Reviewer Deborah Besseghini - Università degli Studi di Milano
CitationCome in uno specchio, l’Età delle Rivoluzioni globali si riflette nella dimensione extraeuropea della Restaurazione. Nella riconfigurazione globale degli imperi, che duecento anni fa generò il mondo attuale, troviamo profondamente intrecciati conflitti ideologici e geopolitici. Il volume La Restaurazione atlantica di Viviana Mellone contribuisce a presentare al pubblico italiano il tema, visitato dalla storiografia internazionale, degli effetti della Restaurazione sulle indipendenze ispano-americane e viceversa. Basti richiamare recenti lavori, come il numero monografico curato da Juan Luis Ossa e Daniel Gutíerrez Ardila, La Restauración como fenómeno extraeuropeo (2018), il volume Los juegos de la política (2021) di Marcela Ternavasio e l'articolo della stessa autrice per «Memoria e Ricerca» La monarchia borbonica e l’effetto Restaurazione nell’Atlantico sudamericano (2019). In tanti hanno analizzato, da diverse angolazioni, le indipendenze ispano-americane in relazione al Congresso di Vienna e alla diplomazia europea (Geneviève Verdo, Klaus Gallo e Karen Racine sono tra questi). Ed è tradizionale (da Charles Webster a William Kaufmann, da William Robertson a Rory Miller e oltre) la lettura secondo la quale un cruciale freno alle iniziative europee contro le indipendenze – e al consolidarsi di sinergie pericolose per il primato britannico in Europa – venne proprio dalle discussioni sull’America ispanica al Congresso di Aquisgrana del 1818. Qui prevalse la linea britannica contraria a qualsiasi intervento militare, o altrimenti coercitivo (che non fosse spagnolo) e favorevole alla mediazione delle potenze tra i belligeranti, nei termini che Londra indicava da anni, ma che non erano mai stati accettati dalla Spagna, la quale infatti non li accettò. Con ciò si ottenne una paralisi formale dell’intervento europeo che favorì gli indipendentisti, o perlomeno così si è finora ritenuto.
Viviana Mellone analizza le reazioni delle potenze al problema dell’instabilità rivoluzionaria nei territori della monarchia spagnola, non a caso dedicando una parte significativa del libro al Congresso di Aquisgrana. Lo fa con l’indubbio merito di individuare l’avvio d’una piena riflessione del disarmonico «concerto europeo» su quella che Rafe Blaufarb ha definito The Western Question (2007) nelle negoziazioni e negli scambi che a Parigi – dove erano già riuniti i plenipotenziari per controllare la situazione francese – fecero seguito all’invasione portoghese dal Brasile, nel 1816, della Banda Oriental (oggi Uruguay), territorio ex-spagnolo già di fatto indipendente. Mellone non si perde nei dettagli della disputa ispano-portoghese o del processo decisionale che portò all’invasione, né si sofferma sulle reazioni (analizzate parzialmente da Marcela Ternavasio ed Elsa Caula) dei diplomatici delle potenze residenti a Rio de Janeiro, la «Vienna dei tropici», presso la corte portoghese lì stabilitasi dal 1808. Si concentra, invece, nel proporre alcune interpretazioni originali, che potrebbero suscitare dibattito. Le negoziazioni parigine sulla Banda Oriental sono presentate come una «conferenza» seguendo Víctor Sanz López (La Conferencia de París sobre la Banda Oriental, 1993) e l’autrice sottolinea che questa non è una visione tradizionale, lasciando il lettore con il desiderio di saperne di più. Si mettono poi in luce due tipologie d’intervento, più immaginato che attuato in questa fase: quello quasi poliziesco, esplicitamente coercitivo, contro le rivoluzioni come minaccia alla pace; e l’intervento volto a orientare con strumenti di soft power l’assetto politico interno di stati sovrani, superando l’idea della limitata ingerenza d’epoca prerivoluzionaria. Il tutto è analizzato in un’ottica multipolare, piuttosto indipendente dall’idea, per esempio di Paul Schroeder, dell’equilibrio come egemonia stabilizzante.
L’analisi, condotta principalmente sulla documentazione conservata negli archivi diplomatici francesi, restituisce nel volume il ruolo centrale della Francia. E d’altronde, soprattutto Parigi s’appellò al pericolo rivoluzionario per sostenere la necessità d’un qualche intervento collettivo. Le ragioni di tale posizione e l’effetto boomerang che generò, quando la Gran Bretagna fece propria l’idea della mediazione congiunta e ne stabilì i termini ad Aquisgrana, avrebbero potuto essere approfonditi nell’intreccio con la questione delle iniziative autonome e informali della Francia in Sud America, cui Mellone dedica il terzo capitolo e delle quali si sono recentemente occupati Gutíerrez Ardila (2014) ed Edward Shawcross (2018), tra gli altri. L’autrice legge poi, anche sulla base di alcune reazioni spagnole (p. 35), le proposte britanniche come il frutto della volontà di Londra di spostare il centro della discussione dall’invasione portoghese della Banda Oriental alle riforme in senso liberale necessarie invece nell’impero spagnolo, per il bene della pace e dell’ordine internazionali, e quasi come condizioni poste alla Spagna in cambio di aiuto: un’ingerenza piuttosto esplicita negli affari interni spagnoli che sarebbe stata poi esercitata anche dalla Francia e dalla Russia. Tale interessante interpretazione ribalta la visione tradizionale di una Gran Bretagna piuttosto riluttante ad affrontare realmente il problema ispano-americano nel suo insieme, in sede europea. Avrebbe potuto arricchire e articolare questo punto di vista l’analisi della proposta di mediazione con le colonie «ribelli», quasi identica, che la Gran Bretagna fece da sola alla Spagna, in tutt’altro contesto, nel 1811 (episodio cruciale nella storia delle indipendenze): un espediente pratico per guadagnare tempo mantenendo l’amicizia di tutti i suoi alleati ispanici delle due sponde dell’Atlantico, vitale contro Napoleone. La Gran Bretagna ripropose periodicamente a Madrid la propria mediazione, per diversi anni, negli stessi termini sempre rifiutati dalla Spagna, prima di proporla alle potenze. L’ipotesi di Mellone dialoga forse solo implicitamente con queste premesse. Piuttosto implicito è anche il dialogo con l’interpretazione sulla provvidenziale paralisi dell’intervento europeo, resa possibile dalla Gran Bretagna ad Aquisgrana, e con un’altra interpretazione classica, ripresa e cristallizzata anni fa da Christopher Platt e Harry Ferns, secondo la quale soprattutto la Gran Bretagna mantenne e difese il principio del non-intervento nell’Ottocento. Pare paradossale, certo, per la prima potenza imperiale, ma tale lettura ha solide basi e il nodo è ancora da sciogliere.
Il libro di Mellone si rivela, in sintesi, un necessario stimolo a proseguire la ricerca all’interno della relazione tra la diplomazia europea e la «geopolitica delle indipendenze ispano-americane» di quelle basi atlantiche che Ronald Robinson e John Gallagher (1953) definirono «sommerse» delle pratiche e dei rituali, anche diplomatici, dell’imperialismo moderno, che nell’Ottocento emerse nel susseguirsi di interventi europei soprattutto in Asia e Africa.