V, 2022/2

Michele Lodone

Invisibile come Dio

Review by: Michele Camaioni

Authors: Michele Lodone
Title: Invisibile come Dio. La vita e l'opera di Gabriele Biondo
Place: Pisa
Publisher: Edizioni della Normale
Year: 2020
ISBN: 9788876426711
URL: link to the title

Reviewer Michele Camaioni - Università degli Studi Roma Tre

Citation
M. Camaioni, review of Michele Lodone, Invisibile come Dio. La vita e l'opera di Gabriele Biondo, Pisa, Edizioni della Normale, 2020, in: ARO, V, 2022, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/2/invisibile-come-dio-michele-camaioni/

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«Intendo qui rendere conto brevemente di una ricerca di storia religiosa italiana dell’ultimo Quattro e primo Cinquecento, che la scomparsa di Delio Cantimori ha lasciato interrotta. Altri forse ne avranno avuto notizia e ne serberanno un qualche ricordo, ma … Augusto Campana ed io siamo in grado e in obbligo di testimoniare per primi. La testimonianza nostra vuole essere tributo alla memoria dell’amico scomparso e insieme alla continuità degli studi, dei quali egli fu maestro a tutti noi»[1]. Con questa asciutta e commossa introduzione si apre il denso «resoconto» con cui, nel 1968, Carlo Dionisotti intese dare pubblica notizia di un incompiuto progetto collettivo di ricerca storica, filologica e letteraria avviato negli anni precedenti intorno alla «vita e l’opera» di Gabriele Biondo (c. 1440-1511), il più giovane dei figli del celebre storico e umanista Biondo Flavio. Un cantiere promettente e in parte già allestito dal punto di vista della raccolta dei documenti e delle ipotesi di lavoro, ma destinato a rimanere deserto, a meno che – questo l’augurio del grande studioso nel congedarsi da quell’impresa cui sentiva di non potersi più dedicare senza Cantimori – quella «ricerca interrotta» non fosse stata «ripresa da altri».

Ad oltre mezzo secolo di distanza, dopo un lungo periodo in cui, fatta eccezione per due contributi di Cesare Vasoli e per alcune note di Giovanni Miccoli, la figura di Gabriele Biondo è di fatto rimasta relegata in quel limbo storiografico da cui Cantimori, Dionisotti e Campana avevano inteso sottrarla, tale auspicio è stato finalmente accolto. Merito del prezioso studio di Michele Lodone, che ha saputo riprendere il filo di quella ricerca interrotta, affrontandone i nodi storiograficamente più complessi e fornendo una accurata edizione degli scritti del Biondo, uno dei personaggi più enigmatici e sfuggenti del Quattrocento religioso italiano: «maestro del sospetto» (p. 134) e «invisibile come Dio», eppure capace di ispirare da Modigliana, remoto centro della Romagna fiorentina, una nutrita rete o comunità di discepoli estesa fino a Bologna, Firenze e Venezia, composta di donne e di uomini che si riconoscevano nella sua guida spirituale. Una vicenda decisamente particolare, quella di Gabriele Biondo e della sua «setta», e allo stesso tempo rappresentativa della peculiare pluralità di indirizzi pastorali, aspirazioni di riforma ed esperienze spirituali che caratterizzò la vita religiosa italiana della seconda metà del Quattrocento e del primo Cinquecento, prima che la cesura provocata dalla Riforma di Lutero polarizzasse le posizioni e che l’estrema semplificazione degli schieramenti prodotta dallo scontro confessionale riducesse inesorabilmente i margini dello sperimentalismo, delle proposte individuali e del non conformismo religioso[2].

Intrecciando con una certa sicurezza gli strumenti della storia, dell’indagine erudita e della filologia, seguendo con pazienza piste documentarie spesso tortuose e valorizzando con cautela le talora contraddittorie tracce indiziarie rinvenute nelle fonti, la ricerca di Lodone si concentra in primo luogo sulla ricostruzione della biografia di Gabriele Biondo. Ad essa è dedicata la prima parte del libro (pp. 21-144), in forma di saggio diviso in due capitoli; segue poi una seconda corposa sezione in cui, dopo una puntuale descrizione dei quattro manoscritti di Firenze, Forlì, Londra e Siviglia che ne conservano il testo (pp. 137-162), si propone l’edizione critica dei tre principali trattatelli spirituali composti dal Biondo: il De meditatione et deceptionibus, completato nel 1492 (pp. 163-212); il Commentarius, traduzione latina – realizzata da Biondo stesso nel 1503 – di un’opera di consiglio spirituale composta in volgare nel 1498, il Ricordo (pp. 213-257); e il più ampio De amore proprio, dedicato alla clarissa Alessandra degli Ariosti e finito di scrivere dal copista don Filippo nell’ottobre 1506 nella casa fiorentina di Strinato Strinati, uno dei discepoli del Biondo e corrispondente tra i più presenti nel suo ancora inedito epistolario (pp. 259-341).

Nella parte più propriamente storico-biografica del suo lavoro, l’autore, dinanzi alla penuria di documenti e informazioni certe, deve fare spesso affidamento su «dati indiretti, congiunturali e di contesto» (p. 21) – legati ad esempio alla figura del padre e ai rapporti di questo o dei fratelli con Eugenio IV e con gli altri pontefici del tempo – per fornire indicazioni sulle altrimenti oscure fasi dell’infanzia, della formazione umanistica e del primo avviamento di Gabriele Biondo alla carriera ecclesiastica e curiale, già percorsa con successo dal fratello maggiore Gaspare durante il pontificato di Paolo II (1464-1471). Risalgono a questo periodo le prime attestazioni di una sorta di informale magistero spirituale di Gabriele, contenute in due lettere di Agapito Porcari fortemente critiche nei confronti della corruzione della Roma pontificia, in cui il giovane viene dipinto come «un modello inattaccabile di rettitudine morale» (p. 55). Poco tempo prima, il fratello di Agapito, l’umanista Paolo Porcari, ne aveva invece elogiato nei suoi epigrammi l’eloquenza e le doti poetiche. Lo scarto tra questi due giudizi sembra riflettere un mutare degli interessi di Gabriele, se non proprio una sua «conversione» situabile nella seconda metà degli anni Sessanta, cui egli stesso avrebbe poi fatto velato riferimento in una lettera scritta trent’anni dopo al nipote Paolo.

Determinante per tale svolta, che portò il Biondo a prendere le distanze dalla cultura umanistica e dalla mondanità della curia romana, assumendo intorno al 1470 il modesto incarico di pievano di Santo Stefano a Modigliana, nell’Appennino tosco-romagnolo, fu con ogni probabilità la lettura delle opere degli «spirituali» francescani e in particolare di Angelo Clareno, Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale. Resa forse possibile dalla presenza di tali scritti, seppur per ragioni polemiche, nelle biblioteche dei frati minori dell’Osservanza di cui il padre Flavio era stato un sostenitore e alle quali dunque Gabriele potrebbe aver avuto accesso in gioventù, la conoscenza del pensiero dissidente francescano da parte del Biondo non è documentata direttamente a quest’altezza cronologica, ma emerge chiaramente nei trattatelli da lui composti nei decenni successivi, su richiesta delle diverse comunità di religiose (tra queste le clarisse del Corpus Domini di Bologna) e di laici che, nel corso del tempo, si erano avvicinati alla sua peculiare proposta di vita cristiana.

Questa non si indirizzava a un particolare stato di persone e anzi tendeva a svalutare, in linea con la tradizione spirituale francescana, gli aspetti esteriori della fede e la dimensione istituzionale della religione, articolandosi intorno a due concetti chiave: la consapevolezza dell’irrimediabile corruzione della Chiesa e la coscienza escatologica del prossimo avvento dei tempi ultimi e del regno dell’Anticristo, da un lato; la ricerca del completo annullamento di sé e dell’affidamento passivo all’amore e alla volontà di Dio, dall’altro. Quest’ultimo tratto, in particolare, era espressione di una concezione di riforma tutta individuale e misticheggiante, fondata sul ripiegamento interiore, che si poneva agli antipodi rispetto alle soluzioni di quei contemporanei i quali, come Girolamo Savonarola, avevano ritenuto che il rinnovamento della Chiesa e della società cristiana dovesse passare, se necessario, anche attraverso l’aperta ribellione e la disobbedienza alle istituzioni ecclesiastiche.

Proprio la convinta condanna dell’esperienza savonaroliana, ricorrente in forme più o meno esplicite in diverse delle opere del Biondo e non dettata da ragioni opportunistiche come ipotizzato da Dionisotti, contribuì ad allontanare dal pievano di Modigliana e dalle sue singolari dottrine mistico-spirituali il sospetto di eresia quando, nel 1501, venne arrestato a Venezia il medico Giovanni Maria Capucci, un suo discepolo accusato di aver divulgato tra gli «incolti» e le donne gli esoterici insegnamenti del Ricordo, la raccolta di consigli spirituali composta dal Biondo per i laici. Al termine di una articolata vicenda giudiziaria su cui le fonti tramandano versioni contraddittorie e che vide intervenire alcune delle figure più in vista del mondo ecclesiastico veneziano, tra cui il teologo cabalista Francesco Zorzi e l’insigne scotista Antonio Trombetta, entrambi frati minori, l’imputato venne infine scagionato e il Ricordo giudicato un testo inadatto ai semplici «a causa dell’oscurità e dello stile insolito»  (p. 113), ma non eretico, al pari del suo autore di cui lo stesso Trombetta – nella Questio composta per l’occasione che riporta alcuni passi dell’originale in volgare dell’opera oggi perduto – significativamente riconobbe l’alta dirittura morale, definendolo «sacerdote che vive in modo spirituale, lontano dalle cose del mondo e da ogni ambizione di carriera (p. 119).

Così dovette in effetti vivere Gabriele Biondo fino alla morte, avvenuta nel 1511. In seguito ad essa, tuttavia, la sua concezione tutta interiore e spirituale della vita cristiana, aliena da ogni compromissione con le gerarchie ecclesiastiche e tendente a svalutarne il ruolo di mediazione istituzionale e sacramentale, avrebbe nuovamente generato sospetti e attirato critiche. Tra queste, quelle rivolte a un gruppo di seguaci fiorentine del Biondo dal dotto camaldolese Paolo Giustiniani, l’eremita riformatore autore del Libellus ad Leonem X (1513), di lì a pochi anni pronto a denunciare come eterodosse e potenzialmente eversive anche le dottrine di Battista da Crema, il controverso maestro spirituale dei primi barnabiti che, nel pieno dello scontro confessionale, il severo Gian Pietro Carafa non avrebbe a sua volta esitato a bollare, come forse sarebbe toccato in sorte allo stesso Biondo, come «luterano» e nemico della vera Chiesa.

 

  [1] C. Dionisotti, Resoconto di una ricerca interrotta, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, 37, 1968, 3/4, pp. 259-269, poi in C. Dionisotti, Scritti di storia della letteratura italiana, a cura di T. Basile, V. Fera e S. Villari, II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 325-336.

 [2] Da questo punto di vista, il saggio di Lodone si pone su una linea di continuità con le riflessioni dell’ultimo Cantimori (ora in D. Cantimori, Machiavelli, Guicciardini, le idee religiose del Cinquecento, postfazione di A. Prosperi, Pisa, Edizioni della Normale, 2013), cui diede più ampio sviluppo il fondamentale saggio di G. Miccoli, La storia religiosa, in R. Romano - C. Vivanti (edd), Storia d’Italia, II/1: Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1974, pp. 420-1079. La ricerca su Gabriele Biondo, inoltre, ben si inserisce nel quadro del rinnovato interesse storiografico per la vita religiosa del XV secolo, di cui offrono una testimonianza i saggi raccolti nel volume  L. Biasiori - D. Conti (edd), Prima di Lutero. Nonconformismi religiosi nel Quattrocento italiano, in «Rivista storica italiana», 129, 2017, 3 (numero monografico).

 

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