Reviewer Andrea Martini - Università di Padova
CitationIl fascismo ha rappresentato un fenomeno in apparenza marginale nella storia della Gran Bretagna eppure è diventato oggetto di moltissime ricerche; come giustificare così tanto «inchiostro»? È una domanda che si pose già nel 1998 lo storico Richard Thurlow nel suo volume Fascism in Britain (London, I.B. Tauris, p. X). Anche Joe Mulhall – ricercatore presso l’organizzazione non governativa HOPE not hate che lavora su singole comunità per evitare il diffondersi in esse di sentimenti d’odio che potrebbero favorire l’affermarsi di movimenti e gruppi politici riconducibili all’estrema destra – non può sfuggire a un simile interrogativo dato che indaga la storia del fascismo britannico a partire dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Le motivazioni che fornisce, tuttavia, paiono convincenti; una su tutte: se è vero che il fascismo in Gran Bretagna non è mai riuscito a imporsi, non significa che non abbia «inquinato» la democrazia, che non abbia, in altri termini, potuto condizionare nel corso di tutto il Novecento le dinamiche del dibattito politico, i suoi contenuti e il suo linguaggio. Ecco spiegata la ragione per cui Mulhall fa coincidere l’inizio della sua analisi con quello della Seconda guerra mondiale: il conflitto in sé e le misure prese dal governo britannico tra il 1939 e il 1940 contro partiti e movimenti vicini a Hitler e alla Germania nazista avrebbero potuto sancire la fine del fascismo in Gran Bretagna, ma la storia prese un’altra piega. Nonostante l’internamento patito da alcune personalità di spicco del fascismo britannico, Oswald Mosley su tutte, e il collasso dei regimi di Hitler e Mussolini, il fascismo riuscì a sopravvivere anche nel Regno Unito e a reinserirsi nell’agone pubblico al punto da apparire ancor oggi un’ideologia «un-killable», immortale (p. 195). La storia di questa sopravvivenza merita perciò di essere raccontata anche alla luce del fatto che si tratta della stagione del fascismo meno studiata.
Il volume è strutturato in sette capitoli. I primi due descrivono brevemente le sorti dei fascisti britannici ai tempi del conflitto mondiale e il loro itinerario biografico nell’immediato dopoguerra, mentre nei successivi tre l’autore affronta alcuni nodi ideologici sui quali il fascismo britannico – che l’autore declina al singolare pur riconoscendo le sue molteplici anime e dando a tutte loro ampio spazio – fu chiamato a confrontarsi: il genocidio degli ebrei (negato o quanto meno depotenziato e giustificato da buona parte dei fascisti britannici), il ruolo dell’Europa (e del fascismo) nel rinnovato contesto geopolitico, i destini della Nazione britannica e le sorti dei suoi possedimenti coloniali e, infine, il tema dell’immigrazione, particolarmente centrale nel dibattito pubblico di quegli anni. Tra la fine del 1947 e il 1948, infatti, approdano sulle coste del Regno Unito centinaia di famiglie provenienti dai Caraibi e dalle zone circostanti, le cosiddette Indie occidentali. Mulhall ricostruisce attentamente questo fenomeno migratorio e soprattutto il dibattito politico che lo accompagnò sino al 1958, terminus ad quem dell’intero volume, anno in cui nel quartiere londinese di Notting Hill una serie di aggressioni travolsero le famiglie di recente immigrazione che vi abitavano. L’ultimo capitolo, invece, insiste sulla dimensione transnazionale del fascismo, facendo in particolare luce sui contatti tra i fascisti britannici e quelli statunitensi.
Una simile struttura del volume ne rivela tutta la densità e ricchezza di spunti, anche se desta qualche perplessità la decisione di alternare capitoli in cui si privilegia la ricostruzione del contesto storico e delle vicende che riguardarono in prima persona i fascisti (Capitoli 1, 2 e 6) ad altri nei quali si analizzano le prese di posizione dei vari Oswald Mosley, Arnold Leese e Arthur Kenneth Chesterton (solo per fare qualche esempio) su specifici nuclei tematici (Capitoli 3, 4, 5 e 7).
Ma veniamo ai molti spunti offerti da questo libro che intercettano nodi storiografici più ampi come l’evoluzione del fascismo all’indomani del 1945 e l’affermazione di una cultura democratica nell’Europa post Seconda guerra mondiale. Innanzitutto Mulhall non rinuncia a confrontarsi con i tanti lavori dedicati a definire cosa sia il fascismo e critica l’utilizzo, a suo dire poco meditato, di prefissi quali «neo» e «post» ogni qualvolta si analizzano dei movimenti e delle personalità riconducibili a tale ideologia attivi dopo il 1945. In particolare, l’espressione «neo-fascismo» suggerirebbe un cambiamento radicale che, almeno per il caso del fascismo britannico, Mulhall fatica a riconoscere: è il mondo nel suo complesso ad essere mutato, ma per quanto riguarda il fascismo le continuità con il passato superano di gran lunga le discontinuità. A prescindere dal suo esito finale, mi pare che la riflessione di Mulhall meriti la nostra attenzione: la storia del fascismo all’indomani del 1945 è ancora largamente da studiare, ricorrere a priori al prefisso «neo» per descriverlo rischia di alterare in partenza l’oggetto stesso della ricerca.
L’altro punto di estremo interesse del libro è la capacità dell’autore di legare i successi fascisti nel dopoguerra alla debolezza della democrazia: è la fragilità di quest’ultima a provocare l’accendersi di alcuni dibattiti politici nei quali i fascisti hanno gioco facile ad inserirsi. Si prenda l’esempio del fenomeno migratorio che investì il Regno Unito dell’immediato dopoguerra. A detta di Mulhall, l’estrema destra trascurò inizialmente i primi sbarchi, forse perché incapace di comprendere il potenziale politico di simili avvenimenti (il che attesta come l’autore non pecchi certo nella tendenza di sovrastimare il proprio oggetto di studio); fu soltanto quando la stampa e le forze politiche di area moderata e conservatrice posero attenzione al tema che i fascisti decisero di cavalcarlo, riuscendovi grazie anche a un repertorio retorico consolidato che faceva del «diverso», sino a quel momento l’ebreo e/o il comunista, una minaccia all’identità del popolo britannico. Un ragionamento analogo si può applicare all’ondata antisemita che attraversò il Regno Unito tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 all’indomani di una serie di attentati contro soldati britannici in territorio israeliano per mano di organizzazioni paramilitari come l’Haganah e l’Irgun. Mulhall constata come anche in quella circostanza i fascisti non ne siano stati i diretti responsabili: non ne avrebbero avuto nemmeno le forze dato che erano nel pieno della loro riorganizzazione; essi si limitarono, più semplicemente, a gettare benzina sul fuoco, alimentando tale rigurgito antisemita. Il fascismo – se ne ricava – sopravvisse per la debolezza della democrazia e per la presenza di alcune culture politiche che favorirono in qualche modo il mantenimento di un clima favorevole ad esso: Mulhall guarda alla Gran Bretagna, ma le sue riflessioni possono probabilmente estendersi ad altri Paesi europei.