V, 2022/1

Jean-Baptiste Fressoz, Fabien Locher

Les Révoltes du ciel

Review by: Alex Cittadella

Authors: Jean-Baptiste Fressoz, Fabien Locher
Title: Les Révoltes du ciel. Une histoire du changement climatique XVe-XXe siècle
Place: Paris
Publisher: Seuil
Year: 2020
ISBN: 9782021058147
URL: link to the title

Reviewer Alex Cittadella - Università degli Studi di Udine

Citation
A. Cittadella, review of Jean-Baptiste Fressoz, Fabien Locher, Les Révoltes du ciel. Une histoire du changement climatique XVe-XXe siècle, Paris, Seuil, 2020, in: ARO, V, 2022, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/1/les-revoltes-du-ciel-alex-cittadella/

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Affermare che i cambiamenti climatici siano la questione più stringente e drammatica per l’uomo contemporaneo può sembrare fuorviante in tempo di pandemia. Eppure, tra tutte le sfide che l’uomo si troverà ad affrontare nei prossimi decenni, quella climatica è indubbiamente la più complessa e urgente. Lo è oggigiorno, ma lo è stata anche nei secoli passati. A questo fa riferimento il quesito di fondo del volume, ricco di riferimenti documentari e di interessanti chiavi interpretative. Quando la questione climatica e gli effetti dei cambiamenti climatici sull’ambiente e di conseguenza sull’uomo sono entrati a pieno titolo nel dibattito politico, economico, sociale? Questo assunto viene declinato percorrendo i secoli che vanno dalla colonizzazione cinquecentesca all’età contemporanea, durante i quali il dibattito ha attraversato le società intrecciandosi con il convincimento che sia l’agire umano a determinare, perlomeno in parte, i cambiamenti climatici, così come viceversa le sue fluttuazioni influenzano l’uomo.

Questo lo si noterebbe già a partire dalle conquiste attuate nel Nuovo Mondo. Gli scritti di esploratori come Cristoforo Colombo e di uomini di governo quali Fernandez de Oviedo non solo si concentrano sulle condizioni climatiche incontrate nelle nuove terre, ma ipotizzano anche la presenza di un clima favorevole che, grazie all’intervento dell’uomo europeo civilizzato, sarebbe migliorato ulteriormente (Cap. 1). In quest’ottica, è soprattutto Oviedo ad affermare nel 1548 che la dimensione politica del miglioramento climatico in America, sia da ricollegare all’affermarsi della dominazione spagnola. Il riferimento è in particolare al Centro America, ma la stessa lettura colonialista, tra Cinque e Seicento, si rinviene anche negli insediamenti francesi e inglesi del Nord America, tanto che il cambiamento si pone progressivamente al centro delle riflessioni dapprima filosofiche e scientifiche e, successivamente, politiche (Cap. 2).

Riflessioni e dubbi che alimentano, nella seconda metà del Seicento, i dibattiti delle principali accademie e società scientifiche europee, come testimoniano gli esempi di Robert Boyle, che in seno alla Royal Society si interroga sul cambiamento climatico («è esso il prodotto di forze non umane, emanate dagli astri o dall’interiorità della Terra? Oppure è la conseguenza dell’azione umana?», p. 36), e di Duhamel de Monceau che, nelle sale dell’Académie des sciences, sostiene tenacemente la tesi colonialista di un impatto favorevole dell’azione umana sul clima del Nuovo Mondo.

Al di là delle singole posizioni, ciò che conta sottolineare, e il volume lo fa con dovizia di particolari, è la constatazione che le élites intellettuali francesi e inglesi del Seicento e del Settecento rilevano l’oggettività del cambiamento climatico nelle Americhe, la sua connessione diretta con il processo di colonizzazione e la centralità di questo dibattito su scala globale (Cap. 3). Ne deriva che il pensiero e le riflessioni interpretative sul cambiamento climatico di origine antropica sul lungo periodo, hanno favorito l’espansione imperiale europea. Ma ancora di più, per usare le parole del naturalista Buffon, che l’umanità è una forza in grado di modellare i climi; e tale capacità di agire è proporzionale al grado di civilizzazione («i popoli possono essere gerarchizzati, suggerisce, in funzione del loro agire climatico, volontario o involontario, positivo o deleterio», p. 45). Si tratta della tesi fondamentale di un legame diretto fra natura e civilizzazione, declinata in modo duplice: da un lato celebrando la potenza umana (soprattutto europea) capace di plasmare la natura a sua immagine, dall’altro creando una vera e propria gerarchizzazione delle società. Testo centrale di questa riflessione è Les Époques de la nature di Buffon, nel quale la storia del globo è suddivisa in sette epoche, di cui l’ultima è quella dominata dall’umanità come forza globale capace di creare una nuova natura. Buffon mette in campo anche un’altra delle tesi fondamentali del Settecento, in grado di influenzare in profondità il pensiero climatico successivo: quella di un raffreddamento generale del pianeta dovuto alla progressiva dispersione di calore dal centro della Terra. Questo processo, avvenuto sul lunghissimo periodo, avrebbe determinato la scomparsa e la comparsa delle specie sul pianeta (p. 54).

Il Settecento segna però anche l’affermarsi dello studio scientifico del clima, in connessione con le ricerche meteorologiche di natura strumentale volte a individuare le leggi della natura (Cap. 4). Uno studio che progressivamente si trasferisce dalla scala locale e prevalentemente nazionale delle reti meteorologiche alla dimensione continentale e planetaria. Gli anni Settanta del secolo XVIII sarebbero anche il momento in cui dovrebbe essere collocata la vera e propria nascita della climatologia storica, nella sua accezione di studio delle serie di lunga durata al fine di individuare una tendenza delle fluttuazioni o, al contrario, la fissità del clima (p. 55). Il tutto tenendo conto che, al centro delle riflessioni, risiede l’idea di una stretta correlazione fra clima e attività umane; un clima inteso nella sua accezione moderna, vale a dire non più come fascia geografica tra due latitudini, bensì come risultato delle medie strumentali caratterizzanti un determinato luogo sul medio e lungo periodo. Negli stessi anni, figure come Robert Hooke, Giuseppe Toaldo, Louis Cotte e Théodore Mann pongono le basi per lo sviluppo della climatologia storica, all’interno della quale il cambiamento climatico diventa una questione essenziale. E nonostante questo venga primieramente associato alle dinamiche astrologiche, tuttavia il salto concettuale rispetto all’epoca precedente è evidente e irreversibile e condurrà allo sviluppo di ricerche fondamentali, a partire dalle numerose osservazioni compiute sulle relazioni tra botanica e meteorologia (p. 61), fino alle innovative teorie della nascente glaciologia (p. 63).

Un percorso articolato, lungo i capitoli del volume e lungo i secoli, conduce alla parte centrale del saggio: l’allarme sui cambiamenti climatici si politicizza e si drammatizza in un luogo e in un’epoca precisi, la Francia della Rivoluzione del 1789. In nessun altro contesto nazionale, affermano gli autori, si rinviene la stessa intensità e ampiezza di preoccupazioni e dibattiti sulla possibile degradazione del clima a causa dell’agire umano. Riflessioni che da un lato rimandano al corretto utilizzo delle risorse naturali, dall’altro alla nascita del capitalismo liberale. Ne è un esempio il complesso e articolato dibattito politico, economico, scientifico e sociale sviluppatosi attorno all’utilizzo delle foreste e alla loro privatizzazione. Non a caso, perciò, i due capitoli centrali del volume (Capp. 6 e 7) si aprono con un’affermazione fortemente significativa: «La Rivoluzione francese fu anche una rivoluzione climatica» (p. 79). Per quale motivo? Perché sulla scia delle forti penurie alimentari intercorse soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Settecento, la politica della Rivoluzione si interroga espressamente su come rigenerare un suolo e una nazione fortemente degradati dalla feudalità. Il tema centrale è quale sia il futuro delle ingenti risorse forestali nazionali (così essenziali per il loro ruolo in chiave climatica), il cui degrado è strettamente collegato al disboscamento incontrollato dei decenni precedenti causato dal cieco dispotismo d’Antico regime. Il 2 novembre 1789 l’Assemblea costituente vota la nazionalizzazione dei beni del clero, tra i quali rientra un’immensa superficie boschiva che supera il milione di ettari. E con i boschi e la loro gestione, non strettamente connessa ai boschi pubblici ma anche a quelli privati, entra a pieno diritto nelle discussioni assembleari il discorso sul cambiamento climatico, che rimarrà centrale anche durante la fase del Direttorio e del dominio napoleonico. In questi anni, l’allerta climatica esce dai circoli dei naturalisti per diventare un elemento strutturale della politica francese, connesso con i dibattiti sulla proprietà, sulla natura e sul ruolo giocato dallo Stato nella loro gestione. In poche parole, il clima diviene un affare di Stato, tanto da condurre a un vero e proprio patriottismo climatico; questo avviene non solo in Francia, ma anche in altre nazioni, come ad esempio negli Stati Uniti d’America.

In ambito francese, tuttavia, la nazionalizzazione della questione climatica si estremizza ulteriormente durante la Restaurazione, anche in seguito alla tremenda congiuntura seguita all’esplosione del vulcano Tambora (10 aprile 1815) sull’isola di Sumbawa (Cap. 8). Al centro dello scontro politico emerge la spinosa questione dell’alienazione dei beni pubblici, proposta al fine di reperire risorse per saldare i debiti di guerra (Cap. 9). Un’alienazione che trova fortissime opposizioni, basate in modo significativo anche sulla necessità di preservare i beni pubblici, e soprattutto le foreste, nell’intento di migliorare le condizioni climatiche della nazione. In questo frangente, vi è chi, come Chateaubriand, rigetta la privatizzazione tacciandola di essere, oltre che un’operazione di corto respiro, un vero e proprio attentato nei confronti delle future generazioni. A leggere il dibattito che emerge dalle carte pare quasi di essere all’interno della diatriba ecologista attuale, con da un lato gli assidui difensori della sacralità del territorio francese volti a sottolineare la necessità di preservare le risorse naturali, dall’altro i tenaci sostenitori di una Francia intesa come potenza finanziaria e commerciale che, pur tenendo in considerazione il suo territorio, deve mettere al primo posto esigenze più stringenti dal punto di vista economico e geopolitico.

È in questo quadro che si sviluppano due vicende di estremo interesse per il dibattito sulla nascita e lo sviluppo del pensiero sul cambiamento climatico. La prima riguarda la figura e l’opera di François-Antoine Rauch (Cap. 10), la seconda ricostruisce il primo esempio di inchiesta nazionale sul cambiamento climatico (Cap. 11). Rauch diviene già a partire dalla fine del Settecento uno dei più accaniti sostenitori della restaurazione degli equilibri naturali della Francia. Il suo discorso ecologista ad ampio raggio è contenuto nell’Harmonie hydrovégétale et météorologique (1802) e, tra il 1821 e il 1827, in un periodico intitolato «Annales européennes», che avrà fortuna e diffusione internazionali. Nella pratica, un trentennio di lotta in favore di una rigenerazione forestale e climatica della Francia, vista all’interno di un quadro interpretativo di ampiezza planetaria, tanto da legare strettamente gli eventi meteorologici estremi, avvenuti in Francia, all’alterazione del ciclo globale dell’acqua dovuta non di certo agli astri, bensì all’azione dell’uomo («è la mano dell’uomo che pesa sul globo», p. 132).

Aspetto quest’ultimo affrontato dalla prima inchiesta nazionale sul cambiamento climatico, lanciata dalla Circolare n. 18 (Cap. 10). Emanata alla fine di aprile del 1821 su spinta diretta del neocostituito Consiglio d’agricoltura, praticamente in contemporanea con l’avvio degli Annali di Rauch, la Circolare è rivolta a tutti i prefetti e mira a raccogliere informazioni oggettive sul presunto raffreddamento dell’atmosfera avvenuto nei decenni precedenti, sull’alterazione delle stagioni e sul susseguirsi di eventi meteorologici estremi, cercando di scoprire le cause di tali presunti cambiamenti. Lo sguardo viene posto soprattutto sull’evoluzione forestale e climatica del territorio francese nel trentennio precedente, vale a dire (non a caso) a partire grossomodo dal 1789. È la prima volta che uno stato europeo avvia in modo ufficiale un’inchiesta nazionale sul cambiamento climatico e su una possibile responsabilità da parte dell’uomo. Nonostante i documenti raccolti dai prefetti riportino resoconti tutt’altro che univoci, incapaci di fornire un quadro di fondo chiaro, tanto da rendere l’inchiesta pressoché inutile per gli obiettivi che si era preposta, tuttavia essa ha dato vita a un archivio documentario preziosissimo per indagare in profondità il sorgere del dibattito sui cambiamenti climatici. Un dibattito globale che pone in primo piano la stretta correlazione fra clima e foreste, indagata e propugnata negli anni successivi da molteplici punti di vista, fra i quali spicca quello non proprio ecologista di François Arago (Cap. 12).

Ma questo dibattito, emerso a pieno titolo durante l’età rivoluzionaria e proseguito intensamente fin oltre la metà dell’Ottocento, con l’affermarsi della modernità tecnica e del capitalismo, cede il passo ad una progressiva desensibilizzazione delle società europee nei confronti di questi temi (Cap. 13). Ciò avviene nonostante gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo siano segnati da una successione di cruente inondazioni, la cui causa viene rinvenuta proprio nell’intervento indiscriminato dell’uomo, specialmente in ambito montano, tanto da spingere lo Stato francese a rafforzare il controllo diretto e ad agire per un ripristino delle aree boschive montane. Tuttavia questo intervento, più che a livello climatico, si compie in favore del ripristino dell’equilibrio pedologico delle aree montane, mettendo in evidenza come ormai, nell’ultimo quarto di secolo, l’attenzione si fosse spostata dall’analisi del cielo a quella del suolo.

Il progresso tecnico-scientifico, industriale, economico, oltre che sociale e politico spinge con sempre maggiore intensità verso l’idea che il clima e l’ambiente in genere possano essere controllati e gestiti dall’uomo e dalle sue capacità tecniche, senza grossi scossoni e senza rilevanti conseguenze. Anche perché, diversamente dall’epoca preindustriale, la vulnerabilità delle società di fronte alle crisi climatiche e alle carestie si è ridotta in modo significativo, facendo diminuire drasticamente l’ansietà climatica ed estromettendo il cambiamento climatico dai temi più stringenti della politica.

In quest’ottica, il sorgere e l’affermarsi di una coscienza ecologista a partire dall’emergere dei dibattiti sui cambiamenti climatici, si riversa volutamente nel suo esatto opposto: cioè lo studio di come questo precoce interessamento per le tematiche ambientali e per il rapporto clima-uomo si trasformi in poco più di un secolo (dal 1789 alla fine dell’Ottocento) nella «fabbricazione industriale e scientifica di una forma di apatia verso l’agire climatico» (p. 16).

Paradossalmente questo avviene proprio negli stessi decenni in cui praticamente in tutte le principali nazioni europee si vengono affermando delle trasformazioni profonde nelle scienze climatiche, che porteranno nell’arco di un trentennio allo sviluppo di tutti i principali settori di studio e delle istituzioni nazionali rivolti alla meteorologia dinamica, alla ricerca sul clima e ai cambiamenti climatici. A partire dall’affermarsi della climatologia storica, che tanta parte avrà nel corso del XX secolo nella definizione del ruolo giocato dall’uomo riguardo alle alterazioni del clima, anticipata già a fine secolo nelle opere del tedesco Eduard Brückner, dell’austriaco Julius Ferdinand von Hann e del francese Jean-Baptiste Joseph Fourier. Si tratta di un passo significativo verso una lettura globale e diversificata della relazione tra uomo, clima e ambiente, e delle sue declinazioni nelle varie aree del pianeta, indagate nel volume soprattutto in un’ottica centrata ovviamente sulla Francia e sui suoi domini coloniali, ma estesa geograficamente anche alle esperienze coloniali britanniche e agli Stati Uniti e, cosa interessante, protesa a livello cronologico fino nel cuore del XX secolo (Cap. 15).

La chiusura del volume (Cap. 16) conduce il discorso (seppur solo a volo d’uccello) praticamente fino ai giorni nostri, affrontando l’avvio dell’era del carbone e delineando lo sviluppo della discussione attuale sui cambiamenti climatici, alimentata dalla scoperta dell’effetto serra e della correlazione esistente fra l’aumento delle temperature e l’emissione di CO2 in atmosfera. Un discorso dolorosamente significativo, che non si dilunga sulle stringenti questioni attuali connesse con la drammatica crisi ambientale e climatica, ma che ricorda in controluce come l’espulsione della questione climatica dai dibattiti politici e pubblici avvenuta a partire dalla fine dell’Ottocento sia stata, con il senno di poi, oltre che un complesso fatto storico, anche un terribile errore.

 

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