sul principale canale sociale privato di comunicazione politica e grandi potenze come Cina e Russia all’opera per rinchiudere internet nei propri confini territoriali.

Non intendo andare avanti su tali aspetti e mi fermo su due osservazioni. La prima che traggo appunto dagli studi dei penalisti è che la libertà di espressione è considerata un «diritto relativo, suscettibile, in base ad un giudizio di bilanciamento, di essere limitato in nome di altri interessi in gioco nelle diverse situazioni concrete, fermo restando il principio che non può essere affare dei giudici lo stabilire la verità nella storia[10]. La seconda è che tale ordine di questioni trae origine dallo scontro tra le paure del nostro tempo e la natura imprevista dei nuovi media che ci mettono di fronte a situazioni del tutto impensabili sino a vent’anni fa. Mi chiedo pertanto se quest’ordine di ragionamenti possa fornire spunti per la comprensione del passato e, se in particolare, può riferirsi anche al nostro Cinquecento, che ha visto traumatiche trasformazioni nei sistemi di comunicazione non estranee all’evoluzione dei suoi conflitti religiosi e politici. Ogni stagione, del resto, finisce col tentare di definire quali siano i limiti accettabili della propria libertà, sulla base di criteri soggetti a continue alterazioni. Sappiamo che le sensibilità mutano profondamente nel tempo, con accelerazioni talvolta improvvise, e che queste si accompagnano al bisogno di erigere o di demolire muri.

Quanto detto porta a riflettere sui confini incerti del dicibile: cosa è lecito dire e scrivere in privato o in pubblico, cosa non suscita problemi ad ascoltare o leggere pur in permanenza del dissenso, cosa invece deve essere radicalmente escluso, tenendo conto di tutte quelle interferenze esterne che possono rendere accettabili determinate affermazioni in certe epoche e in certi contesti e invece decisamente sconvenienti in altri. Mi pare insomma che si debba ragionare su una sorta di range del comunicabile, che tende a oscillare sistematicamente. In questa prospettiva di studio, ne consegue che debbano essere tenute presenti tutte le articolazioni possibili del comunicare: lo scritto nelle sue varie manifestazioni, il parlato, le immagini. Se l’obiettivo è il controllo o la libertà delle opinioni, l’esito ovviamente è il risultato dell’interazione di tutti questi strumenti.

4. Questo genere di considerazioni torna quindi utile se si guarda all’epoca immediatamente precedente la definizione del sistema di censura cinquecentesco. In genere, quando si studia il periodo in cui la nuova tecnologia dei caratteri mobili venne ad affermarsi, prevale, com’è naturale, l’attenzione nei riguardi dell’innovazione. I cinquant’anni che hanno cambiato l’Europa è il sottotitolo della ricerca condotta negli ultimi anni da Cristina Dondi e finanziata dall’European Research Council, circa l’impatto dell’invenzione della stampa nella seconda metà del XV secolo[11]. Il termine rivoluzione è stato insistentemente utilizzato dagli storici per spiegare le conseguenze dell’affermazione dei caratteri mobili, riprendendo il celebre aforisma di Francis Bacon sulle tre invenzioni sconosciute agli antichi – bussola, artiglieria, tipografia – che hanno cambiato il mondo e definito la modernità. Ma non esiste rivoluzione che non abbia i suoi lati oscuri e provare a svelarli può avere qualche utilità anche per comprendere a fondo l’esito dell’innovazione e non relegare le inevitabili vittime, quando se ne parla, nel folklore reazionario. In questo caso vi era chi ne aveva additato i pericoli a causa della velocità inaudita con cui era stata in grado di diffondersi e, di conseguenza, della facilità con cui aveva messo nelle mani di un popolo indotto testi molto delicati, come le scritture sacre. Il copista Filippo da Strada lamentava il crollo improvviso del suo mondo:

«Grazie alle stampe i giovani tralascino l'arte dello scrivere a mano che era loro molto adatta e amino le nefandezze della carne […] Grazie alle stampe si ritiene che tutto il popolo sia stato colpito da una grave pazzia che prima aveva evitato […] Grazie alle stampe la mente vaga che strappa non assimila a niente di quello che legge come fa lo scrittore quando ricorda; grazie alle stampe sono costretto a concludere che ci fu la luce senza luce e che ora possono splendere tenebre profonde»[12].

Ma se un vecchio amanuense poteva prefigurare un’apocalisse che non si verificò in quei termini, altri timori sono da tenere maggiormente in considerazione, prendendo atto che per alcuni decenni la tipografia fu sostanzialmente libera e che, se vi furono provvedimenti restrittivi, risultavano in genere inefficaci per la difficoltà di farli rispettare. Un punto di svolta è certamente attorno al 1515, poco prima dell’avvio della predicazione luterana. Nel gennaio di quell’anno Aldo Manuzio diede alle stampe il De rerum natura di Lucrezio. Nella dedica Manuzio presentava l’autore come filosofo grandissimo, «ma pieno di falsità», in netto contrasto con lo spirito autentico del cristianesimo. Eppure, gli pareva meritevole di essere letto e non in grado di porre in crisi la verità.

Ma negli stessi anni, poco prima di Lutero, con un’industria editoriale ormai matura e potente, il tema della parola pubblica era divenuto attuale. È significativa la vicenda di Erasmo da Rotterdam che avrebbe scritto e diffuso senza firmarlo il dialogo Iulius exclusus nel quale, poco dopo la morte del papa Giulio II, presentava una caricatura del pontefice cacciato da San Pietro mentre cercava di entrare in paradiso[13]. Il testo circolò prima anonimo e manoscritto, sinché, attorno al 1517, fu stampato. Già allora Erasmo stava riflettendo sui rischi della parola. Uno dei proverbi compresi negli Adagia era “Lingua quo vadis?” che gli serviva tra l’altro a spiegare che il cattivo uso della parola poteva causare “grandissimo pericolo”[14]. Del tema continuò ad occuparsi e nel 1525 pubblicò Lingua. Sive de linguae usu et abusu, uno dei libri meno fortunati del grande umanista, di faticosa lettura, ripetitivo, senza un vero e proprio filo conduttore, che però induce a riflettere proprio su questi aspetti. Erasmo concentrava l’attenzione sulla parola, trascurando le tecnologie specifiche che erano in grado di diffonderla. L’unico riferimento alla stampa era relativo agli stampatori che approfittavano delle scritture infamanti e ne favorivano la diffusione. Si occupò però di libelli, di maldicenza, della capacità della lingua di alimentare il falso e colpire gli innocenti, suggerendo il rimedio di insegnare sin da piccoli ai bambini i rischi di una lingua senza freno e la necessità di un controllo temperato, non tirannico[15].

5. I pericoli indotti dalla parola tornano assai di frequente, prima e dopo l’esplosione della Riforma protestante e in circostanze assai diverse. Ovviamente capita in molte testimonianze dei lettori che incappavano in processi di inquisizione, di vittime quindi del sistema repressivo messo in piedi. Ma lo stesso succedeva anche in altre circostanze, per esigenze di stato. Già agli inizi del secolo, in occasione della guerra di Cambrai, la repubblica veneziana maturò la convinzione che le stampe avverse alla sua politica potevano minare la compattezza della risposta al papa e all’impero. Il diarista Girolamo Priuli scriveva allora che «li zaratani et li homeni adornati de bona lengua cantavanno per tute le piaze dela Ittallia, sopra le banche, la ruina veneta ad varij et diverssi modi, segondo le fantasie loro»[16]. Come ha notato Massimo Rospocher, Priuli «assegnava all'opinione ‘vulgare’, prevalente ma debole ed erronea, una valenza politica, ritenendola in grado di condizionare il governo della Serenissima». Confidava quindi in qualche forma di regolamentazione delle opinioni «affinché non fusse licito ad dire et parlare a tutti sopra le piaze pubbliche quello et quanto gli pareva ed piaceva»[17]. In questo caso siamo ancora all’alba del Cinquecento, ma la discussione pubblica sui grandi eventi era destinata a crescere, sull’onda dei grandi conflitti politici e religiosi del secolo. Viene in mente la Graphic History di Philip Benedict a proposito della serie di stampe relative ai massacri avvenuti nel corso dei conflitti religiosi in Francia, che, pubblicate a Ginevra nel 1570, ebbero ampia eco in tutta Europa[18]. A lungo la responsabilità di quella tragedia fu anche addossata all’inesistenza di controlli sulla circolazione delle stampe e degli scritti. Il nesso guerra civile / stampa senza freni – che in quel caso pareva scontato – tornò ogni volta a sostegno di chi provava a mettere mano ai sistemi di controllo.

Il timore o – in questo caso – la certezza che le parole possono essere gravide di conseguenze ritorna nella celeberrima citazione di Paolo Sarpi, tratta dal saggio Sopra l’officio dell’Inquisizione. Parrebbero di scarsa importanza, le parole, ma sono loro a fornire alimento alle opinioni, che, a loro volta, muovono gli eserciti. Concetti che ritroviamo pochi anni dopo, sia pure su opposte posizioni, nell’Areopagitica di John Milton e nel Leviathan di Thomas Hobbes[19]. La conclusione cui Sarpi perveniva era che il controllo sui libri doveva essere questione di stato e che perderlo significava annullamento o svuotamento della sovranità. Lo scriveva in quanto consultore della Repubblica di Venezia che ormai da un secolo destinava costante e specifica attenzione alla questione in sistematica tensione con le autorità religiose. E malgrado andamenti altalenanti, la proibizione dei libri rimase a Venezia questione di stato, con un’intensa produzione legislativa sul tema, uffici funzionanti appositamente predisposti, personale specializzato, com’è dimostrato anche dalla straordinaria documentazione archivistica, che attesta per quasi tre secoli, senza quasi soluzione di continuità, le vicende di ogni libro autorizzato e quindi le procedure ordinarie seguite, i compromessi inevitabili, le deroghe dalle norme. All’imprimatur ecclesiastico andava quindi contrapposta la licenza di stampa rilasciata dal principe, che naturalmente aveva priorità ed esigenze non coincidenti con quelle della Chiesa. Il sistema aveva i suoi inconvenienti. Ogni libro legalmente licenziato usciva con una di quelle formule che esplicitavano l’approvazione del potere, stabilendo una sorta di corresponsabilità pubblica tra chi permetteva e autore che si rifletteva sui contenuti. Ne derivavano puntualmente situazioni imbarazzanti; si pensi a tutti i libri e i fogli di attualità politica o alla miriade di scritti di carattere popolare. Non si contavano i libri che non era opportuno vietare, ma che non si gradiva vedere uscire con formule attestanti l’approvazione del testo. Da qui l’origine – fondamentale nell’apparato di censura di antico regime – del permesso tacito o con falso luogo d’impressione, praticato in misura crescente a Venezia tra Sei e Settecento[20]. In Francia, dove il sistema era simile, Malesherbes, direttore della librairie del Regno a metà Settecento, aveva definito i permessi taciti «actes de tolérance ou peut-être de connivence» lasciando capire che era ormai impossibile evitarli[21].

Se ci limitiamo all’Italia, il caso veneziano non può essere marginale, soprattutto se si intende comprendere il movimento dei libri nella penisola. Altro aspetto, infatti, a cui è opportuno rivolgere l’attenzione è il funzionamento del sistema editoriale nel suo complesso, ovvero chi effettuava le scelte e sulla base di quali criteri, quali erano i centri di produzione, non dimenticando in primo luogo che il mercato del libro d’antico regime fu tendenzialmente europeo e non limitato a quelle aree che ora definiremmo nazionali. Occorre quindi tenere presente il ruolo dominante esercitato dall'editoria veneziana per tutta l’età moderna. Fino alla metà del Cinquecento, Venezia fu il principale centro editoriale europeo. Tale preminenza si ridusse nella seconda metà del secolo, ma permasero comunque una supremazia sull'intero mercato italiano e posizioni di rilievo nel bacino mediterraneo, soprattutto in Spagna, grazie all’indiscusso dominio nella produzione religiosa cattolica. Indicativamente, nei tre secoli in questione almeno un terzo della produzione libraria italiana uscì da torchi veneziani e, come nota anche Caravale, al di là quindi dei momenti di straordinaria tensione, è bene comprendere i meccanismi ordinari di un sistema, che ha proiettato i suoi risultati sul resto d’Italia e oltre.

6. Poco sopra ho utilizzato l’espressione «proibizione dei libri» al posto del termine «censura» di cui correntemente ci si serve. «Proibizione dei libri» figura nel titolo della prima storia mai scritta della questione (1777) ad opera di Francesco Antonio Zaccaria, ex-gesuita e implacabile avversario dei Lumi[22]. È questa, del resto, l’espressione correntemente usata per tutti i secoli di cui ci stiamo occupando per riferirsi al controllo sui libri e sul pensiero. Occorre arrivare all’ottocentesco Dizionario di Niccolò Tommaseo per trovare l’accezione contemporanea. Censura in precedenza significava qualcosa di concettualmente diverso. Era la valutazione critica di qualcosa, a cui non doveva necessariamente corrispondere un divieto, o la magistratura romana con compiti di vigilanza sui costumi. Quest’ultima funzione l’aveva ben illustrata Machiavelli nei Discorsi. Non erano sufficienti le leggi a mantenere libere le città. I Romani l’avevano compreso e per questo crearono i censori, «perché diventati arbitri dei costumi di Roma furono ragione potissima che i Romani differissono a corrompersi» (XLIX). La funzione della censura in questo senso venne ripresa e approfondita da molti giuristi europei dell’età moderna di fedi religiose diverse. Bodin, Althusius, Lipsio, Werdenhagen e altri si interrogarono su come fosse possibile mantenere la presa sulla società senza precipitare nella tirannia, per ottenere quegli esiti di armonia e concordia civile, evitando violenza e costrizione[23]. Ed era una preoccupazione che riguardava gli stati, che non avevano gli strumenti della Chiesa cattolica per penetrare nelle coscienze.

Sono questi, credo, i due poli della discussione – proibizione e regolazione del conflitto – che rendono appassionante il tema, sia che se ne discuta per il passato, che per il nostro presente.

 

[1] S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

[2] A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d'Italia, V, I documenti, t. II, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1397-1492.

[3] G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura, 1471-1605, Bologna, Il Mulino, 1997; G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005; G. Fragnito, Rinascimento perduto: la letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), Bologna, Il Mulino, 2019.

[4] G. Fragnito, Rinascimento perduto, p. 25.

[5] A. Quondam, Una guerra perduta: il libro letterario del Rinascimento e la censura della Chiesa, Roma, Bulzoni, 2022, pp. 11-18.

[6] E. Tortarolo, L’invenzione della libertà di stampa. Censura e scrittori nel Settecento, Roma, Carocci, 2011, pp. 11-28.

[7] E. Fronza, Memory and Punishment. Historical Denialism, Free Speech and the Limits of Criminal Law, The Hague, Berlin, TMC Asser Press, Springer, 2018; A. Pugiotto, Le parole sono pietre? I discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale, in «Diritto penale contemporaneo: rivista trimestrale», 2013, pp. 1-18.

[8] S. Parisi, Dimenticare per legge? La Polonia e il negazionismo dei campi di sterminio, in «Quaderni costituzionali», giugno 2018, pp. 500-503.

[9] E. Fronza, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 59, 2016, 2 pp. 1016-1032.

[10] E. Fronza, Negazionismo (diritto penale), in Enciclopedia del diritto. Annali, VIII, Milano, Giuffré, 2015, pp. 633-658, qui p. 653.

[11] C. Dondi (ed.), Printing R-evolution and Society, 1450-1500: Fifty Years that Changed Europe, Venezia, Edizioni Ca' Foscari, 2020.

[12] F. Pierno, Stampa meretrix. Scritti quattrocenteschi contro la stampa, Venezia, Marsilio, 2011, p. 75.

[13] Per il testo del Iulius exclusus a cura di S. Seidel Menchi si veda Opera omnia Desiderii Erasmi Roterodami: recognita et adnotatione critica instructa notisque illustrata, 1.8., Leiden-Boston, Brill, 2013, pp. 1-297. Per la traduzione italiana Erasmo da Rotterdam, Giulio, a c. di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi, 2014.

[14] Erasmo da Rotterdam, Adagi, a cura di E. Lelli, Milano, Bompiani, 2017, pp. 1043-1045.

[15] Erasmo da Rotterdam, Lingua, opus novum & hisce temporibus aptissimum, Basilea, Freoben, 1525.

[16] G. Priuli, I Diari, III, a cura di R. Cessi, Bologna, Zanichelli, 1938-1941, p. 424, ottobre 1509.

[17] M. Rospocher, Il papa guerriero. Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 215.

[18] P. Benedict, Graphic history. The Wars, Massacres and Troubles of Tortorel and Perrissin, Genève, Droz, 2007.

[19] M. Infelise, I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[20] M. Infelise Falsificazioni di stato, introduzione a P. Bravetti - O. Granzotto, False date. Repertorio delle licenze di stampa veneziane con falso luogo di edizione (1740-1797), Firenze, Firenze University Press, 2009, pp. 7-27.

[21] C.G. de Lamoignon de Malesherbes, Mémoires sur la librairie et sur la liberté de la presse, Paris, H. Agasse, 1809, pp. 245-256.

[22] F. A. Zaccaria, Storia polemica delle proibizioni de' libri, Roma, Generoso Salomoni, 1777.

[23] L. Bianchin, Dove non arriva la legge. Dottrine della censura nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2006.

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