Reviewer Giovanni Bernardini - FBK-ISIG e European University Institute
CitationMentre scrivo queste righe, i quotidiani e i portali d’informazione di tutto il mondo (letteralmente) riportano la notizia della scomparsa di Nichelle Nichols, attrice dalla carriera forse non memorabile, ma nota ancora oggi per aver interpretato il ruolo del Tenente Uhura nella serie originale «Star Trek» (1967-1969). In quei panni, Nichols fu la prima donna di colore ad apparire in una produzione televisiva/cinematografica con un ruolo di primo piano, investita di importanti responsabilità all’interno della sceneggiatura (graduata e responsabile delle comunicazioni), nonché a rendersi protagonista insieme al Capitano Kirk del primo bacio «interraziale» nella storia della televisione statunitense. Desiderosa di tornare alle proprie ambizioni teatrali e musicali, Nichols era intenzionata ad abbandonare la serie dopo la prima stagione: più fonti rivelano come il reverendo Martin Luther King in persona l’abbia persuasa a cambiare avviso, pochi mesi prima di essere assassinato, insistendo sull’importanza che il suo personaggio rivestiva per la causa degli afroamericani e per il movimento dei diritti civili.
L’esempio basta a giustificare la produzione di numerosi volumi che si occupano di inquadrare gli albori del franchise di fantascienza ideato da Gene Roddenberry nel contesto della cultura popolare degli anni Sessanta statunitensi e globali. L’ultimo in ordine di tempo è stato scritto da George Gonzalez (tutt’altro che nuovo all’argomento) e sin dalle prime pagine rivela il suo duplice intento polemico: accusare l’impianto ideologico della presidenza Trump di promuovere un pericoloso quanto insensato ritorno ai valori dei grigi anni Cinquanta, contro i quali era nata la rivolta culturale del decennio successivo e rispetto alla quale «Star Trek» rivendica a buon titolo un posto di rilievo; e ribattere alle recenti critiche avanzate alla serie da altri studiosi della cultura popolare.
Per quanto l’autore sia animato dalla sincera intenzione di partecipare a un dibattito pubblico della massima rilevanza, occorre altresì notare che l’uso degli argomenti utili al primo obiettivo risulta talvolta fuori fuoco e affrettato: se da un lato la retorica trumpiana recupera indubbiamente temi e toni degli anni Cinquanta, è altrettanto vero che andrebbe discusso con maggiore profondità il processo di rielaborazione e mitizzazione occorso a quella eredità ideale attraverso decenni di «controcultura» talvolta sotterranea, talvolta assurta alla presidenza degli Stati Uniti ben prima del 2016 (dalla «silent majority» di Nixon all’«America is Back» di Reagan). Al di là di una discussione puntuale delle tesi politiche dell’autore, che esula da questa trattazione, gli occasionali spunti polemici finiscono per appesantire l’opera di rigorosa contestualizzazione che pure egli persegue.
Quanto al secondo obiettivo, la discussione attorno a «Star Trek» rivela una frattura forse insanabile tra quanti oggi studiano la storia culturale degli Stati Uniti dell’ultimo secolo e oltre. Altri autori, animati da un approccio identitario e inquadrabili nei cosiddetti «grievance studies», hanno accusato gli esordi del franchise di aver ridotto la presenza nel cast di numerosi esponenti di minoranze (a cominciare dagli afroamericani) a mere comparse che «non ricordano o nemmeno comprendono la storia tumultuosa che ha reso necessaria la loro presenza», inserite acriticamente in un contesto essenzialmente «bianco». Gonzalez adotta un punto di vista diametralmente opposto, non soltanto perché la contestualizzazione temporale rende giustizia al coraggio degli sceneggiatori dell’epoca (in fondo la «rivoluzione culturale» era ancora agli albori), ma anche perché ricorda come l’impianto del loro mondo futuribile si ponesse su basi diametralmente opposte: «i creatori di Star Trek utilizzano la storia per riformare e migliorare il presente e il futuro, muovendo verso una maggiore unità e giustizia. Il loro obiettivo ultimo è una società moderna che sia senza classi e libera da pregiudizi etnici e di genere». Questo avviene, secondo l’autore, attraverso un uso unificante e non divisivo del passato e della sua rilettura. Significativamente, alcuni personaggi (a cominciare dalla stessa Uhura) mostrano a più riprese di trovare letteralmente incomprensibili nel XXIV secolo le discriminazioni barbariche e irrazionali che i loro antenati hanno subito quattrocento anni prima. In tal senso, afferma Gomez, il mondo di «Star Trek» si colloca in un continuum ideale che rimanda alle migliori intenzioni dell’Illuminismo contro la superstizione e le tare del passato, che non riguardano soltanto la cancellazione delle razze ma anche quella del denaro, dell’accumulazione spasmodica di beni, e di tutti gli ostacoli irrazionali posti al pieno sviluppo individuale e collettivo. Tutti valori che negli stessi anni erano patrimonio dei movimenti di protesta.
Sempre a tal proposito, Gonzalez è abile nel mostrare l’efficacia della forma metaforica scelta in molte occasioni per affrontare temi di scottante attualità per l’epoca, come appunto il razzismo. Memorabile l’episodio in cui l’astronave Enterprise entra in contatto con due civiltà da sempre in lotta per il pianeta su cui vivono: una presenta il lato destro del corpo in nero e quello sinistro in bianco, mentre l’altra ne è l’immagine speculare. La segregazione razziale che ancora dominava parte degli Stati Uniti è così trasformata in un nonsenso farsesco che gli umani del XXIV secolo, ormai uniti in una sola Federazione di uguali, faticano persino ad afferrare. Quanto all’altro tema caldo dell’epoca, la guerra del Vietnam, Gonzalez ricorda come le serie originale di «Star Trek» abbia preceduto molto cinema critico, dato che in molti episodi sono presenti spunti di riflessione in merito: il disvelamento di politiche imperialiste ammantate di retorica sulla liberazione; la logica neocolonialista che si cela dietro a propositi di accompagnamento verso il progresso di civiltà «arretrate»; le sorprendenti risorse di un popolo che si difende e l’insufficienza dei mezzi tecnologicamente avanzati degli aggressori per venirne a capo. Tutti temi cari al cinema degli anni successivi: tuttavia «il franchise di Star Trek è [stato] l’unica piattaforma di cultura popolare a discutere criticamente e analiticamente la guerra statunitense in Vietnam … mentre essa era ancora in corso».
Al netto di alcuni difetti già segnalati e di un’organizzazione interna a tratti rivedibile, il libro di Gonzalez offre certamente una lettura godibile e un ottimo esempio di come sia possibile inquadrare un prodotto mediatico nel clima culturale in cui è stato prodotto, con un’analisi bilanciata tra le intenzioni dei creatori e il condizionamento dei tempi. Certamente esso si rivolge a studiosi della cultura popolare e dei media ma anche, c’è da sperarlo, a chi voglia avvicinarsi con interesse e preparazione agli epici albori della saga di «Star Trek». Fino ad arrivare «là dove nessun uomo è mai giunto prima», ovviamente.