Reviewer Marco Mondini - Università di Padova - Isig
CitationGli anni del Centenario hanno coinciso quasi in tutta Europa con un marcato arricchimento delle ricerche sul primo conflitto mondiale sotto molteplici aspetti, ma soprattutto hanno comportato un ripensamento deciso per quanto riguarda l’approccio più generale agli studi sulla guerra. In particolare, il 1914-1918, con le sue ragioni e le sue conseguenze, ha cessato definitivamente di essere esaminato da un punto di vista nazionale (o nazionalistico) per diventare l’oggetto di uno sguardo globale e transnazionale: come auspicava Jay Winter nelle pagine programmatiche della Cambridge History of the First World War, il «momento transnazionale» è divenuto rapidamente il riferimento metodologico dominante.
Tuttavia, non si dirà nulla di particolarmente originale ricordando che la storiografia di lingua italiana è, tra i casi nazionali delle principali potenze coinvolte nel conflitto, quella che ha affrontato questo tornante con più contraddizioni e che, generalmente, ne ha approfittato con più limiti. All’alba del 2014, l’immagine più iconica dell’obsolescenza della produzione scientifica italiana sulla guerra era data dall’egemonia accademica della cosiddetta «scuola del dissenso», un paradigma storiografico risalente agli anni Settanta. Arroccato su categorie ermeneutiche ideologiche e sorpassate, viziato dalla sopravvivenza di una storia militare intesa ancora come histoire-batailles, all’inizio del Centenario il campo italiano degli studi di guerra era decisamente marginalizzato rispetto al dibattito internazionale[1]. A questo provincialismo metodologico si sottraevano pochi studiosi: Antonio Gibelli era una voce brillante e isolata nella sua capacità di dialogare, in modo critico e costruttivo, con gli stimoli ermeneutici provenienti da oltre confine: non casualmente, a sua cura fu l’edizione italiana di Retrouver la guerre di S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, opera fondamentale ed emblematica della variegata galassia degli studi sulla cultura di guerra, accompagnata da un’introduzione sempre firmata da Gibelli, al tempo stesso un brillante saggio di metodo storico e il miglior compendio storiografico sulla produzione di lingua italiana dedicata al 1914-1918 fino agli inizi del XXI secolo.
In gran parte, questa prospettiva obsoleta ha caratterizzato anche gli studi (peraltro non numerosi) dedicati alla storia delle relazioni internazionali e della diplomazia italiane a cavallo del conflitto. In un recente volume collettaneo (How to Become a Great Power: Italy in the New International Order 1917-1922, a c. di A. Varsori e B. Zaccaria) è stato affermato che «il ruolo politico dell’Italia e la sua iniziativa diplomatica, sia durante il conflitto che nella costruzione del cosiddetto sistema di Versailles» rappresentano ancora una casella vuota nella riflessione internazionale sul 1914-1918 e sulle sue conseguenze, fondamentalmente per colpa delle «nuove tendenze straniere» della storia sociale e culturale del conflitto. È vero, e contemporaneamente è falso. Che il caso italiano sia stato, quantomeno fino al 2014, un convitato di pietra della storiografia nazionale è un dato di fatto. Ma di certo il problema non era rappresentato da una sorta di moda della nuova storia di guerra, che ha semplicemente messo a disposizione dello storico strumenti più efficaci per analizzare le ragioni e le dinamiche e soprattutto le eredità della prima guerra totale, la cui prima e più fondamentale caratteristica è di aver radicalmente cambiato, allo stesso tempo, le regole del conflitto e la natura dello Stato. Pensare di poter comprendere la transizione dalla guerra alla pace e il tentativo di ricostruzione di un nuovo ordine mondiale limitandosi ai consueti strumenti della storia diplomatica, senza immergersi nella genesi di quello che Richard Overy ha definito lo «stato guerriero» del XX secolo, significa incorrere inevitabilmente in uno scacco[2]. Per questo si deve accogliere con entusiasmo la pubblicazione recente del volume di Stefano Marcuzzi Britain and Italy in the Era of the Great War. Appartenente a una nuova generazione di studiosi sensibili a un approccio transnazionale e particolarmente attenti agli stimoli delle ricerche non italiane, Marcuzzi offre con il suo saggio un notevole esempio di analisi multidisciplinare, dimostrando la maturità di un ricercatore formatosi tra Oxford e Bruxelles, esposto alla lezione di Hew Strachan e capace di maneggiare allo stesso tempo gli strumenti della contemporaneistica classica e dell’analisi strategica.
Il problema posto dall’autore in sede di introduzione è triplice. Quale fu il ruolo dell’Italia, late comer nel decidere l’entrata in guerra ma anche ultima tra le grandi potenze in termini di peso militare ed economico, nel gioco delle coalizioni che si scontrarono tra 1914 e 1918? Come venne perseguita la più grande (e ambiziosa) strategia italiana di costruzione di una sfera imperiale, che rappresentava in ultima istanza il vero obiettivo politico della dirigenza di Roma nell’optare per l’intervento nel 1915 al di là delle rivendicazioni ideologiche di completamento della missione risorgimentale (p. 3)? E, non da ultimo, quale fu il ruolo che la Gran Bretagna, potenza imperiale ma anche tradizionale garante della posizione internazionale italiana, giocò nel sostenere, fomentare, ma anche in alcuni casi limitare, le ambizioni della giovane partner? Per rispondere a questi interrogativi, l’autore rilegge la storia della politica italiana (e della special relationship italo-britannica) a partire dai mesi della guerra italo-libica (parte I), attraversando l’evoluzione del tradizionale rapporto di amicizia nella base per un’alleanza politico-militare (che prevedeva, va da sé, il capovolgimento dei controversi indirizzi triplicisti stabiliti nel 1882) per giungere all’integrazione del Regno d'Italia nell’Intesa, sulla base di promesse imperiali, di compensazioni e di una colossale dottrina di coalizione (parte II) che, come il Capo di stato maggiore italiano, Luigi Cadorna, scoprirà a proprie spese, rimarrà lettera morta fino al terzo anno della guerra. Il 1917 cambierà la natura del conflitto, anche sotto questo aspetto (parte III). Il tornante decisivo è proprio la disfatta italiana di Caporetto, un emergenziale punto di svolta che porta a maturazione il cammino di consolidamento di una struttura di coalizione reale dopo anni di tentennamenti: un comando unico interalleato (contestato, ma relativamente efficace), una strategia coordinata e uno sforzo condiviso anche dal punto di vista delle risorse economiche investite nello sforzo bellico, rappresentano le conseguenze più evidenti della nuova dimensione del conflitto – un’anticipazione, per quanto artigianale, delle dinamiche di coalizione di vent’anni più tardi.
Incentrate sul fallimento della transizione dalla guerra alla pace, tra Versailles e Fiume, le ultime pagine del volume offrono uno squarcio stimolante sulle eredità mal gestite della mobilitazione totale, sullo scacco del processo di uscita dal conflitto e sui molti miti destituiti di fondamento (quello della «vittoria mutilata» in primis) che lo animarono, fornendo pretesti per la ri-mobilitazione in nome della «guerra che continua» della destra nazionalista e poi del movimento fascista. Un esempio notevole di come gli storici delle nuove generazioni siano in grado di rileggere le scansioni fondamentali del passato nazionale, sottraendole alle discussioni stanche del dibattito italo-italiano e rilanciandole invece come parte di una complessiva e stimolante rilettura della storia europea.
[1] Per due buoni esempi di come il dibattito sulla storia culturale di guerra non sia stato recepito in Italia, cfr. P. Del Negro - E. Francia (edd), Guerre e culture di guerra nella storia d’Italia, Milano, Unicopli, 2006 e G. Procacci, Alcune recenti pubblicazioni in Francia sulla “cultura di guerra” e sulla percezione della morte nel primo conflitto mondiale, in N. Labanca - G. Rochat (edd), Il soldato, la guerra e il rischio di morire, Milano, Unicopli, 2011, pp. 107-124.
[2] R. Overy, L’évenement de l’Etat guerrier, in B. Cabanes (ed), Une Histoire de la guerre. Du XIXe siècle à nos jours, Paris, Seuil, 2018, pp. 130-142.