IV, 2021/3

Marco Lanzini

L'utile oggetto di ammassare notizie

Review by: Rossella Ioppi

Authors: Marco Lanzini
Title: L'utile oggetto di ammassare notizie. Archivi e archivisti a Milano tra Settecento e Ottocento
Place: Napoli
Publisher: COSME B.C. - Ministero per i beni le attività culturali
Year: 2019
ISBN: 9788894464405
URL: link to the title

Reviewer Rossella Ioppi - FBK-ISIG

Citation
R. Ioppi, review of Marco Lanzini, L'utile oggetto di ammassare notizie. Archivi e archivisti a Milano tra Settecento e Ottocento, Napoli, COSME B.C. - Ministero per i beni le attività culturali, 2019, in: ARO, IV, 2021, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/3/lutile-oggetto-di-ammassare-notizie-rossella-ioppi/

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Negli ultimi decenni un rinnovato interesse per la storia degli archivi, intesi sia nell’accezione di fondi documentari sia in quella di istituti e luoghi di conservazione, ha coinvolto in Italia e in ambito internazionale un numero crescente di storici e archivisti. Una storia degli archivi che non ha come unico obiettivo quello di ricostruire la storia delle carte fine a se stessa, ma semmai – come sottolinea Stefano Vitali nella prefazione che accompagna il volume – «di cogliere nell’archivio le tracce dei molteplici fattori che, nel corso del tempo, contribuiscono a plasmarlo e a trasformarlo, a partire da quelli di carattere materiale e di tecnica archivistica … per giungere a quelli di carattere politico-istituzionale, ma anche culturale e latamente sociale» (p. XXI).

Il volume di Marco Lanzini si inserisce appieno in tale contesto di ricerca. Nei sei capitoli che compongono l’opera, l’autore ripercorre, sulla scorta di una ricca documentazione archivistica in gran parte inedita e della pubblicistica dell’epoca, le vicende degli archivi milanesi prodotti dagli uffici governativi e dalle magistrature locali tra Settecento e Ottocento. Mediante un assiduo confronto tra la storia degli archivi «nella loro duplice accezione di fondi e di istituti» (p. XL) e quella degli archivisti, coinvolti nelle trasformazioni che investirono la loro professionalità tra antico regime e pieno Ottocento, Lanzini individua le fasi cruciali che caratterizzano l’organizzazione e l’assetto degli archivi lombardi nei periodi del riformismo asburgico, della dominazione napoleonica e della successiva Restaurazione, fornendo una chiave di lettura unitaria delle vicende archivistiche indagate.

Nel primo capitolo, intitolato Archivi e riforme, l’autore – prendendo le mosse dalla vicenda del lungo e contrastato riordino che interessò per quasi tutta la prima metà del Settecento l’Archivio segreto delle scritture prodotte e ricevute dalle cancellerie ducali – evidenzia come gli archivi milanesi si trasformarono nel corso del Settecento «in terreno di scontro tra i sostenitori del riformismo asburgico … e i difensori dell’ordine costituito» (pp. 1-2). Se per le autorità asburgiche gli archivi razionalmente ordinati e gestiti dovevano rappresentare efficaci strumenti a sostegno dell’azione riformatrice e dell’amministrazione dello Stato, nonché adeguati mezzi di controllo nei confronti dell’operato dei ceti dirigenti locali, il patriziato milanese, per contro, proprio nel mantenimento del disordine di quelle carte vedeva garantiti i propri privilegi e posizioni di potere. Le cautele in un primo momento adottate dal governo centrale circa la tenuta delle scritture prodotte dalle istituzioni lombarde furono comunque abbandonate nel corso della seconda metà del Settecento. Lanzini ripercorre con accuratezza, contestualizzandoli, gli interventi di riordino dei fondi documentari di antica o recente formazione (Archivio del Senato, Archivio del Censo, Archivio feudale), affidati dalle autorità centrali a funzionari di elevata formazione, comprovata esperienza e fedeltà (Ilario Corte, Gaetano Pescarenico, Giuseppe Giacinto Redaelli), operanti in diretto contatto con gli ambienti della corte teresiana e giuseppina e con i ministri plenipotenziari, oltre che sulla base delle precise direttive e prescrizioni, anche di carattere metodologico, provenienti direttamente dalla Vienna di Kaunitz.

Le rapide trasformazioni istituzionali intervenute nel corso degli anni Settanta, determinate dalla forte spinta riformatrice di Giuseppe II, ebbero ripercussioni anche sull’assetto degli archivi milanesi. Nel secondo capitolo Lanzini ripercorre l’intricata fase progettuale e attuativa di concentrazione dei fondi documentari milanesi in un unico grande Archivio di deposito, la cui sede nel 1775 fu individuata nel complesso di San Fedele, ex Collegio dei Gesuiti. Lì nel corso degli anni Ottanta confluì il materiale documentario governativo conservato nel castello di porta Giovia e quello proveniente dall’Archivio camerale-fiscale, affidati in un primo tempo rispettivamente alle cure dei direttori Ilario Corte e Bartolomeo Sambrunico, che continuarono a lavorare in autonomia «perseverando nell’adozione di metodi di ordinamento distinti» (p. 98). Tale organizzazione fu rimessa in discussione nel 1786, quando i due rami dell’Archivio di San Fedele furono unificati nell’Archivio di deposito governativo di Milano, riorganizzato secondo schemi generali di classificazione per materia già sperimentati da Ilario Corte e dal suo collaboratore Luca Peroni, ma applicati nel nuovo contesto «a un superfondo costituito attraverso la fusione di archivi di diversa provenienza» (p. 124).

Come l’autore pone bene in evidenza, il graduale affermarsi a partire dal tardo Settecento della tendenza a distinguere tra «uffici d’ordine» (protocollo, spedizione, registratura) e depositi archivistici, nonché il progressivo «declassamento» degli archivi da arsenal de l’autorité a meri strumenti amministrativi e probatori e il graduale disinteresse delle autorità nei confronti della documentazione più antica incisero sulle strategie di gestione del personale d’archivio, indagato da Lanzini attraverso un accurato studio prosopografico. Uno dei pregi del libro consiste proprio nella ricostruzione delle biografie e delle politiche riservate al personale: «un contingente variegato, per estrazione sociale, formazione e carriera pregressa, del quale la storiografia di settore si è occupata solo marginalmente» (p. 104), che cominciò ad essere scelto principalmente sulla base del merito e delle capacità tecniche acquisite, anziché sull’anzianità di servizio o sull’appartenenza a un determinato ceto.

Alle contraddizioni affioranti in età napoleonica intorno al patrimonio archivistico Lanzini dedica l’intero quarto capitolo. Lo scarso interesse, o meglio l’ambiguità manifestata dalle autorità di governo negli anni della Repubblica e poi del Regno d’Italia circa il destino e la gestione dell’eredità documentaria del passato – e la tendenza, per contro, a favorire in maggior misura le esigenze pratiche dell’amministrazione attiva –, non impedirono al prefetto generale degli archivi e biblioteche Luigi Bossi e all’archivista nazionale Michele Daverio, con l’appoggio del vicepresidente della Repubblica italiana Francesco Melzi d’Eril, di giungere nel 1807 – dopo un lungo percorso ricostruito analiticamente dall’autore – alla istituzione in San Fedele di un Archivio diplomatico, costituito con materiale pergamenaceo proveniente dagli archivi degli ordini religiosi soppressi, nell’intento di favorire il progresso degli studi eruditi e di storia patria.

Negli anni della Restaurazione «l’Archivio diplomatico si trasformò in un «istituto letterario» nettamente distinto dall’Archivio di San Fedele, tornato a essere considerato «nella sua vera qualità di riservato e segreto» (p. 178), alla cui direzione furono richiamati Sambrunico e Peroni. Nel quinto capitolo ampio spazio è dedicato all’analisi del contesto storico in cui si inserisce l’attività professionale dispiegata dallo stesso Peroni e, in particolare, del suo progetto di concentrazione di tutti gli archivi governativi milanesi in un unico grande Archivio, organizzato sulla base di un vero e proprio «metodo», elaborato negli anni dall’archivista «attraverso un continuo confronto tra riflessione teorica e sperimentazione quotidiana sulle carte» (p. 225). Il libro si conclude con un interessante capitolo riservato al periodo della direzione generale degli archivi di Giuseppe Viglezzi (1832-1851), figura sinora poco indagata dalla storiografia archivistica. Con lui cessò definitivamente «l’età degli «archivi segreti» e cominciò quella dei «laboratori per la storia» (p. 341).

In conclusione, il libro di Lanzini offre un contributo fondamentale alla comprensione della complessità e ricchezza della storia degli archivi e dell’archivistica milanese. Indagando «nelle pieghe delle lunghe e intricate pratiche dell’epoca» (p. XLII) l’autore riporta alla luce uno scenario variegato, affollato di luoghi, idee, dibattiti, progetti, metodi, persone.

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