Reviewer Paolo Fonzi - Università del Piemonte Orientale
Citation«Il patto tripartito ha il compito di assicurare il nuovo ordine delle aree d’Europa che si trovano in guerra sotto la direzione comune di Italia e Germania così come il nuovo ordine nello spazio grande-asiatico sotto la direzione del Giappone».
Così il 27 settembre 1940 Joachim von Ribbentrop annunciava la firma del Patto Tripartito, un accordo che stringeva Germania, Italia e Giappone in un rapporto di cooperazione contro le potenze occidentali, volto a dar vita a un nuovo ordine mondiale. A lungo la storiografia, soprattutto quella più critica del concetto generico di fascismo, ha considerato quel patto un’«alleanza inefficace», un «trucco da propagandisti» o una «tigre di carta». Al formarsi di questo giudizio hanno contribuito diversi fattori. Se anche il Giappone fu parte di quel flusso di transfer culturali tra regimi autoritari su cui la più recente storiografia ha fatto luce, nel caso di questo paese tali relazioni si scontravano con oggettivi limiti. Vi era, in primo luogo, quella che W.E.B. Du Bois ha definito la «linea globale del colore». Gli stessi fascisti nutrivano acuti pregiudizi razziali verso popoli non europei, come dimostrano alcuni passaggi del Mein Kampf – opportunamente rimossi nella traduzione giapponese del 1932 –, in cui il Führer, che pur ammirava le doti militari dei giapponesi, li definiva un popolo «incapace di fondare cultura» (nicht kulturbegründend). Era inoltre difficile che si sviluppassero intensi legami transcontinentali, in un periodo in cui un comune cittadino europeo poteva impiegare fino a due mesi per raggiungere l’Asia orientale, solo pochi individui conoscevano le lingue di quella regione (in Germania vi erano allora appena 50 persone capaci di leggere la stampa giapponese) e l’economia globale si trovava in una fase che Harold James ha finito «the end of globalization». Ha, infine, contribuito alla sottovalutazione delle relazioni tra Germania e Italia da un lato e Giappone dall’altro lo scetticismo di molti storici verso l’adozione della categoria di fascismo per descrivere la storia di quest’ultimo paese tra il 1926 e il 1945. Una corrente significativa della storiografia preferisce, infatti, usare nel caso giapponese la categoria di «ultranazionalismo», ritenendo che l’assenza di un partito fascista di massa dotato di milizie non consenta di includere tale paese nel novero dei regimi fascisti.
Collocandosi al crocevia di storia globale, storia imperiale e nuova storia culturale del fascismo, il volume di Daniel Hedinger rivaluta l’importanza storica di quel legame. Sulla base di fonti primarie e secondarie provenienti dai tutti e tre i paesi membri dell’Asse Berlino-Roma-Tokyo – come i contemporanei usualmente definivano quell’alleanza – il volume ne offre una lettura nuova e teoricamente raffinata. Più che analizzare, sulla base di un concetto di «fascist minimum», il modo in cui regimi sviluppatisi in contesti nazionali si legarono l’uno all'altro, l’autore, infatti, tratta le relazioni transnazionali come motore dello sviluppo di fascismi glocali, prodotto essi stessi di processi di transfer e adattamento. Al centro di tali relazioni vi fu non solo una cultura politica, ma anche imperialismi convergenti, quello che l’autore definisce il «nesso imperiale» che impresse a quel patto il suo carattere fascista. La convergenza italo-tedesca-giapponese si fondava, infatti, anche sulla posizione di latecomers che i tre paesi, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, avevano nella corsa all’acquisizione di colonie. Inoltre, le loro élites politiche avvertivano il sistema di Versailles come un nemico e si percepivano come vittime di un ordine internazionale dominato dalle potenze occidentali. Si trattava, come sottolinea Hedinger, di un imperialismo subalterno o «post-coloniale», che intendeva superare l’imperialismo occidentale dell’età degli imperi tramite una nuova forma di dominio delle potenze industrializzate sul mondo.
Uno dei maggiori problemi interpretativi di ogni storia dell’Asse Berlino-Roma-Tokyo, così come delle relazioni tra Italia e Germania, è spiegare l’andamento non lineare, le frequenti crisi e gli arretramenti nell’avvicinamento tra le tre potenze. Come far quadrare con l’idea di un’alleanza «inevitabile» il fatto che l’Italia e la Germania si trovassero nel 1934 sull’orlo della guerra per la questione austriaca? Come spiegare il fatto che, nel 1940, esponenti di spicco del fascismo accarezzassero l’idea di un blocco continentale che includesse anche l’URSS o il breve tentativo di avvicinamento tra Giappone e USA nella prima metà del 1941? Per leggere questa dinamica accidentata come storia di un’alleanza fascista, Hedinger adotta il concetto di «momento globale», un’espressione coniata da Sebastian Conrad per designare momenti fortemente simbolici che irradiano i propri effetti su un’ampia varietà di osservatori nello spazio globale. Hedinger individua otto momenti globali nella storia dell’Asse. Due di essi, la Conferenza di pace di Parigi del 1919 e i processi di Norimberga e Tokyo del 1946, sono rispettivamente il presupposto e la conclusione della storia dell’Asse. Gli altri sei momenti figurano come centri di un periodo decisivo di accelerazione della convergenza tra le tre potenze e, allo stesso tempo, di radicalizzazione delle loro prassi imperialistiche. Nella fase della gravitazione (1932-1935) furono decisivi da un lato la formazione dei Comitati d'Azione per l'Universalità di Roma e il parallelo «boom del fascismo» in Giappone, sulla scorta della pubblicazione della Relazione Lytton, dall’altro la guerra italiana in Abissinia. Nella fase della cooperazione (1936-1939), in cui cade la firma del Patto anticomintern, furono la guerra civile in Spagna e l’aggressione giapponese alla Cina ad avvicinare le tre potenze. Infine, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la fase della escalation, fu centrale la vittoria tedesca contro la Francia, che diffuse il mito della «guerra lampo» come modalità specificamente fascista di conduzione della guerra, e il tornante 1941-1942 in cui il conflitto assunse una portata globale. Di tutti questi eventi Hedinger analizza la portata transnazionale, riportando alla luce legami che una storiografia centrata sulla dimensione nazionale o europea ha a lungo dimenticato. Nella sua lettura della dinamica della formazione dell’Asse le periferie ebbero un ruolo particolarmente rilevante. Ribaltando la relazione centro-periferia, un approccio comune nella storia globale, Hedinger sottolinea il ruolo avuto dall’invasione della Manciuria e dall’aggressione italiana all’Etiopia nel produrre una radicalizzazione cumulativa dalle dimensioni transnazionali. Introdotto nel bagaglio teorico degli storici dalla corrente strutturalista di studi sul nazionalsocialismo, il concetto di radicalizzazione cumulativa viene usato dall’autore in senso relazionale, sulla scorta di un illuminante saggio di Sven Reichardt. La radicalizzazione fascista fu una radicalizzazione reciproca che può essere colta solo riportando alla luce i legami transnazionali allacciati e nutriti da una varietà di mediatori fascisti.
In sintesi, il volume di Hedinger, di cui si auspica una rapida traduzione in italiano, dimostra in modo convincente come le potenze dell’Asse non fossero solo «tre nello stesso letto, ma con sogni diversi», come li definiva ironicamente una rivista cinese nel 1937. Si trattò invece di un’alleanza pienamente fascista, sostanziata da una prassi imperiale comune e da sogni condivisi di realizzazione di un «nuovo ordine» globale. Un elemento, questo, che la ri-nazionalizzazione della memoria successiva ai grandi processi del 1946, ultimo momento globale dell’Asse, ha contribuito a far scivolare nell’oblio.