Reviewer Claudio Ferlan - FBK-ISIG
CitationCome aveva dimostrato nel suo precedente The Body of the Conquistador: Food, Race and the Colonial Experience in Spanish America, 1492-1700 (Cambridge University Press, 2012), Rebecca Earle ha la capacità di dare un ampio respiro alle sue ricerche di storia dell’alimentazione, inserendo una materia solo apparentemente specialistica in dinamici quadri d’insieme.
Feeding the People prende le mosse da questa considerazione: nel XVIII secolo, con l’Illuminismo, la quotidianità dei costumi alimentari dei cittadini (o dei sudditi) divenne una questione di estremo interesse per lo Stato. Le politiche alimentari cambiarono radicalmente e iniziarono a essere caratterizzate da un interventismo statale mai visto in precedenza. Si impose un nuovo modello d’azione, attento alla salute dei cittadini e al loro vigore. Fu un punto di svolta. Prima di allora, l’attenzione dei governanti si limitava soprattutto alla lotta contro le carestie, volta soprattutto a evitare i sommovimenti sociali che spesso ne conseguivano e attuata attraverso provvedimenti come la regolamentazione dei prezzi e le leggi suntuarie. A questa limitata preoccupazione si affiancava quella, comune alla maggior parte delle religioni, del dovere morale di nutrire gli affamati. Earle analizza in profondità il concetto di «food security» e ricostruisce le tappe attraverso le quali l’atto del mangiare è divenuto parte della politica moderna e contemporanea. L’evoluzione non si è certo fermata all’Illuminismo, ma si è costituita come parte integrante di una nuova cornice neo-liberale, entro la quale le scelte e le responsabilità personali hanno modellato il divenire degli interventi statali. Il libro racconta la storia di un cibo emblematico per questa trasformazione: la patata, un alimento del tutto sconosciuto per gran parte dell’umanità fino al XVI secolo, quando a nutrirsene (fin dalla notte dei tempi) erano solo le popolazioni stanziate lungo le catene montuose che dalle Ande si estendono verso settentrione, fino alle Montagne Rocciose.
Le cose cambiano, e oggi la patata è un cibo davvero globale, al quarto posto per consumo planetario dietro grano, mais e riso. Earle ricostruisce con grande efficacia le vicende legate alla diffusione della patata prima in Europa e poi nel resto del mondo. A testimonianza del grande interesse storico-sociale dello studio deve essere citato il riconoscimento del ruolo fondamentale giocato dai contadini, femmine e maschi, nell'insegnare agli europei che quella strana radice proveniente dall’altro Mondo era davvero buona da mangiare. Una storia dal basso, insomma, raccontata anche attraverso degli inserti nei quali l’autrice recupera antiche ricette, ricavandole da fonti a stampa di vario tipo (mediche, economiche, culinarie).
Perché un alimento povero e sconosciuto ebbe ed ha così grande successo? Da non sottovalutare è quella che l’autrice definisce «invisibilità fiscale», per la quale la produzione di patate sfuggì per decenni a decime e gravami. Interessanti sono poi le pagine dedicate ai potato-enthusiasts, che a partire dal Settecento promossero il consumo di un cibo sano e nutriente, facile da coltivare, alla portata di tutti e tutte.
L’importanza della nutrizione si collega ai discorsi di politica economica del secolo successivo, quando soprattutto le zuppe di patate furono da più voci descritte come un modello alimentare in grado di aiutare la pace sociale e la tranquillità politica.
Non ci sono solo le Americhe e l’Europa, nella storia del tubero. Earle lo chiarisce fin dal principio e dedica alle Global Potatoes uno dei capitoli più accattivanti del suo ottimo libro, accompagnando il lettore in un percorso davvero globale, che vede coinvolti diplomatici, missionari e agenti coloniali.
Particolarmente interessante il paragrafo sull’India (pp. 115-121), nel quale l’autrice racconta di come la colonizzazione ottocentesca del subcontinente si basasse anche sulla convinzione della cultura inglese di essere capace di imporre una civiltà più avanzata, manifestantesi anche attraverso le innovazioni dell’agricoltura. La patata faceva parte del benevolo pacchetto di riforme agricole. Assistiamo però, all’inizio del XX secolo, a un ribaltamento del quadro, per il quale i pensatori indiani anti-coloniali insistettero sulla promozione della coltivazione della patata come modo per rafforzare e rivitalizzare la popolazione. I nazionalisti individuarono proprio nella patata l’alimento adatto a rafforzare il proprio corpo e, di conseguenza, quello dello Stato. Un semplice alimento passa così da simbolo del dominio inglese a mezzo utile a porvi fine.
Le convinzioni settecentesche e primo-ottocentesche che la forza dello Stato si fissasse nel numero dei suoi abitanti cominciarono nel corso del XIX secolo a vacillare, come testimoniato con particolare evidenza dagli studi di Thomas Robert Malthus, secondo il quale l’aumento della popolazione diventa insostenibile quando il cibo non basta. Gli irlandesi, mangiatori di patate per eccellenza, iniziarono a essere indicati come simbolo dell’arretratezza. Malthus credeva che l’aumento della popolazione irlandese in particolare avrebbe trovato il proprio limite nel momento in cui si fosse arrestato per mancanza di risorse un sistema alimentare basato quasi esclusivamente sulla patata (lo scrisse nel 1803). Fu profeta buono o cattivo, dipende dal punto di vista, alla luce della terrificante carestia che ebbe luogo negli anni 1845-1849: su otto milioni di irlandesi un milione morì, un altro emigrò. La nota crisi irlandese viene trattata da Earle con profondità di pensiero e originalità, compito non facile in relazione a una delle più studiate vicende nella storia dell’alimentazione.
Anche la scienza ci mise del proprio a screditare la patata: sempre a partire dall’Ottocento si cominciarono a calcolare le calorie, si analizzarono gli alimenti secondo nuovi canoni e si cominciò a giudicarla, tutto sommato, un cibo troppo povero per fornire adeguata sussistenza.
L’andirivieni della storia è ben testimoniato nel capitolo conclusivo (Security Potatoes), dove si racconta come durante le due Guerre mondiali del Novecento la patata tornò in auge come alimento salvifico, sia per la popolazione civile, sia per quella in armi. Nel conflitto 1939-1945 la sua importanza trascese le differenze ideologiche tra Asse e Alleati e rifletté la rimarchevole capacità della patata di servire come risorsa per la gente ordinaria, indipendentemente dalle grandi strutture governative. A Mosca come a Berlino, la patata era benvista.
Il libro si chiude con uno sguardo sull’attualità, riportando i tratti fondamentali del dibattito internazionale sulla sicurezza alimentare – a partire dalla fondazione della FAO (1945) – su vari programmi nazionali dedicati alla coltivazione delle patate, sulla loro rilevanza come sostentamento quotidiano per milioni di persone.
Siamo tornati agli entusiasmi settecenteschi? Forse sì, alla luce del nuovo status del tubero, considerato oggi come possibile arma nel conflitto contro l’insicurezza alimentare e della decisione delle Nazioni Unite di stabilire il 2008 come Anno Internazionale della Patata (The International Year of the Potato – IYP).