V, 2022/3

Carlo Taviani

Lotte di parte

Review by: Andrew Vidali

Authors: Carlo Taviani
Title: Lotte di parte. Rivolte di popolo e conflitti di fazione nelle guerre d’Italia (1494-1531)
Place: Roma
Publisher: Viella
Year: 2021
ISBN: 9788833138299
URL: link to the title

Reviewer Andrew Vidali - University of York, Department of History

Citation
A. Vidali, review of Carlo Taviani, Lotte di parte. Rivolte di popolo e conflitti di fazione nelle guerre d’Italia (1494-1531), Roma, Viella, 2021, in: ARO, V, 2022, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/3/lotte-di-parte-andrew-vidali/

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Il volume si pone l’obiettivo di riannodare i fili di un discorso storiografico che aveva avuto un sensibile successo alcuni decenni fa ed era poi stato messo in disparte da nuove esigenze. Questa la ragione che lo stesso autore adduce al motivo che lo ha spinto a confrontarsi a volte con ricerche piuttosto datate, ma che non sono state problematizzate dalla generazione successiva di storici e storiche. Più che presentare nuovi casi di studio e nuovi contesti d’indagine, Lotte di parte intende fissare alcuni punti fermi a partire dalle pregresse analisi condotte anche dallo stesso autore, che rielabora e riformula contenuti di precedenti saggi. Effettivamente inedite sono dunque solo le analisi che compongono il quinto capitolo e una parte del terzo.

Ciò non va necessariamente a detrimento dell’opera: armonizzare riflessioni tra loro a prima vista poco interconnesse e dare coerenza interna a un discorso complessivo, imperniato su di un tema che richiede molteplici approcci per essere pienamente compreso, non è certamente un’operazione semplice. Il libro deve essere dunque valutato sull’effettiva capacità dell’autore di aver efficacemente riesaminato una questione storiografica nelle sue diverse sfumature, offrendo riletture innovative anche sulla base di ricerche già condotte, e non sull’aver presentato o meno nuovo materiale d’archivio. Per raggiungere questo scopo, Carlo Taviani si propone di penetrare in profondità all’interno dei momenti di conflittualità politica violenta che caratterizzarono l’inizio del Cinquecento, includendo le lotte di fazione, scontri cetuali e altro ancora. L’autore vuole andare oltre rispetto al momento dello scontro per individuare le reti di relazioni verticali e orizzontali tra soggetti coinvolti e individuare i segmenti sociali che ebbero un ruolo nelle lotte di parte e nelle rivolte durante le guerre d'Italia.

Un’attenzione particolare è rivolta alla componente popolare nelle sue diverse manifestazioni, come i contadini della Terraferma veneta e gli abitanti delle Riviera ligure, che furono i protagonisti, in determinati momenti, della lotta politica violenta. Il popolo, un soggetto comunque di difficile definizione, viene seguito da vicino in quei casi in cui emerse con forza all'interno delle dinamiche di conflitto locale, segnalando anche però quei momenti nei quali questo attore si mosse sul piano sovralocale. Un chiaro esempio è offerto dai populi di Genova e di Pisa, i quali nel 1506-1507 cercarono di unirsi: i due Comuni, nei quali un regime popolare aveva preso il potere attraverso la rivolta armata, avevano cercato una connessione diretta, dandosi reciproco aiuto e ventilando anche la possibilità della dedizione pisana a Genova. Nei primi due capitoli, oltre ad indagare in quale misura il popolo abbia partecipato alla lotta violenza politica nel corso delle Guerre d’Italia, l'autore si chiede soprattutto quali siano state le circostanze che permisero a questo soggetto di venire configurato come una delle partes in contrapposizione, soprattutto in seno a scontri caratterizzati in senso cetuale. Il populus genovese, ad esempio, fu descritto come una fazione da parte di coloro che si opposero alle sue rivendicazioni (come la nobiltà genovese estromessa dal governo del Comune) e da parte di soggetti esterni, ma cointeressati (come il re di Francia Luigi XII, signore della città ligure).

Il primo capitolo si propone il difficile compito di comparare contesti tra di loro molto divergenti non solo da un punto di vista geografico e sociale, ma soprattutto politico e istituzionale, allo scopo di evidenziare il rapporto tra lotta di fazione, rivolta, e partecipazione popolare allo scontro politico. Ma osservare come questo rapporto si sia manifestato in alcune città e territori durante le Guerre d’Italia, a prescindere dallo scontro condotto dalle maggiori potenze europee in suolo italiano permette, nelle intenzioni dell’autore, di evidenziare quale sia stato l’impatto effettivo di fattori esterni sulla conflittualità nei centri esaminati. I casi di Trento (1525) e Lucca (1531) offrono infatti degli esempi di conflittualità interna non influenzata dalle dinamiche delle Guerre d’Italia, ma riconducibile a ragioni interne. Da un lato, gli artigiani lucchesi si ribellarono ai tentativi dei mercanti di scardinare gli assetti corporativi nei quali i primi erano inquadrati e la rivolta scaturita per motivi economici si allargò, sfociando in richieste di maggiore partecipazione politica. Dall’altro, la presenza di una corposa minoranza di lingua tedesca, che si sollevò in coincidenza con le rivolte che avevano luogo in Tirolo a causa della Guerra contadina, si tradusse nel superamento delle figure di collegamento con il principe-vescovo, cioè i consoli, e nell’invio di articoli di protesta da parte del Consiglio dei quartieri di Trento direttamente al sovrano, l’imperatore.

Il secondo capitolo si concentra su l'acceso scontro politico che vide come protagonista il popolo genovese nel 1506-1507, sollevatosi in rivolta e capace di estromettere i nobili dalla gestione della cosa pubblica. La città ligure offre la possibilità di avanzare letture particolarmente pregnanti perché gli eventi che la coinvolsero dimostrano come sia possibile distinguere tra scontri cetuali e quelli di fazione, in particolare nella città che nel corso del Quattrocento si era caratterizzata per la costante contesa tra le famiglie Adorno e Fregoso intorno alla carica ducale. La radicalizzazione della rivolta, che testimoniò l’estromissione della parte più moderata, incarnata dai mercanti, a favore degli artigiani, segnò l’inevitabile fine dell’esperimento politico attraverso l’unione del potere militare del re di Francia Luigi XII, signore di Genova, e del potere finanziario dei nobili esclusi. Se in un primo momento la rivolta popolare aveva cercato legittimazione presso i francesi, gli artigiani, una volta monopolizzato il potere, si macchiarono di lesa maestà nel momento in cui tentarono la svolta repubblicana attraverso l’elezione di un doge.

Sulle vicende che interessarono Genova a inizio Cinquecento, Taviani ha già dedicato una precedente monografia, di cui sono riassunti i momenti salienti e più funzionali a questa analisi più mirata. Anche le pagine dedicate alle confraternite genovesi ed il loro rapporto con la conflittualità politica, che chiudono il capitolo, riprendono in parte la più ampia analisi contenuta in Superba discordia[1]. Rileggendo Grendi, l'autore riflette sulla partecipazione del populus a questa forma di associazionismo e in particolare a quella che si fece promotore della pacificazione sociale. Alcuni membri di importanti confraternite, come quella del Divino Amore, furono tra i protagonisti dei tentativi di riforma politica che coinvolsero la città ligure all'inizio del Cinquecento, anche dopo il momento di rivolta del 1506. Quando i cambiamenti politici e istituzionali raggiunsero forma compiuta, nel 1528, l’operazione di eliminazione delle fazioni raggiunse forse il suo apice, a scapito delle stesse confraternite, considerate ormai associazioni assimilabili a delle fazioni, sebbene in senso cetuale.

Il terzo capitolo discute di un aspetto che è spesso logica conseguenza della lotta tra parti, cioè l’esilio. Questo tema viene sviluppato ponendo l’accento su due città: Urbino, come luogo in cui molti esiliati trovarono rifugio presso la corte dei Montefeltro, e Genova, come città «produttrice» di esiliati, soprattutto in relazione ai frequenti cambi di regime al vertice che coinvolsero le potenti famiglie dei Fregoso e degli Adorno, che si contesero il controllo sulla città ligure. Il legame tra queste due realtà viene rappresentatoda una breve nota biografica dei fratelli Ottaviano e Federico Fregoso, che presso la corte di Urbino ricoprirono ruoli politici estremamente significativi e di raccordo diplomatico tra la città marchigiana e Roma. Il focus su Genova viene giustificato sulla base di una scarsa attenzione storiografica[2] rispetto ad altri contesti e su alcune caratteristiche peculiari della Superba. In primo luogo, l’autore segnala l’assenza documentaria di bandi, spiegata come frutto del potere dogale, che non necessitava del consenso di altre magistrature, e delle modalità con le quali la famiglia sconfitta si recava in esilio, negoziando l’espulsione con la controparte. Ciò avrebbe assicurato alle fazioni genovesi una più ampia libertà di movimento rispetto a quanto garantito in altre realtà coeve dell’Italia del Rinascimento.

Il caso di studio, cioè la famiglia Fregoso tra inizio Quattrocento e inizio Cinquecento, permette all’autore di ricostruire una mappa dei luoghi dell’esilio di questa fazione, presso i quali i suoi membri poterono trovare ricetto: i domini personali/familiari nei pressi dei confini del territorio da cui si era stati esclusi (come Sarzana); i luoghi di origine delle mogli dei vari membri della famiglia Fregoso (come Urbino, il Veronese, la Provenza, e non solo); infine, i grandi centri italiani ed europei. Quest’ultimo gruppo può essere a sua volta diviso tra destinazioni che avevano una stretta connessione con la vita politica genovese e luoghi che attrassero gli esiliati per altre ragioni. Milano e la corte di Francia rientrano nella prima sotto-categoria: quelle due realtà dominarono a più riprese la città ligure, spesso con il supporto della fazione bandita, che si assicurava in questo modo anche un rifugio in previsione di un futuro cambio di regime. Infine, una città come Roma, grazie alla propria vocazione internazionale, fu una meta dei Fregoso soprattutto durante la presenza di papi d’origine ligure.

Il quarto capitolo si concentra su di un altro aspetto che, come quello dell’esilio, è spesso complementare a quello del conflitto violento: la pacificazione. Su questo tema, parte di un lungo e sfaccettato discorso storiografico, l’autore offre una comparazione tra le paci negoziate, anzi, imposte da papa Giulio II tra le fazioni di Viterbo e Perugia e il patto stretto tra 1641 popolari genovesi in seno ai fatti del 1506, quando questi si riunirono per giurare a favore della pace cittadina contro le fazioni della città ligure. L’obiettivo di Taviani è quello di trovare un comune denominatore, che viene individuato nel giuramento, presente anche nel caso della cosiddetta «pax romana» del 1511, quando baroni, oligarchi locali, conservatori e parte del popolo giurarono contro le fazioni in un momento di insicurezza istituzionale.

I diversi casi investigati inducono l’autore a riflettere sull’efficacia dei giuramenti e delle paci costruite su questo perno. Le paci del pontefice furono prima negoziate e, infine, imposte facendo ricorso a minacce in caso di trasgressione e prendendo ostaggi dalle famiglie maggiormente coinvolte nelle lotte tra fazioni. La riconciliazione così raggiunta fu configurata come una pace comunitaria, quando in realtà coinvolse le principali fazioni cittadine. Nel caso genovese, la volontaria adesione al giuramento contro le fazioni Adorno e Fregoso fu un importante momento della peculiare vicenda politica che il Comune stava vivendo e fu diretta conseguenza dei tentativi di quelle stesse fazioni di ingerirsi nei conflitti in corso. L’efficacia – seppur breve – di quest’ultimo giuramento rispetto a quelli imposti nello Stato della Chiesa da Giulio II portano l’autore a enfatizzare le differenze tra paci negoziate tra soggetti alla pari e quelle invece imposte dall’alto, da un’autorità superiore. Il ruolo di una parte terza all’interno della negoziazione dei conflitti è in realtà un tema già affrontato[3], ma l’autore ha il merito di allargare il campo di analisi a eventi generalmente non trattati dagli storici che indagano i rapporti tra violenza e pacificazione.

Il quinto e ultimo capitolo presenta alcuni risultati del progetto di ricerca «Genoese Merchant Networks in Africa and Across the Atlantic Ocean (1450-1530)» e offre alcune delle più innovative riflessioni poiché arricchisce lo studio della conflittualità politica violenta attraverso lo studio dei meccanismi commerciali e finanziari, mostrando le capacità di agency politica dei mercanti-banchieri. L’influenza che questi attori potevano avere tramite prestiti e investimenti non si limitò ai contesti interni, ma interagì anche con realtà esterne. Ancora una volta, il caso genovese è assunto come caso di studio. La città ligure, nei primi decenni del Cinquecento, vide un fitto alternarsi di momenti di autonomia politica e di soggezione francese e spagnola. Complessivamente, alcune direttive del commercio, come quello del lusso, non furono toccate dai cambi di governo. Tuttavia, come fecero altri ceti mercantili, ad esempio quello fiorentino, i genovesi puntarono sui diversi attori internazionali – francesi, imperiali, spagnoli – che avrebbero potuto cambiare con la forza delle armi gli equilibri di potere locale.

Il peculiare sistema di finanza pubblica genovese, gestita dalla Casa di San Giorgio, accentuava ancora di più la stretta relazione tra finanziamento di schieramenti esterni e lotta politica locale. In particolare, una legge del 1513 emanata dal già menzionato Ottaviano Fregoso, nel frattempo rientrato dall’esilio e divenuto doge esplicita ancora di più questo intreccio. Il provvedimento intendeva punire chiunque, anche all’interno della sua stessa famiglia, avesse promesso denaro ai propri partigiani o alle potenze d’oltralpe per favorire un cambio di regime. La Casa di San Giorgio veniva poi minacciata di sequestro dei suoi strumenti finanziari qualora questi fossero stati sfruttati per scopi fazionari. La sua indipendenza rispetto alle istituzioni del Comune l’aveva infatti resa un utile mezzo nei giochi di potere durante le Guerre d’Italia. Le fazioni esiliate da Genova promettevano agli eserciti stranieri pagamenti contando sulla disponibilità delle casse del banco. Le interrelazioni tra instabilità politica e finanza non sarebbero dunque frutto del caso, ma un obiettivo scientemente perseguito, soprattutto nella misura in cui i momenti di dominazione esterna appaiono essere più auspicati perché portatori di una maggiore stabilità politica, momenti nei quali investire nello stesso Banco appariva più sicuro, come fece proprio Ottaviano Fregoso dopo aver ceduto Genova ai francesi nel 1515 e, contestualmente, assunto il governatorato della città ligure.

In conclusione, il principale merito di questa monografia è quello di allargare il campo a un contesto rimasto piuttosto ai margini della storiografia nazionale, uno sforzo perseguito collocando efficacemente la realtà genovese di inizio Cinquecento all'interno del contesto coevo. Al di là del secondo capitolo, interamente dedicato alla Superba, gli altri si dividono tra paragrafi che presentano il quadro generale, altri che offrono casi di studio specifici (in cui Genova è generalmente inclusa) e, dove possibile, riflessioni comparative, sempre nell'alveo della più ampia situazione dell'Italia del Rinascimento. Carlo Taviani dà prova di saper armonizzare aspetti che sono afferenti allo stesso tema, ma che avrebbero potuto essere affrontati separatamente; l'aver trovato e seguito in maniera coerente il filo rosso che li riconnette in maniera organica va a favore dell'autore, che dimostra infine notevoli capacità di sintesi, data la brevità del volume rispetto alla complessità dei temi affrontati.   

 

[1] C. Taviani, Superba discordia. Guerra, rivolta e pacificazione nella Genova di primo Cinquecento, Roma, Viella, 2008.

[2] Occorre segnalare che anche Christine Shaw dedicò diverse pagine a come questo tema si declinò all'interno della realtà genovese; si veda C. Shaw, The Politics of Exile in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

[3] C. Povolo, La terza parte. Tra liturgie di violenza e liturgie di pace: mediatori, arbitri, pacieri, giudici, in «Acta Histriae», 22, 2014, 1, pp. 1-16.

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