V, 2022/3

Aufbruch in die Moderne, Schatten des Kaiserreichs, Bismarcks ewiger Bund, Kaiserdämmerung

Review by: Carlo Spagnolo

Authors: Hedwig Richter
Title: Aufbruch in die Moderne. Reform und Massenpolitisierung im Kaiserreich
Place: Berlin
Publisher: Suhrkamp
Year: 2021
ISBN: 9783518127629
URL: link to the title

Authors: Eckart Conze
Title: Schatten des Kaiserreichs. Die Reichsgründung von 1871 und ihr schwieriges Erbe
Place: München
Publisher: dtv
Year: 2020
ISBN: 9783423282567
URL: link to the title

Authors: Oliver F. R. Haardt
Title: Bismarcks ewiger Bund. Eine neue Geschichte des Deutschen Kaiserreichs
Place: Darmstadt
Publisher: wbg (Wissen, Bildung, Gemeinschaft Verlag)
Year: 2020
ISBN: 9783806241792
URL: link to the title

Authors: Rainer F. Schmidt
Title: Kaiserdämmerung. Berlin, London, Paris, St. Petersburg und der Weg in den Untergang
Place: Stuttgart
Publisher: Klett-Cotta
Year: 2021
ISBN: 9783608983180
URL: link to the title

Reviewer Carlo Spagnolo - Università degli studi di Bari

Citation
C. Spagnolo, review of Aufbruch in die Moderne, Schatten des Kaiserreichs, Bismarcks ewiger Bund, Kaiserdämmerung in: ARO, V, 2022, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/3/aufbruch-in-die-moderne-carlo-spagnolo/

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1. Forse dall’Historikerstreit e dalla riunificazione delle due Germanie non poteva non scaturire un ripensamento del passato volto a ricucire la trama tormentata dello Stato unitario e a rivalutare le opzioni perdute, le identità plurali alle quali ricollegare una Germania unificata e democratica dopo la Guerra fredda. Non era invece scontato che emergesse un revisionismo storiografico moderato che pretenderebbe di sciogliere in termini piccolo-tedeschi una vicenda che per ragioni culturali e geografiche si può affrontare soltanto su scala europea. Nell’impostazione piccolo-tedesca, a mio avviso, si debbono ricercare le origini di uno stallo nel giudizio sul Kaiserreich e alcune ragioni delle polemiche che ruotano attorno all’abbandono della narrativa del Sonderweg, databile dagli anni Ottanta. Sulle riviste scientifiche, nelle conferenze accademiche e persino sui media è quasi obbligatorio aprire le discussioni sul Reich di Bismarck o sull’Impero guglielmino con una professione di fede contro il Sonderweg. Il rovesciamento, in assenza di una elaborazione concettuale nuova, ha portato a uno stallo interpretativo, in quanto si nega il Sonderweg mentre lo si mantiene in vita come metro di giudizio storico. Un riflesso di questa discussione si ritrova nei libri che esaminiamo, e nelle molte ambiguità semantiche delle categorie adottate per il giudizio, quali modernizzazione, democratizzazione, occidentalismo e federalismo.

2. Muoviamo da Eckart Conze, che in un denso capitolo mette in luce con grande lucidità come la ricezione del libro di Christopher Clark, I sonnambuli, sullo scoppio della Prima guerra mondiale, pubblicato in tedesco nel 2013, abbia prodotto la rottura di un tabù culturale: «Contro la connotazione di una decisione consapevole per la guerra, Clark sin dal titolo del suo libro I sonnambuli» ha liberato l’opinione pubblica tedesca dalla colpa della Prima guerra mondiale. La risonanza del libro, che ha venduto oltre 200.000 copie entro il marzo 2014, apre la strada a un rovesciamento del giudizio di Fischer sulle responsabilità dei comandi militari tedeschi, nonostante le cautele con cui il problema è stato posto: «per Clark non conta tanto la questione del perché ma quella del come» (pp. 230 e 231). Secondo Clark un po’ tutte le grandi potenze contribuirono a generare la guerra e le sue cause furono talmente complesse da farne un evento sistemico, rispetto al quale sarebbe insufficiente un approccio causale attribuito a una sola attrice. Conze osserva come sul settimanale «Der Spiegel» ne sia stata data una lettura «trionfalistica» secondo la quale «la tesi della responsabilità principale tedesca viene seppellita in profondità». Conze ragiona su come una corrente di storici conservatori si sia schierata contro il «masochismo nazionale» e come essa si riallacci all’ampia pubblicistica degli anni Venti e Trenta che contestava l’art. 231 del Trattato di Versailles che prescriveva le riparazioni di guerra alla Germania. Conze attribuisce al recupero della tradizione revisionista degli anni Venti e Trenta la forza narrativa di una pubblicistica giustificazionista, nella quale si tangono un «revisionismo di destra estrema» e singole posizioni conservatrici e moderate che pur tenendosi «a distanza da un populismo di destra» coltivano immagini nostalgiche ed edulcorate dell’età guglielmina. Fa effetto notare che quella discussione avvenisse alla vigilia del centenario della Grande Guerra del 14 luglio 2014, in coincidenza con la crisi in Crimea e in Ucraina.

Il libro di Conze, che è organizzato in tre parti – «I. la via allo stato nazionale»; «II. lo stato nazionale autoritario»; «III. Un Reich passato?» – va raccomandato per una accurata guida all’uso pubblico della storia del Kaiserreich, per chi voglia informarsi sul rapporto tra storia, storiografia e media. Esemplari le pagine dedicate alla controversia tra gli eredi del Kaiser Guglielmo II e la Repubblica Federale per la restituzione delle proprietà degli Hohenzollern nazionalizzate dalla Repubblica di Weimar dopo l’abdicazione, l’analisi di come il processo civile abbia avuto vaste ripercussioni sulla revisione della narrazione della democrazia weimariana e sul recupero di un «national-historischer Revisionismus» (pp. 242 sgg.).

Non loderemo mai a sufficienza queste pagine, perché non possiamo non rilevare che esse danno risposte innovative ai problemi sollevati dal «revisionismo». La narrazione negativa del Kaiserreich, maturata in una generazione come quella di Nipperdey e Wehler, ben più attrezzata sul piano metodologico di una emergente piuttosto fragile, mostra la corda dietro la spinta di un nuovo patriottismo costituzionale che si rivolge al Kaiserreich in cerca di legittimazione storica.

La ricerca di continuità ha qualche fondamento nell’individuazione di una modernità raggiunta a fine secolo, ma quanto se ne traggano improprie estensioni lo dicono i tre libri che esaminiamo, legati in vario modo a Clark. Quelli di Schmidt e Richter possono essere classificati nella scuola moderatamente revisionista contro la quale si indirizzano gli strali di Conze; Haardt è stato allievo di Clark a Cambridge, e il suo libro è l’esito di una tesi di dottorato; Schmidt invece prende Clark a bersaglio e non si accontenta di criticare l’ipotesi dei «sonnambuli irresponsabili» ma vorrebbe addirittura rovesciare le vecchie tesi del Sonderweg per attribuire la colpa della Grande Guerra alle potenze occidentali, in particolare a Francia e Gran Bretagna. Tutti e tre, in varia misura, condividono l’insistenza sulla continuità della storia tedesca, una rivalutazione del sistema istituzionale del Reich e soprattutto una critica – per Richter e Schmidt esplicita e frontale, per Haardt molto più sfumata – ad una storiografia che considerano tradizionale, ossia quella improntata alla storia sociale di Wehler e Winkler che vedeva nel Kaiserreich il problema e in Weimar un tentativo democratico da difendere. Per metodo, qualità e contenuto i tre volumi vanno distinti e contengono valutazioni inconciliabili su molti aspetti, eppure ciascuno a suo modo solleva lo stesso interrogativo: si può normalizzare la storia tedesca e uscire dallo schema del Sonderweg?

3. Il libro di Hedwig Richter, già severamente recensito da Ute Daniel, non meriterebbe particolare attenzione se non fosse stato pubblicato da Suhrkamp, a lungo un bastione della cultura di sinistra, equiparabile per qualità e rilievo all’italiana Einaudi[1]. Sul piano della ricerca non contiene novità, e risulta una prosecuzione di tesi assolutorie della coscienza tedesca già esposte dall’autrice in un precedente libro, Demokratie. Eine deutsche Affäre, 2020, la cui discussione ha fatto irruzione sui media, nonostante le due argomentate stroncature di Christian Jansen e Andreas Wirsching apparse a inizio 2021, che non ne hanno rallentato la circolazione; hanno invece suscitato una difesa sul più importante quotidiano moderato e una risonanza sorprendente altrove. Non entreremo nei dettagli, sui quali lettori potranno documentarsi in proprio[2].

Il libro sul Kaiserreich si inserisce nella scia del precedente, non è un libro di ricerca, ma una tessera di una nuova narrazione della storia nazionale che applica al Kaiserreich il linguaggio del politically correct per renderlo immediatamente accessibile al pubblico tedesco del XXI secolo. L’autrice sostiene e ribadisce ripetutamente che la Germania guglielmina facesse parte di un trend democratico ed egualitario che attraversava lo «spazio nordatlantico». Includendo il Reich in uno spazio nordatlantico delle democrazie generatosi soltanto dopo il 1945, Richter rimuove la storia tedesca dal centro dello spazio europeo oscurandone i rapporti con l’Est e con il Sud e rendendo incomprensibili le due guerre mondiali. Con sguardo teleologico, Richter tratteggia ottimisticamente lo sviluppo del Kaiserreich come parte di una tendenza nordoccidentale verso l’eguaglianza, la dignità dell’uomo, i diritti e la democrazia (p.16). È difficile individuare cosa intenda per modernità, inclusione, parlamentarismo, concetti che vengono spesso usati come sinonimi in questo flusso democratico privo di avversari e frenato da ostacoli oggettivi (la povertà, la diseguaglianza, le risorse, le credenze oscurantiste, gli altri Stati), ai quali le forze al potere fanno fronte con una serie continua di riforme. La cancellazione dei conflitti serve a giustificare la tesi che la democrazia nordatlantica soffrisse di problemi comuni perché ovunque la democrazia generava ingiustizie ed esclusioni: se la Germania era autoritaria, gli Stati uniti erano razzisti e la Gran Bretagna imperialista, piena di discriminazioni, aveva persino un suffragio più restrittivo di quello tedesco (p. 142). Il Cap. 3 e il Cap. 4, rispettivamente dedicati all’espansione coloniale e alla guerra, vorrebbero mettere a fuoco i lati oscuri della democrazia di massa – «Le violenze coloniali furono rese possibili non da ultimo dallo sviluppo di un enorme potere delle società per l’inclusione delle masse, società che si sentirono legittimate ad impiegare le loro grandi risorse per la sottomissione degli altri» (p. 91) – e trascurano lo sviluppo dei mercati, le culture nazionali e gli agenti storici del colonialismo.

Richter non usa mai il termine «classe» e lo sostituisce con «élite»: assume una unità tra élites e masse, considerando quindi superflua l’analisi del sistema politico e dei suoi conflitti. La democrazia diventa «un progetto elitario» consensuale e illuminista che avrebbe generato una dinamica emancipatrice dovuta alla sua promessa di eguaglianza. Democrazia sarebbe il controllo dei soggetti sui loro corpi, controllo a suo avviso ben avviato nell’età guglielmina.

Richter mescola confusamente una sorta di idealtipo neo-liberale e post-femminista del potere individuale sul proprio corpo con antichi anatemi elitisti sull’ascesa delle masse. La cancellazione della storia politica produce una generica continuità tra la «democrazia» di inizio secolo e quella di Weimar. Non contano più tanto la rottura rivoluzionaria e la costituzione democratica quanto la caduta del potere maschile che sarebbe effetto dell’estensione del suffragio alle donne, le cui ragioni starebbero nella «democratizzazione e la politicizzazione di massa» avviata in età guglielmina, anche se concause quali «la guerra e la rivoluzione non sono sbagliate» (pp. 134-135). Così le novità nelle élites di inizio secolo diventano più importanti del crollo del potere sovrano e della stessa guerra mondiale.

Esposte le ragioni del dissenso, si può cercare di capire in positivo le ipotesi dalle muove il libro. L’autrice postula che la democrazia non sia una storia lineare del potere centrale ma anche una storia di corpi e di genere i cui rivoli entrano nelle pieghe delle classi dirigenti e nei percorsi di emancipazione di quelle subalterne. I nemici della democrazia fanno parte della sua storia e la storia del Kaiserreich non è comprensibile senza aver presenti le spinte universalistiche provenienti dal Nordamerica, dalla Francia e dall’Inghilterra. Giuste sono anche le osservazioni sulla continua dialettica tra inclusione ed esclusione che attraversa la storia intrecciata di nazione e di democrazia. Se avesse davvero perseguito quella linea con un po’ di rigore avremmo avuto più di un motivo per accogliere la tesi come una novità positiva. Se ha destato tanta attenzione è perché Richter tocca un nervo scoperto della storiografia sul Kaiserreich e su Weimar, figlia della Guerra fredda e di una narrazione che, nonostante molti distinguo, ha identificato modernizzazione e parlamentarismo, capitalismo e sviluppo, liberalismo e democrazia. Il termine «democratizzazione» in riferimento al sistema elettorale del Reichstag è di largo impiego, lo hanno usato Margaret L. Anderson e Simone Lässig senza suscitare le stesse critiche. L’impiego di categorie interpretative discutibili quanto ha preparato il terreno su cui si poggia questa confusa narrazione continuista e occidentalista?

4. A conclusioni opposte sul funzionamento del sistema federale giunge Haardt, il cui lavoro è frutto di una complessa ricerca di archivio e contribuisce alla nostra comprensione del Kaiserreich[3]. Il Bundesrat, come noto, era la Camera alta della federazione, costituzionalmente l’organo di coordinamento dei poteri sovrani aderenti alla confederazione e Bismarck vi collocò il cuore del «patto eterno» (ewiger Bund) tra i suoi membri (p. 803). Il suo funzionamento, pur noto, non era stato approfondito con tanta acribia e il lavoro è prezioso anche se l’autore si sofferma soprattutto gli aspetti costituzionali: il rapporto tra Prussia e altri stati federali, il ruolo dell’esecutivo federale, la composizione dell’organo, le sue strutture amministrative e il legame centro-periferia, le conseguenze per gli esecutivi degli Stati membri, il modo in cui le forze politiche cercarono di avvalersi della struttura federale e le sue eredità storiche successive. Haardt documenta che la Costituzione del Reich lasciava grandi margini di flessibilità a mutamenti dei rapporti federali, contrariamente a quanto ha ritenuto una parte della storiografia (p. 277). Nonostante la promessa iniziale di una storia culturale (pp. 11-12), il suo taglio è politico-istituzionale. L’approccio è comunque ampio e le acquisizioni sono notevoli. Nella Parte I si muove dall’ipotesi – già formulata da C. Clark, Time and Power, 2019 – che il progetto di Bismarck fosse di fermare il tempo congelando i rapporti tra i poteri sovrani alla situazione del 1870. Il cancelliere avrebbe provato almeno a rallentare il cambiamento e questo obiettivo sarebbe inevitabilmente fallito per le dinamiche storiche che indussero a un progressivo sbilanciamento del potere verso il centro del Reich, quindi nelle mani del cancelliere e dell’imperatore (pp. 334-341). Haardt spiega esaurientemente nella Parte II e III come il Reich svuotasse i poteri degli Stati attraverso la designazione dei loro rappresentanti al Bundesrat. A partire dalla fine degli anni Ottanta la politica nel Bundesrat non venne discussa dai sovrani né dai loro ministri ma da personale burocratico comandato, rendendo impossibile un coordinamento politico tra i militari, i poteri economici e la diplomazia. L’autore, che vede dopo il 1900 una crescita delle funzioni colegislative del Reichstag per effetto dell’accentramento del Reich, ritiene che si debba superare la tesi del «parlamentarismo tacito» di Manfred Rauh e che si possa parlare di una parlamentarizzazione dovuta ad un mutamento della Costituzione (p. 599). Il recensore – omettendo le proprie riserve – segnala una consonanza con la «democratizzazione» di Margaret L. Anderson e con alcuni dei passaggi di Richter. Haardt postula un valore positivo del federalismo in sé, il che spiega perché abbia dato tanto spazio a una comparazione insistita e non sempre persuasiva con altri due Stati federali, la Svizzera e gli Stati uniti. Se essa gli consente di sottolineare l’unicità del caso tedesco e al contempo di rigettare il Sonderweg (p. 823), il rischio è di accogliere una sorta di occidentalismo implicito, perdendo di vista i possibili effetti negativi del federalismo. Tale preferenza si evidenzia nel capitolo conclusivo, dove Haardt sviluppa alcune considerazioni sulle modifiche dell’assetto costituzionale a Weimar e nella Repubblica Federale Tedesca, e si spinge fino a rilevare le numerose analogie dell’assetto del Kaiserreich con il sistema pattizio e paracostituzionale dell’Unione Europea.

5. Se Haardt prende cautamente le distanze da una storiografia che aveva troppo insistito sul centralismo autoritario bismarckiano, Schmidt vorrebbe liquidarla del tutto e fare i conti definitivi con la generazione di Wehler e Nipperdey e ancora prima di Fritz Fischer, ma la sua ambizione trova un limite invalicabile nell’ mpiego delle stesse categorie che vorrebbe superare. Ad esempio, egli rimprovera a Wehler di aver usato la policrazia per il Kaiserreich, negandone l’appropriatezza, poi nel Cap. 2 descrive il funzionamento della corte di Guglielmo II come «policratica». Richiama l’esigenza di superare il Sonderweg e passare alle specificità mentre pone sempre le domande del Sonderweg e giudica la storia tedesca soltanto con quei parametri morali. Mantenere il linguaggio inquisitorio significa avvilupparsi nel dilemma tra condanna e assoluzione.

Ciò nonostante, il libro è molto informativo perché si basa su ricerche archivistiche sui rapporti internazionali tra Germania, Francia e Inghilterra che danno conto del riarmo e dell’imperialismo di inizio XX secolo. Non è certo un tema nuovo, ma come contributo al dibattito sul riarmo merita attenzione sebbene non convinca la tesi di aver dimostrato non soltanto l’erroneità di Fischer e di Clark ma persino la responsabilità primaria di Francia e Inghilterra nello scoppio della guerra mondiale e di aver così discolpato il Kaiserreich. Salta agli occhi quanto germanocentrica sia la sua impostazione delle cause della Grande Guerra che si concentra su cinque grandi potenze europee (Francia, Inghilterra, Germania, Austria e Russia), limitandosi in realtà alle prime tre, con riferimento soprattutto all’espansione in Africa ma minore attenzione all’Asia e alla crisi dell’Impero asburgico e dell'Impero ottomano. In questa analisi Schmidt enuclea puntualmente gli errori della politica estera di Guglielmo II, l’isolamento che essa comportò, il grave sbaglio di aver abbandonato la Russia alla Francia. Significativo è il ripensamento della politica coloniale suggerito da Schmidt: per i successori di Bismarck, e specialmente per von Bülow, l’espansione coloniale sarebbe stata uno strumento per convincere l’Inghilterra ad una alleanza con le potenze centrali. Schmidt interpreta il ragionamento contorto e autolesionista dei governi di età guglielmina e dell’imperatore secondo cui una Germania forte avrebbe potuto indurre l’Inghilterra a cercare un’alleanza con il Reich piuttosto che guardare alla Francia e alla Russia, da cui la dividevano le questioni coloniali in Africa e Asia.

L’autore sostiene le intenzioni fondamentalmente pacifiche della Germania guglielmina, dell’imperatore e della sua poco accorta diplomazia. In questo modo ci aiuta a capire le prospettive e le mentalità dell’elite militare guglielmina e sta soprattutto lì il suo merito. Il limite sta nel trascurare che al di là delle intenzioni contano i fatti, ossia le sfide che l’ascesa tedesca comportava per l’equilibrio europeo e mondiale. L’argomento di Schmidt, ripreso pari pari dalle posizioni di von Bülow e degli architetti dell’espansione coloniale, è di un pari diritto della Germania ad essere una potenza mondiale: da uno storico che scrive due secoli dopo ci aspetteremmo maggior distanziamento.

In ultima istanza, nonostante le sue affermazioni polemiche, Schmidt corrobora le vecchie tesi di Fischer e Wehler, già da tempo integrate da Stürmer e Hillgrüber, sulle responsabilità tedesche e sugli orientamenti aggressivi di alcune componenti militari, ma ritiene che le altre potenze fossero ancora più orientate alla guerra della Germania e pertanto non sarebbe imputabile a quest’ultima la colpa della guerra. La volontà di guerra di Francia e Inghilterra, tuttavia, è documentata da una serie di dichiarazioni e documenti sul riarmo che provano una spirale di preparazione a potenziali minacce piuttosto che una scelta politica vera e propria di attacco alla Germania. L’indagine certifica una diffidente percezione reciproca che alimentò il riarmo sin dal 1910 e ciò contribuirebbe a superare la tesi di Clark e a capire le accelerazioni del luglio 1914, a patto di riconoscere che non c’è nulla di particolarmente nuovo sotto il cielo. L’insistenza sul desiderio francese di vendicare Sédan, cui l’autore. fa spesso riferimento, costringe su binari precostituiti le considerazioni che egli ne trae sul Sonderweg. Nella ossessione di rigettare il Sonderweg, Schmidt oscilla tra giudizi molto condivisibili – «Il Kaiserreich non ha né spianato la strada al nazionalsocialismo, né fu la scala che condusse Hitler alla Cancelleria» (p. 795) – e altri sbilanciati in cui si recide ogni legame tra il Kaiserreich e la spietata lotta alla democrazia condotta dopo il 1919, per esempio laddove scrive che la Seconda guerra mondiale fu causata dall’erroneo assetto territoriale di Versailles del 1919 (p. 27) e dalla «totale[n] militärische[n] Selbstaufgabe» (totale rinuncia militare) della Germania nel 1918 (p. 757). In questi passaggi non c’è alcun compiacimento verso i reazionari nemici della Repubblica di Weimar, ma una scrittura squilibrata dalla preoccupazione del Sonderweg. L’accusa prosegue contro il parlamento di Weimar, non soltanto le divisioni tra i partiti vengono condannate severamente ma il parlamentarismo costituzionale diventa un «Parlamentsabsolutismus» (p. 791). Schmidt rimprovera al tatticismo del Zentrum cristiano assai più che ai nemici nazionalisti di Weimar le colpe principali dell’ascesa alla dittatura di Hitler. E il contenimento del parlamentarismo sarebbe a suo avviso la principale lezione storica tratta dalla Germania occidentale dopo il 1949. Schmidt difende infatti a spada tratta la BRD e la sua Costituzione, i limiti che essa impone alle opposizioni, i divieti di propaganda di ideologie estremiste anticostituzionali e propone a modello universale un’interpretazione restrittiva del costituzionalismo della Repubblica Federale Tedesca.

6. In sintesi, per quanto ricca di spunti e anche produttiva di conoscenze, questa produzione storiografica autoriflessiva non risulta ancora attrezzata al compito di rivisitare la storia tedesca ed europea e non riesce ad andare oltre una prospettiva nazionale piccolo-tedesca. Che peso dare a questi sforzi di produrre una nuova narrazione del Kaiserreich? Non si tratta, nei saggi di Schmidt e Richter, di un revisionismo apologetico del nazionalismo, quanto di un eccesso di ambizione nel superare definitivamente il Sonderweg e recuperare il Kaiserreich a un orgoglio nazionale della propria modernità. Un mix di marketing editoriale, ricerca di originalità accademica, sovrapposizione delle categorie del presente sul passato, compiacimento dei successi della Repubblica Federale Tedesca induce a un’ enfasi continuista per Richter e, all’opposto, a un’ enfasi sulla rottura del 1918-1919 per Schmidt. Sono due facce di una stessa medaglia, di uno stesso problema con cui è difficile misurarsi. Una via di uscita forse esiste, ed e stata proposta da una recente e fine sintesi: «The testimony of Wilhelmine Germans themselves suggests the existence of a political Sonderweg before 1914»[4]. Assumere storicamente il giudizio coevo sull’esistenza di una via tedesca speciale, senza condanne morali aprioriste, e senza ipotecare il giudizio sulle cause della Prima guerra mondiale e su Weimar, è la nostra modesta proposta per superare quella discussione e allargarne i termini.

 

[1] U. Daniel, Rezension von: Hedwig Richter, Aufbruch in die Moderne. Reform und Massenpolitisierung im Kaiserreich, Berlin, Suhrkamp, 2021, «Sehepunkte», 21, 2021, 6 [15.06.2021], http://www.sehepunkte.de/2021/06/35793.html.

[2] La recensione di Christian Jansen su «H-Soz-und-Kult», 19.2.2021, https://www.hsozkult.de/searching/id/reb-49883?title=h-richter-demokratie&recno=9&q=jansen%20richter&sort=&fq=&total=111; A. Wirsching, Rezension von: Hedwig Richter, Demokratie. Eine deutsche Affäre. Vom 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart, München, C.H. Beck, 2020, in «Sehepunkte», 21, 2021, 3 [15.03.2021], http://www.sehepunkte.de/2021/03/34995.html; la replica di Richter è accessibile dallo stesso link. La difesa sulla stampa è di P. Bahners, Demokratie, Nationalsozialismus und eine umgekehrte Dolchstoßlegende. Eine deutsche Affäre: Die maßlose Kritik an der Historikerin Hedwig Richter, in «FAZ.NET», 17. März 2021, Archiv-URL: https://archive.ph/zTpA8; erweiterte Version vom 20. März 2021: https://www.faz.net/aktuell/feuilleton/debatten/masslose-kritik-an-der-historikerin-hedwigrichter-17248489.html?printPagedArticle=true). Per un sintetico resoconto in tedesco e in inglese si veda G. Metzler, Eine deutsche Affäre? Notizen zur öffentlichen Geschichte, April 15, 2021, https://public-history-weekly.degruyter.com/9-2021-3/demokratie-hedwig-richter-debatte/#_deftn2. H. Richter ha rilasciato diverse interviste sui media, alcune accessibili su Youtube.

[3] Una recensione molto positiva è stata redatta da F.F. Sterkenburgh, in «The English Historical Review»,137, 2022, 585, pp. 623-626, https://doi.org/10.1093/ehr/ceac022.

[4] M. Hewitson, Germany and the Modern World 1880-1914, Cambridge, Cambridge University Press, 2018, p. 166.

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