V, 2022/3

Aufbruch in die Moderne, Schatten des Kaiserreichs, Bismarcks ewiger Bund, Kaiserdämmerung

Review by: Amerigo Caruso

Authors: Hedwig Richter
Title: Aufbruch in die Moderne. Reform und Massenpolitisierung im Kaiserreich
Place: Berlin
Publisher: Suhrkamp
Year: 2021
ISBN: 9783518127629
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Authors: Eckart Conze
Title: Schatten des Kaiserreichs. Die Reichsgründung von 1871 und ihr schwieriges Erbe
Place: München
Publisher: dtv
Year: 2020
ISBN: 9783423282567
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Authors: Oliver F. R. Haardt
Title: Bismarcks ewiger Bund. Eine neue Geschichte des Deutschen Kaiserreichs
Place: Darmstadt
Publisher: wbg (Wissen, Bildung, Gemeinschaft Verlag)
Year: 2020
ISBN: 9783806241792
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Authors: Rainer F. Schmidt
Title: Kaiserdämmerung. Berlin, London, Paris, St. Petersburg und der Weg in den Untergang
Place: Stuttgart
Publisher: Klett-Cotta
Year: 2021
ISBN: 9783608983180
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Reviewer Amerigo Caruso - Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn

Citation
A. Caruso, review of Aufbruch in die Moderne, Schatten des Kaiserreichs, Bismarcks ewiger Bund, Kaiserdämmerung in: ARO, V, 2022, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/3/aufbruch-in-die-moderne-amerigo-caruso/

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Volendo mettere a confronto gli anniversari per i 150 anni dalla fondazione dei rispettivi Stati unitari in Italia e Germania si potrebbe partire da questa osservazione: da parte italiana, tante celebrazioni pubbliche, mostre e tricolori; da parte tedesca il prevalere, invece, di un basso profilo a causa della posizione molto più delicata che occupa il Kaiserreich nel complesso sistema della cultura della memoria nella Repubblica Federale tedesca. In riferimento alla storiografia, sempre per sommi capi, si potrebbe osservare come in Italia, dopo l’ultimo grande dibattito risalente alla pubblicazione del volume di Alberto Mario Banti (La nazione del Risorgimento, 2000), lo studio del Risorgimento si sia attestato su un consenso basato sul successo dei paradigmi culturalista e transnazionale. In occasione dell’anniversario del 2011 non si sono sviluppati dibattiti fondamentali sul metodo e sulle grandi linee interpretative. Si è piuttosto proseguito il percorso intrapreso dopo la svolta culturalista e transnazionale, il quale ha peraltro prodotto un forte rinnovamento della storiografia sul Risorgimento, facilitandone l’integrazione nei dibattiti internazionali.

In occasione dell’anniversario tedesco nel 2021, invece, è esploso un dibattito storiografico molto acceso che fa da contraltare al basso profilo delle (poche) manifestazioni pubbliche. Esaminando questo dibattito, il primo aspetto che si può constatare riguarda il carattere inaspettatamente vibrante di una discussione tanto intensa da coinvolgere direttamente o indirettamente la maggior parte delle storiche e degli storici che lavorano in Germania, occupati a leggere recensioni e repliche che spesso arrivavano a trovare spazio anche nei grandi giornali («Die Zeit», «Frankfurter Allgemeine Zeitung», «Süddeutsche Zeitung»). Tuttavia, mentre nel caso della «Sonderwegsdebatte» negli anni Ottanta il dibattito era stato decisamente internazionale, in questo caso invece la maggior parte dei lavori e delle opinioni al centro della discussione sono rimaste più sul piano nazionale e non hanno suscitato grande interesse al di fuori della Germania. Ma torniamo, prima di analizzare alcune delle pubblicazioni apparse in occasione dell’anniversario, ai motivi per cui ho definito il dibattito inaspettato e polarizzante.

Fino al 2021 la storiografia sembrava dominata da un largo consenso che si basava sul superamento della «Sonderwegsthese» e offriva una lettura articolata e ambivalente dell’Impero tedesco, oltre che meno interessata all’analisi del «poi» (cioè soprattutto del 1933). Anche in Germania, nel terzo millennio, la storiografia sul Kaiserreich si era lanciata alla scoperta di temi ancora poco o per nulla battuti come la storia di genere, coloniale e globale. La «Sonderwegsthese» – la presunta parabola storica eccezionale della Germania, che si sostanziava con la fondazione dell’Impero bismarckiano (conservatore e militarista), per poi radicalizzarsi con la sconfitta del 1918 e la caduta nel baratro nazista – sembrava interessare ormai soltanto gli storici della storiografia. Ma poi, inaspettatamente, e come vedremo anche in maniera strumentale, il dibattito nel 2021 ha riportato questa grande narrazione al centro dell’attenzione. L’origine del dibattito attuale risale infatti alla controversia tra chi sostiene che la «Sonderwegsthese» sia una narrativa ancora influente, capace di offuscare il dinamismo della società tedesca e i processi democratici avvenuti prima del 1914 e chi, dall’altro lato, sottolinea come il superamento della «Sonderwegsthese» abbia lasciato campo libero a revisionismi di destra e nazionalismi pronti a rivalutare il Kaiserreich e farne un simbolo di modernità, progresso e grandeur nazionale.

Il problema di questa disputa è che lo stato della storiografia non sembra giustificare né il timore di un non-superamento della «Sonderwegsthese», né quello di un suo troppo veloce accantonamento. La produzione storiografica negli ultimi tre decenni si è infatti sviluppata a partire dalla constatazione della duplice presenza di tendenze progressiste e conservatrici-autoritarie nella Germania bismarckiana e soprattutto guglielmina: una storia tra luci e ombre, che sono state pesate e valutate a seconda dei contesti e dei fenomeni presi in esame. Luci e ombre sono state inoltre esaminate in prospettiva comparata già a partire dagli anni Novanta, poi anche in prospettiva transnazionale e globale. In questo senso risulta difficile condividere soprattutto il timore rispetto al protrarsi della presenza ingombrante della «Sonderwegsthese», che si basava proprio sull’idea di eccezionalità tedesca rispetto al percorso 'normale' dei vicini occidentali.

È questo, a grandi linee, il contesto in cui si inseriscono i quattro volumi che andremo a presentare. Due di essi sono forse tra i più rappresentativi del dibattito cui abbiamo accennato: quelli di Eckart Conze e Hedwig Richter. Il saggio di Conze interviene contro la tendenza a rivisitare la storia del Kaiserreich in maniera troppo edulcorata, mentre Richter critica la persistenza di una narrazione cupa e statica. I restanti due volumi, di Oliver Haardt e Rainer F. Schmidt, hanno in comune la dichiarazione ambiziosa e dettata probabilmente delle rispettive case editrici di offrire una nuova interpretazione del Kaiserreich. Entrambi i lavori non realizzano questa aspettativa, anche se l’ampio studio proposto da Haardt si basa su fonti ancora poco utilizzate (gli Atti del Bundesrat, il Consiglio federale). Volendo collocare entrambi i lavori nello schema semplificato che si è proposto, bisognerebbe avvicinarli più alla posizione «revisionista» di Richter: Haardt in riferimento alla politica interna, Schmidt nel campo della politica internazionale.

Il lavoro di Schmidt è revisionista soprattutto per il tentativo, criticatissimo nelle recensioni, di scaricare la responsabilità delle tensioni che portarono alla Prima guerra mondiale e anche delle conseguenze del conflitto (Versailles) sulle spalle della Francia, in parte della Russia e soprattutto dell’Impero britannico. Qui Schmidt individua un «complesso di colpa» della storiografia tedesca che andrebbe a suo dire superato per offrire una linea interpretativa non preconcetta. La sua interpretazione della situazione interna del Kaiserreich è invece attestata sull’accentuazione delle ambiguità che, come abbiamo visto, caratterizza gran parte produzione storiografica dopo il superamento della «Sonderwegsthese»: da un lato la persistenza del potere dei militari e un parlamentarismo incompiuto; dall’altro il suffragio universale (maschile) e la costruzione di un moderno stato sociale. Entrambe le linee interpretative, quella revisionista sulla politica internazionale e quella ambivalente rispetto alla valutazione della situazione interna, sono tutt’altro che innovative.

Il volume di Oliver Haardt è ben lontano dal tentativo, portato avanti da Schmidt e definito da Dieter Langewiesche «Entlastungskurs», di minimizzare la responsabilità tedesca in riferimento allo scoppio della Prima guerra mondiale. Haardt si occupa di processi interni alla società e, in particolare, al sistema politico guglielmino. Nel novero dei numerosi volumi pubblicati in occasione dell’anniversario, quello di Haardt è uno dei pochi a basarsi su un pluriennale lavoro empirico sulle fonti. Si può discutere se l’altisonante promessa fatta nel titolo («una nuova storia del Kaiserreich») sia mantenuta o meno, ma sicuramente Haardt ha il merito di aver gettato luce su fonti poco utilizzate. Il libro offre una ricostruzione approfondita, anche se a tratti ipertrofica (quasi 1000 pagine), della cornice istituzionale e del diritto costituzionale dall’anno di fondazione della Confederazione Tedesca del Nord nel 1867 al crollo dell’Impero nel 1918. Al contrario della storiografia classica, Hans-Ulrich Wehler in testa, che partiva dall’assunto che conflitti e crisi fossero aspetti strutturali del Kaiserreich, Haardt descrive il quasi mezzo secolo intercorso tra unità e scoppio della guerra mondiale come un periodo dominato da processi di progressiva stabilizzazione, almeno sul piano politico-istituzionale. Come aspetti fondamentali nell’ambito di questi processi vengono posti in risalto la centralizzazione del quadro istituzionale e la crescente importanza del parlamento nazionale (Reichstag). La presunta stabilizzazione e integrazione istituzionale delle varie componenti del nuovo Stato unitario avrebbe avuto come protagonisti oltre che il Reichstag, il governo centrale e la Corona imperiale.

Qui vengono alla luce tre importanti contraddizioni nella ricostruzione di Haardt. Il primo punto è che alla crescente centralità (anche mediatica) del Reichstag non corrispose una completa trasformazione parlamentare del sistema. In questo caso più che una stabilizzazione sembra configurarsi un campo di tensione tra l’ascesa del parlamento e la difesa dei privilegi portata avanti da istituzioni conservatrici come la monarchia, l’esecutivo, la burocrazia e l’esercito. In secondo luogo, appare quantomeno discutibile pensare che l’emergere di una monarchia «nazionale» sotto la guida di Guglielmo II abbia potuto avere effetti stabilizzanti. La ricerca ha infatti dimostrato ampiamente come il Kaiser fosse una fonte continua di scandali e instabilità, ma anche come le monarchie 'regionali', per esempio Sassonia e Württemberg, fossero per certi versi più popolari e stabili della monarchia nazionale-imperiale prussiana. Il terzo aspetto critico è che Haardt porta avanti le sue tesi ex negativo. Mi spiego meglio: l’autore si concentra sul Bundesrat, l’istituzione più federale nell’architettura costituzionale del Kaiserreich, giungendo alla conclusione che questa istituzione perde rilevanza nel corso dei decenni e gioca un ruolo ormai marginale alla vigilia del 1914. A partire da questa constatazione, Haardt osserva ex negativo la crescita di importanza di altre istituzioni centrali (Reichstag, monarchia e governo imperiale). In questo modo egli conferma paradossalmente la validità di assunti preesistenti a proposito dell’importanza secondaria del Bundesrat e spiega così anche perché gli atti di questa istituzione non siano mai stati al centro del dibattito. Haardt analizza comunque anche una lunga serie di fonti pubblicistiche, soprattutto in merito ai dibattiti di diritto pubblico e costituzionale. Soltanto in questo senso l’autore offre anche argomenti ex positivo a sostegno delle sue tesi sul rafforzamento delle istituzioni centrali e la stabilizzazione della cornice politico-istituzionale della Germania guglielmina.

Un ultimo aspetto da sottolineare è il fatto che, prendendo per buone le tesi di Haardt sui processi di stabilizzazione e «integrazione», queste dinamiche vengono dimostrate soltanto in riferimento alla dimensione politico-istituzionale. Soltanto in futuro, quindi, dopo aver esaminato altre fonti, si potrà capire veramente se alla centralizzazione a livello istituzionale sia corrisposta una crescente stabilità e integrazione delle società tedesca. Haardt stesso rileva nell’Introduzione l’importanza di una storia politica aperta ad approcci in termini di storia culturale. Concretamente si tratterebbe di verificare, per esempio, come i processi di centralizzazione e presunta stabilizzazione istituzionale siano stati percepiti, trasmessi e costruiti da parte di opinioni pubbliche e mezzi di comunicazione più ampi e plurali – non solo da giuristi e addetti ai lavori. Questo tentativo di ampliare il campo rispetto alla classica storia politico-istituzionale è presente soltanto in parte nel volume di Haardt, segnatamente nel primo capitolo, dove i dibattiti sull’architettura istituzionale vengono analizzati attraverso le pagine dei giornali satirici. In questo senso il lavoro di Haardt è in grado di ispirare future piste di ricerca, mentre risultano meno efficaci le dichiarazioni altisonanti dell’autore, che a p. 32, per esempio, lascia intendere di essere il primo storico in 150 anni ad abbandonare la narrazione «borussica» dell’unificazione nazionale (una narrazione ritagliata sul concetto di missione nazionale della Prussia in senso teleologico da Federico II fino a Bismarck).

In riferimento ai volumi di Eckart Conze e Hedwig Richter, che analizzeremo in quest’ultima parte del saggio, occorre fare una prima fondamentale osservazione: rispetto allo studio dettagliato ed empirico di Oliver Haardt, i lavori di Conze e Richter sono molto più sintetici e di carattere saggistico. Come accennato in precedenza si tratta di due testi che portano avanti paradigmi interpretativi opposti e mettono in risalto rispettivamente ombre e luci della parabola del Kaiserreich. L’utilizzo di questa dicotomia tra ombre e luci, ormai superata dallo stato attuale della storiografia, sembra essere una forzatura cercata dai due autori per dare risalto alle proprie argomentazioni. Dopo l’erosione della «Sonderwegsthese» la storiografia ci ha fornito infatti un’immagine del Kaiserreich differenziata e complessa, che è molto distante sia da quella cupa (dominante nell’era del «Sonderweg»), sia anche da quella acritica e patriottica che dominava nella Repubblica di Weimar e nell’era Adenauer. Conze e Richter hanno quindi contribuito a riattivare una dicotomia che non rispetta il molto più articolato e complesso stato della storiografia. Questa semplificazione ha prodotto tuttavia anche effetti positivi: in primo luogo la capacità di generare un dibattito e soprattutto il fatto di averci ricordato che dopo il tramonto delle grandi narrazioni non abbiamo più un chiaro schema interpretativo nel quale collocare il Kaiserreich, soprattutto in riferimento alle dimensioni di continuità e discontinuità dopo il 1918 e il 1933.

Proviamo ad approfondire brevemente la visione più dinamica e progressista del Kaiserreich che propone Richter. Prima però occorre fare una precisazione: il volume di Richter è il terzo libro dedicato al Kaiserreich che la storica tedesca ha pubblicato negli ultimi anni, sviluppando tesi simili soprattutto in riferimento alla storia della democrazia e della cultura democratica. Il primo lavoro, uscito nel 2017 e molto più empirico dei successivi, propone un’analisi comparata delle campagne elettorali in Germania e negli Stati uniti nel corso dell’Ottocento (Moderne Wahlen. Eine Geschichte der Demokratie in Preußen und den USA im 19. Jahrhundert). Il secondo volume, apparso nel 2020 e aspramente criticato nelle recensioni (apprezzato e premiato, invece, fuori dall’accademia), si concentra sulla storia di pratiche, culture e movimenti democratici in Germania dalla fine dell’Ottocento ad oggi (Demokratie. Eine deutsche Affäre. Vom 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart). Il terzo volume, molto più snello rispetto ai primi due, si occupa invece 'soltanto' del mezzo secolo di storia tedesca tra unificazione e conflitto mondiale.

La ricostruzione del Kaiserreich e del suo «decollo verso il moderno», come recita il titolo del saggio di Richter, gravita su quattro temi principali. Il primo è quello dell’unificazione nazionale che avrebbe favorito l’entrata in scena delle masse sullo scacchiere politico. Si tratta quindi di una forte inversione di tendenza rispetto al paradigma della «rivoluzione dall’alto», ovvero l’idea che la fondazione del Kaiserreich si stata il prodotto di strategie politico-militari decise nelle stanze del potere. Il secondo centro gravitazionale del «decollo verso il moderno» viene identificato nell’ascesa del movimento operario – non soltanto i sindacati e il partito socialdemocratico, ma anche le organizzazioni ricreative e in generale il peso crescente della «società civile». Segue poi una dinamica più controversa del moderno: la globalizzazione, nel cui ambito si colloca anche la fase più acuta del colonialismo. Un ulteriore processo modernizzatore viene identificato nel movimento per il suffragio universale, con particolare riferimento al movimento delle donne e alle battaglie per la partecipazione democratica. Anche qui, come nel caso della guerra del 1870, Richter evidenzia l’importanza di un conflitto militare moderno, in questo caso la Prima guerra mondiale, come motore della partecipazione delle masse. Il filo conduttore del libro è quindi l’analisi dell’ascesa delle masse nei decenni a cavallo del 1900. Una chiave di lettura non nuova, basti pensare a George L. Mosse. Richter la ripropone in senso olistico, ovvero come capace di spiegare non solo la forza del nazionalismo moderno ma tutti i fenomeni principali dell’epoca: le riforme, il dinamismo della società, ma anche le guerre e il colonialismo. Nonostante guerra e aggressione imperialista siano quindi aspetti che Richter associa al Kaiserreich e, in maniera poco convincente, anche al processo di «inclusione» delle masse, l’Impero tedesco viene sistematicamente accostato a termini progressisti come riforme, democrazia, società civile e soprattutto la non meglio definita «inclusione».

Rimane da esaminare più da vicino anche l’ultimo saggio in programma, ovvero quello di Eckart Conze intitolato Schatten des Kaiserreichs. Die Reichsgründung von 1871 und ihr schwieriges Erbe. Qui ci troviamo di fronte un’immagine del Kaiserreich quasi diametralmente opposta rispetto a quella portata avanti da Richter: uno stato autoritario e imperialista, fondato «dall’alto» con lo scopo non di includere ma di escludere le masse. E ancora: i limiti delle riforme, l’ascesa di antisemitismo, razzismo e nazionalismo radicale. Conze non vuole tornare alla «Sonderwegsthese», anche se ne utilizza diversi argomenti, ma teme che il suo superamento abbia aperto la strada a una «normalizzazione» del Kaiserreich e a una rimozione della complicata eredità lasciata dall’Impero dopo il 1918. L’autore motiva le proprie preoccupazioni facendo riferimento a recenti dibattiti come quello sulle responsabilità della Prima guerra mondiale e sulla restituzione dei beni agli eredi degli Hohenzollern. Si tratta di dibattiti che hanno in comune la tendenza al revisionismo storico e preoccupano se associati alla vitalità del campo populista, nazionalista e neonazista.

Volendo tirate le somme rispetto a quanto detto sulle quattro pubblicazioni e sul dibattito sviluppatosi in occasione del 150º anniversario della fondazione del Kaiserreich, si potrebbero, da un lato, sottolineare aspetti positivi: siamo di fronte a una storiografia fluida che ha ancora molto da dire e sembra anche aver riconquistato una rilevanza accademica e mediatica che mancava dai tempi del dibattito sul «Sonderweg». Un aspetto negativo del dibattito in generale e anche dei quattro volumi presi in esame è che l’emergere di una storiografia non più in bianco e nero, ma capace di descrivere la complessità e soprattutto l’ambivalenza dei processi di modernizzazione è stata strumentalizzata a seconda degli intenti: Eckart Conze sembra dimenticare la vivacità mantenuta dalla storiografia critica sul Kaiserreich anche dopo l’erosione della «Sonderwegsthese»; Hedwig Richter propone tesi olistiche, non in grado di sintetizzare adeguatamente la complessità dei processi di modernizzazione, ma soprattutto esagera l’importanza attuale della «Sonderwegsnarrative». Come Richter anche Oliver Haardt e Rainer F. Schmidt inseguono tesi 'nuove' e provocanti – un’operazione che sfocia nel caso di Schmidt in puro revisionismo e nel caso di Haardt in una linea argomentativa interessante ma non completamente sostenuta dalle sue fonti. Iperboli e semplificazioni non rendono giustizia all’ormai decennale percorso di rinnovamento, internazionalizzazione e diversificazione di metodi e contenuti intrapreso dalla storiografia sul Kaiserreich.

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