Reviewer Stefano Campagna - Università degli Studi di Parma
CitationSalvo rare eccezioni, le pellicole cinematografiche non hanno ancora trovato spazio nel novero delle fonti utilizzate abitualmente dagli storici del colonialismo italiano. Il tardo sviluppo di questa branca della storiografia, difficoltà interpretative di varia natura e una scarsa propensione al dialogo interdisciplinare possono forse aiutarci a comprendere una tale lacuna, che tuttavia appare inspiegabile dalla prospettiva della storia culturale. L’analisi delle fonti audiovisive è infatti il terreno privilegiato per comprendere le modalità attraverso le quali gli spazi coloniali furono resi «visibili» alle popolazioni metropolitane degli stati europei, per studiare le costellazioni simboliche che diedero forma agli immaginari sull’altro e per riflettere su come questi immaginari furono piegati alla definizione «per contrasto» di un’identità collettiva.
Il volume che qui recensiamo, opera di Gianmarco Mancosu, assegnista di ricerca presso l’Università di Cagliari, muove proprio da questi presupposti esplorando l’intreccio tra la politica espansionistica dell’Italia fascista nel continente africano, con particolare riferimento alla guerra d’Etiopia e alle conseguenti vicende dell’Africa orientale italiana, e le pellicole non-fiction riferite a questi eventi realizzate dall’Istituto Luce, l’ente statale incaricato dal regime di realizzare una pervasiva attività di propaganda ed educazione popolare attraverso fotografie, documentari e cinegiornali.
La complessità dell’oggetto di studio spiega la caratteristica peculiare della ricerca, ossia la stratificazione dei piani d’indagine. Senza pregiudicare in alcun modo la coerenza interna della narrazione storiografica, l’autore modifica frequentemente il proprio punto di vista, giustapponendo approcci ora più vicini alla storia politico-istituzionale ora a quella culturale. Un tale eclettismo riflette la varietà delle fonti utilizzate che vanno dai documenti d’archivio, conservati presso istituzioni nazionali, agli audiovisivi, in gran parte consultabili liberamente sul sito dell’Istituto Luce.
Dal punto di vista metodologico occorre evidenziare come Mancosu interpreti le fonti audiovisive all’interno di un framework interdisciplinare in cui convergono suggestioni provenienti dal campo degli studi culturali, della teoria postcoloniale e dall’ambito dei Media Studies. Il frequente ricorso alla categoria postmoderna di «archivio coloniale» dimostra, da un lato, il tentativo di decostruire le pellicole in una prospettiva di lungo periodo facendo luce sui processi di risemantizzazione, nel contesto dell’Italia fascista, di narrazioni relative all’Oltremare già circolanti in epoche precedenti; dall’altro, lo sforzo di collocare questi elementi della cultura coloniale italiana in una più ampia dimensione transnazionale o «transimperiale».
Ognuno dei nove capitoli che compongono il volume è introdotto da un espediente narrativo che permette al lettore di familiarizzare con il tema trattato: così, ad esempio, nel primo capitolo, un fermo immagine ci introduce a un viaggio «da Adua a Tripoli», alla scoperta delle prime pellicole etnografiche girate nelle colonie italiane all’inizio del Novecento e dell’affermazione del cinema come strumento di nazionalizzazione delle masse tra la guerra di Libia e il primo conflitto mondiale. L’autore ripercorre poi la genesi dell’Istituto Luce, la «pupilla del regime», descrivendo il precoce interesse dell’élite politico-culturale fascista per la cinematografia educativa. Parallelamente si esaminano i documentari di propaganda coloniale realizzati nella seconda metà degli anni Venti con l’obiettivo di comprendere se e in che modo il nuovo corso della politica coloniale del regime si sia riverberato sui contenuti delle pellicole.
Anche la parte centrale del volume, dedicata alla guerra d’Etiopia del 1935-1936 e alla costruzione della società coloniale nell’Africa orientale italiana, si muove lungo questo doppio binario. Da una parte, si descrive il funzionamento della macchina propagandistica predisposta dal regime a sostegno dell’impresa bellica e mantenuta attiva negli anni successivi per veicolare al pubblico italiano le immagini dell’«impero fragile» fondato da Mussolini. Concentrandosi sulle due sezioni «africane» dell’Ufficio stampa e propaganda e sul Reparto fotocinematografico Africa orientale, l’autore rileva tensioni e disallineamenti tra i vari soggetti istituzionali che si traducono in una sostanziale insoddisfazione da parte dei vertici dello Stato per la produzione cinematografica dell'Istituto Luce. Dall’altra, si guarda al vasto corpus di filmati realizzati in questo stesso arco temporale per portare in superficie l’ordine del discorso che regola la costruzione degli immaginari coloniali e comprendere come le rappresentazioni di forme di alterità fossero funzionali alla definizione dei modelli normativi alla base di un’identità nazionale di marca fascista.
Parte strutturale di questa identità, il razzismo è studiato in relazione alle forme di violenza simbolica – per dirla con Bourdieu – che determinano l’inferiorità del colonizzato di fronte al colonizzatore e strutturano la gerarchia dell’impero italiano. Mancosu fa sua la prospettiva intersezionale per studiare gli intrecci tra «razza» e genere riscontrabili nelle fonti audiovisive in cui si mostra il regime di 'apartheid' della società coloniale per poi spostarsi dal piano delle rappresentazioni a quello delle pratiche, guardando al tentativo (fallimentare) di imporre una segregazione razziale anche nell’ambito degli spettacoli cinematografici.
Il volume si chiude con un «mancato epilogo», poiché, come efficacemente argomenta l’autore, le «memorie di celluloide dell’impero fascista» sopravviveranno all'Istituto Luce, sebbene rifunzionalizzate nel diverso contesto politico-culturale del secondo dopoguerra. Si tratta di un tema centrale che nel volume è appena accennato ma che, si può supporre, verrà sviluppato da Mancosu in ricerche future. Forse, solo esplorando a fondo il rapporto tra questa congiuntura della storia repubblicana e la produzione audiovisiva sulle ex colonie italiane si riuscirà a comprendere definitivamente la persistenza nel senso comune di immagini e stereotipi di lungo periodo che animano l’opposizione trasversale a leggi sulla cittadinanza più inclusive e legittimano la riproduzione dei discorsi d’odio.