IV, 2021/2

Corinna Schlombs

Productivity Machines. German Appropriations of American Technology from Mass Production to Computer Automation

Review by: Jacopo Ciammariconi

Authors: Corinna Schlombs
Title: Productivity Machines. German Appropriations of American Technology from Mass Production to Computer Automation
Place: Cambridge
Publisher: The MIT Press
Year: 2019
ISBN: 9780262537391
URL: link to the title

Reviewer Jacopo Ciammariconi - Universität Trier

Citation
J. Ciammariconi, review of Corinna Schlombs, Productivity Machines. German Appropriations of American Technology from Mass Production to Computer Automation, Cambridge, The MIT Press, 2019, in: ARO, IV, 2021, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2021/2/productivity-machines-german-appropriations-of-american-technology-from-mass-production-to-computer-automation-jacopo-ciammariconi/

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Il concetto di «produttività» rappresenta un campo di studio e di ricerca di estremo interesse per gli storici e le storiche che si occupano della storia del capitalismo in età contemporanea, con valenze che si riverberano anche sulla nostra società attuale. Esso infatti è parte integrante della storia del capitalismo e dello sviluppo tecnologico e ha una sua forza normativa, che va al di là della semplice dimensione della produzione. Il volume di Corinna Schlombs Productivity machines. German Appropriations of American Technologies from Mass Production to Computer Automation porta nuove conoscenze e offre utili spunti di riflessione al riguardo. Tema del volume è l’analisi storica degli scambi di tecnologia nonché della cultura e delle idee della produttività nello spazio transatlantico tra il 1920 e il 1960. La Schlombs offre una ricostruzione della genesi storica del concetto di produttività negli Stati Uniti e della sua «esportazione» in Germania (e in generale in Europa) nell'ambito del contesto transatlantico e degli scambi avvenuti al suo interno. L'autrice parte dal presupposto teorico e metodologico che le tecnologie non siano oggetti neutrali ma che incorporino valori e visioni della società, di cui diventano veicoli di trasmissione. Nel libro vengono analizzate in particolar modo le «tecnologie della produttività», come ad esempio la produzione di massa fordista e i computer. Schlombs mostra come, non solo nel corso del tempo ma anche a seconda dei diversi attori coinvolti, il concetto di produttività abbia assunto significati differenti in un processo di continua negoziazione reciproca, ciò che lei definisce come «flexibility of productivity in the transatlantic context – that is, how different groups have seen productivity at different time, and how their views have changes over time» (p. 3).

Il volume si articola in due parti. La prima si concentra sui decenni precedenti alla Seconda guerra mondiale. Nel primo capitolo Schlombs ricostruisce l’origine del concetto di produttività in America, che viene rintracciato nell’elaborazione da parte del Bureau of Labor Statistics (BLS) negli anni Venti del XX secolo per osservare e misurare l’impatto delle nuove tecnologie, introdotte nella fine del XIX secolo, sulla produzione e sul lavoro (p. 41). Nel secondo capitolo vengono analizzati gli scambi di idee e modelli tecnologici nello spazio transatlantico tra USA e Germania. La seconda guerra mondiale è considerata come uno spartiacque, in seguito al quale gli Stati Uniti tentarono, attraverso il Piano Marshall, di proporre il proprio modello sociale agli Stati europei in fase di ricostruzione postbellica. In particolare il terzo e quarto capitolo sono dedicati all’analisi del Piano Marshall e in particolare del Productivity Program. Schlombs sottolinea come gli agenti americani si siano impegnati in un’opera di convincimento culturale rispetto alla superiorità della società americana con l’obiettivo di promuovere una «rivoluzione sociale» pacifica (p.105). In particolare gli agenti del Piano Marshall promuovevano un progetto sociale in cui l’aumento della produttività avrebbe permesso un aumento dei salari e quindi standard di vita più elevati all’interno di un modello di pacificazione dei rapporti tra le classi (p. 134). Schlombs inoltra sottolinea anche il ruolo di imprese come la IBM e la Remington Rand, le quali collaborarono al programma e agirono come vettori delle tecnologie produttive elettroniche verso l’Europa. Alla IBM in particolare viene dedicato il settimo capitolo, in cui Schlombs analizza il ruolo dell’azienda americana come vettore di un modello particolare di welfare aziendale e di relazioni del lavoro in Germania all'interno delle sue filiali nel territorio tedesco. Nel quinto capitolo vengono analizzati il versante tedesco del rapporto transatlantico e le impressioni dei visitatori tedeschi rispetto alla produttività americana. A seconda degli osservatori e delle loro percezioni, secondo Schlombs, vennero sottolineati aspetti differenti della produttività americana. Un altro fattore che influenzò la ricezione in Germania delle tecnologie americane nel secondo dopoguerra fu il modello sindacale tedesco, costruito sul principio della «codeterminazione», come viene mostrato nel sesto capitolo. Nell’ultimo capitolo, infine viene analizzato il dibattito nei due paesi sulle tecnologie di automazione, soprattutto sulle tecnologie informatiche e sul computer. Anche qui emerse una differenza sostanziale: mentre negli Stati Uniti le tecnologie informatiche erano considerate un mezzo per aumentare la produttività e di conseguenza il livello di vita per tutti i cittadini, in Germania occidentale erano viste come un pericolo per l’occupazione. Da questo momento in poi, secondo Schlombs, «Automation in this way became a counterconcept to productivity» (p. 246).

Il libro della Schlombs fornisce un interessante esempio della fecondità di un approccio culturale alla storia economica, delle tecnologie, del lavoro e del capitalismo. L'autrice non si concentra sulle tecnologie in quanto tali, ma sui valori, sulle idee, sulle Weltanschauungen in esse incorporati e dei quali esse si fanno vettori di diffusione. Inoltre la Schlombs osserva come, a seconda degli attori, dei contesti geografici e sociali, dei momenti storici, questi valori e queste idee non rimangano mai uguali a loro stesse ma subiscano un processo di negoziazione e di ridefinizione, anche in base ai rapporti di forza.  Nel quarto capitolo, ad esempio, viene sottolineato come all’interno del piano Marshall fossero presenti differenti concezioni della produttività in un processo di continua negoziazione dei valori intrinsechi alle tecnologie produttive: mentre gli imprenditori sottolineavano il ruolo della libera impresa e della proprietà privata, i sindacalisti sottolineavano il modello di relazioni di lavoro collaborative (p. 132). Di particolare interesse nell’analisi di Schlombs è il ruolo delle percezioni: esse non sono considerate solo come idee astratte ma come dotate di una forza normativa e di capacità di influenzare i rapporti tra gli Stati (come nel caso dell’idea dell’eccezionalità americana) e la diffusione delle tecnologie nello spazio transatlantico. L’analisi della Schlombs abbraccia un ampio spettro di attori: dirigenti, managers tecnici, ingegneri, sindcalisti, politici. Questo volume costituisce anche un contributo allo studio della costruzione dell’egemonia mondiale americana nel XX secolo. Accogliendo gli impulsi storiografici a incorporare le tecnologie nello studio della storia delle relazioni internazionali, Schlombs si occupa di un tipo di tecnologie finora poco studiato nell’ambito delle relazioni internazionali, dove l’attenzione è più orientata alle tecnologie militari. Schlombs mostra come la diffusione e l’«esportazione» della produzione di massa di tipo fordista e poi le tecnologie informatiche abbiano costituito una forma di «soft power» per l’ascesa degli USA a potenza mondiale. Inoltre le tecnologie produttive e il loro portato valoriale e simbolico ebbero un ruolo non secondario nella definizione identitaria del mondo occidentale, sotto l’egemonia americana, seppur con differenti variazioni di capitalismi al suo interno, negli anni della Guerra Fredda in contrapposizione al mondo sovietico.

Schlombs evita però il rischio di una lettura unilaterale dei rapporti internazionali. Infatti, pur mostrando come nello spazio transatlantico lo scambio delle idee di produttività sia avvenuto soprattutto sull’asse ovest-est dagli USA alla Germania/Europa (p. 9), dal libro emerge come esse non siano state accolte passivamente in Germania. Se molti osservatori e attori rimasero affascinati dagli Stati Uniti e dal loro modello produttivo, Schlombs sottolinea quanto forte fosse in molti casi lo scetticismo sulla possibilità di riprodurlo in quanto tale in Europa. È il caso ad esempio di Carl Köttgen, ingegnere e dirigente della Siemens, il quale non riteneva che le condizioni di partenza dello sviluppo economico e tecnologico americano fossero presenti o riproducibili in Europa. Qui risiede, secondo l’autrice, una delle radici dello sviluppo differente dei capitalismi americano e tedesco, soprattutto dopo la fase della ricostruzione postbellica, nonostante il tentativo americano di esportare il proprio modello sociale con il Piano Marshall. I due capitalismi presentavano tuttavia un complesso mix di economia di mercato e intervento statale. La differenza sostanziale rimase però nei rapporti di classe e di lavoro: mentre negli USA la soluzione al conflitto sociale fu trovata nell’innalzamento dei salari, degli standard di vita e dei consumi, in Germania lo fu nel modello della codeterminazione.

Productivity Machines offre un contributo importante non solo alla storia delle tecnologie e delle culture tecnologiche ma anche delle relazioni internazionali. Inoltre contribuisce anche a delineare una «preistoria» delle trasformazioni del lavoro e della produzione attraverso l’introduzione delle tecnologie informatiche. Inoltre, dal punto di vista metodologico, rappresenta un interessante approccio culturale, attraverso l’analisi delle idee, delle culture e dei discorsi, alle dinamiche sociali ed economiche. Sarebbe interessante ampliare la periodizzazione considerata e sfruttare questo approccio per l’analisi di alcuni concetti centrali del modello economico e sociale postfordista, per comprenderne meglio genesi, diffusione ed implicazioni politiche, economiche e sociali[1]. Soprattutto un'analisi storiografica della forza normativa di questi concetti e della loro capacità di produrre trend che abbiano un impatto e un’influenza sulle strutture della società[2]. Ad esempio una riflessione storiografica sulla diffusione dell’idea e delle culture della flessibilità, nonché delle tecnologie produttive flessibili potrebbe risultare particolarmente feconda per la comprensione delle trasformazioni del mondo del lavoro europeo «dopo il  Boom»[3].

 

[1] Un esempio nella storiografia tedesca è il volume N. Frei - D. Süss (edd), Privatisierung. Idee und Praxis seit den 1970er Jahren (Vorträge und Kolloquien, Bd. 12), Göttingen, Wallstein Verlag, 2012.

[2] Da questo punto di vista risulta fecondo l’approccio proposto dalla Historische Trendforschung. Si veda  https://tribes.hypotheses.org/historische-trendforschung.

[3] A.D. Manteuffel - L. Raphael, Nach dem Boom. Perspektiven auf die Zeitgeschichte seit 1970, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht Gmbh & Co, 2008.

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