VI, 2023/2

Florian Wagner

Colonial Internationalism and the Governmentality of Empire, 1893–1982

Review by: Nicola Camilleri

Authors: Florian Wagner
Title: Colonial Internationalism and the Governmentality of Empire, 1893–1982
Place: Cambridge
Publisher: Cambridge University Press
Year: 2022
ISBN: 9781316512838
URL: link to the title

Reviewer Nicola Camilleri - Università degli Studi di Padova

Citation
N. Camilleri, review of Florian Wagner, Colonial Internationalism and the Governmentality of Empire, 1893–1982, Cambridge, Cambridge University Press, 2022, in: ARO, VI, 2023, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/2/colonial-internationalism-and-the-governmentality-of-empire-18931982-nicola-camilleri/

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L’International Colonial Institute (ICI), con sede a Bruxelles, nacque nel 1893 da un’iniziativa franco-olandese con lo scopo di sostenere e intensificare lo scambio di conoscenze e informazioni in campo coloniale. Rispetto a un avvio alquanto casuale – l’atto di nascita si ebbe nel corso di una cena a casa del Ministro olandese per le colonie attesa da un gruppo di futuri membri velocemente entusiasti per l’idea – l’istituto si rivelò, in effetti, un decisivo luogo di produzione e diffusione della cultura coloniale, e la sua lunga durata, ben oltre l’età degli imperi, ha dimostrato l’incisività del suo contributo nella solidificazione dei rapporti di dipendenza del Sud del mondo verso l’Europa. Intorno all’idea che gli stati dovessero confrontarsi sui temi coloniali in un’arena transimperiale si raccolsero esponenti della politica e della scienza, del mondo militare e dell’amministrazione: nel 1913 l’ICI contava 136 membri provenienti da 12 paesi e il numero aumentò in seguito. L’interesse lobbistico dietro all’impegno di questi esperti coloniali, non di rado animati da carrierismo, rimase il motore dell’istituto, che affiancò con parole e fatti la Società delle Nazioni negli anni Venti, supportò il progetto fascista dell’Euroafrica come nuovo paradigma imperiale e non si fece prendere in contropiede quando, con la fine formale degli imperi, il cambio di nome in Institute of Differing Civilitations (INCIDI) gli permise in buona sostanza di continuare a legittimare politiche neocoloniali. Insomma, l’istituto è chiaramente un oggetto di studio eccellente per comprendere l’Europa e le varie forme del suo dominio su altre regioni del mondo.

Prendendo in considerazione l’intero periodo di attività dell’ICI, quindi dal 1893 al 1982, il libro di Florian Wagner offre un’analisi solida e stimolante del colonialismo europeo e della successiva decolonizzazione sulla base non solo delle discussioni condotte in seno all’istituto ma anche della ricaduta pratica della conoscenza coloniale da esso patrocinata. Il volume è, infatti, molto più che lo studio di un istituto di ricerca, dei suoi attori e della sua agenda; se è vero che lo scambio d’informazioni a livello transimperiale aveva lo scopo di facilitare e migliorare il governo delle colonie, al centro del libro di Wagner vi è proprio la dimensione non nazionale della governamentalità degli imperi, laddove l’assunzione del lemma foucaultiano vuole evidenziare quanto l’indagine si rivolga, ad ampio raggio, a una serie di pratiche di controllo e creazione della conoscenza che vanno ben al di là dell’idea gerarchica di un governo dall’alto al basso. Un sicuro merito del volume è proprio questo: andare a guardare l’altra faccia della medaglia del sapere coloniale prodotto nelle metropoli e usato per la legittimazione di pratiche di governo. Navigando una letteratura in diverse lingue europee e un ricchissimo corpus di fonti provenienti da più di 20 archivi di 6 paesi, l’autore riesce a svelare l’inconsistenza della narrazione spesso trionfante creata dall’istituto e dai mezzi di comunicazione a esso vicini, e offrire una dettagliata ricostruzione dei fatti e dei loro lati oscuri.

Il libro di Florian Wagner è allo stesso tempo vasto e profondo. Quella che i contemporanei etichettavano come un’attività di confronto e scambio internazionale viene dall’autore correttamente analizzata e raccontata come una storia transimperiale, con ciò rendendo il libro anche un ottimo esempio di metodologia storica. L’approccio transimperiale viene in soccorso a una lettura della storia del colonialismo europeo troppo a lungo intrappolata nel nazionalismo metodologico che vedeva gli imperi come scatole chiuse, separate le une dalle altre. In verità gli scambi erano frequenti e avvenivano sia in ambito metropolitano che in ambito coloniale in una dinamica transcoloniale. L’abbondante uso di questi concetti, da parte dell’autore, non è un’esercitazione accademica, ma l’assunzione di un vero sguardo nuovo sul colonialismo europeo: le differenze dei singoli casi nazionali diventano meno rilevanti se si considera il peso che gli scambi, i confronti e le influenze assumevano per modellare una comune ideologia di supremazia, dominio e sfruttamento dei territori colonizzati e dei loro abitanti. La produzione di sapere coloniale era meno una produzione di un singolo impero di quanto fosse il prodotto di studio e comunicazione tra gli imperi a scapito dei colonizzati, i cui meriti e i cui contributi erano sempre misconosciuti o negati. I temi al centro dello scambio tra i membri dell’ICI erano i più vari e il volume ne approfondisce alcuni nei singoli capitoli, che spaziano dalla formazione dei quadri dirigenti, ovviamente sempre europei a mai indigeni, alla manipolazione del diritto islamico fino alla legittimazione del colonialismo attraverso la creazione del mito del progresso intorno, ad esempio, a un istituto di studi botanici. Ma il libro diventa particolarmente stimolante quando dimostra il modo in cui l’ICI, e quindi una certa espressione della élite politico-culturale europea, riesce ad adeguarsi a nuovi scenari politici, siano essi quelli del fascismo siano essi quelli del dopoguerra e della decolonizzazione. A un confronto diacronico, il vocabolario usato appare spesso sorprendentemente uguale sicché soprattutto l’ultima parte del libro, dedicata agli anni della decolonizzazione, si rivela illuminante per il modo in cui evidenzia il contributo dato dall’istituto alla delegittimazione di quell’anticolonialismo ritenuto radicale e nell’inclusione di membri scelti delle nuove élite all’interno di nuovi modelli di dipendenza. L’autore, senza mai assumere un atteggiamento moralistico, ha gioco facile a dimostrare l’ipocrisia e il cinismo di queste operazioni. Il risultato non è la messa in luce di presunte linee di continuità, quanto la teorizzazione di una sostanziale e persistente irriformabilità del colonialismo, che è poi la tesi di fondo del volume. Gli studi sul colonialismo e sulla matrice coloniale del presente europeo si sono arricchiti con questo libro di un contributo di grande importanza.

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