III, 2020/3

Daniel O’Quinn

Engaging the Ottoman Empire

Review by: Massimo Scandola

Authors: Daniel O’Quinn
Title: Engaging the Ottoman Empire. Vexed Mediations, 1690-1815
Place: Philadelphia
Publisher: University of Pennsylvania Press
Year: 2019
ISBN: 9780812250602
URL: link to the title

Reviewer Massimo Scandola - Université de Tours

Citation
M. Scandola, review of Daniel O’Quinn, Engaging the Ottoman Empire. Vexed Mediations, 1690-1815, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2019, in: ARO, III, 2020, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2020/3/engaging-the-ottoman-empire-massimo-scandola/

PDF

A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, numerosi segmenti della storiografia si sono confrontati con la storia sociale, politica e culturale dell’Impero ottomano, dalla presa di Costantinopoli alla fine della Prima guerra mondiale. Alla prospettiva iniziale, votata per lo più alla storia sociale e alla storia delle istituzioni, si è affiancata negli ultimi anni anche l’attenta analisi  della storia delle rappresentazioni del mondo ottomano in Europa Occidentale; inoltre, altri ambiti della critica hanno analizzato le conseguenti pratiche di riscrittura delle esperienze messe in atto da viaggiatori, letterati, consoli e intellettuali che hanno vissuto in quelle terre o attraversato quell’Impero. Vari studiosi provenienti da diversi ambiti disciplinari, come Deniz Türker, Michael Talbot, Gerald MacLean, Palmira Brummet, hanno rilevato le nuove piste di discussione messe in atto da questa ricerca nel panorama della storiografia contemporanea.

In Engaging the Ottoman Empire Daniel O’Quinn suggerisce un’interpretazione controcorrente rispetto alle tendenze contemporanee degli Ottoman Studies, perché propone di rileggere gli scritti degli europei stabilitisi a Istanbul in una prospettiva interdisciplinare, partendo da un corpus variegato di fonti abilmente fatte interagire fra loro: dispacci militari e politici, lettere e memoriali, diari, raccolte cartografiche, racconti di viaggio, disegni e bozzetti si affastellano nelle pagine vivissime di O’Quinn. La somma di questi ingredienti suggerisce una prospettiva originale diretta a stanare gli immaginari sulla società ottomana del Settecento.

Il libro si regge di due categorie storiografiche: la «sociabilità» e la «mediazione». La prima inoltra il lettore tra le reti di relazione dei diplomatici europei e mette in evidenza le ritualità politiche degli ambasciatori presso la Sublime Porta. La seconda, invece, è intesa da O’Quinn nei due significati della parola. Da un lato si riferisce alla «mediazione diplomatica» attestata dai diari, dai memoriali politici e dalla corrispondenza ufficiale. Al tempo stesso la mediazione è anche un fenomeno di transfert culturale, cioè un processo d’interazione e d’integrazione volto a rappresentare la realtà e capace di coinvolgere giornalisti, librettisti, semplici divulgatori, cartografi, incisori e illustratori di libri, quali attori di una rete di scambio d’informazioni. L’autore insegue le vite dei vari personaggi che hanno popolato la corte del sultano dall’inizio del Settecento ai primi decenni dell’Ottocento: descrive le sorti dei diplomatici europei mentre vivono a Istanbul, servono la madrepatria e si sottomettono al protocollo rigoroso del Palazzo imperiale; partecipano a cerimonie, assistono a sommosse e capovolgimenti politici, come la rivolta della Patrona Halil. 

Nel primo capitolo, O’Quinn esamina gli scritti di due diplomatici britannici, William Paget e Paul Rycaut, che furono fra gli attori principali della pace di Karlowitz (1699). Questo trattato arrestò l’avanzata ottomana nell’Europa sud-orientale e al tempo stesso aprì la fase di declino dell’Impero della Sublime Porta. In quegli anni in Europa vennero dati alle stampe numerosi trattati sulla Turchia, i Balcani, i principati tributari, e non si contano nemmeno gli atlanti, i teatri miliari (cioè le raccolte cartografiche sulle battaglie), i manufatti artistici e anche le incisioni, messi in rilievo dal saggio di O’Quinn. Nella varietà degli scritti sulla Sublime Porta, spiccano le memorie di due importanti osservatori europei della società ottomana. Mi riferisco in particolare alla scrittrice Lady Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore britannico a Istanbul dove visse con il marito dal 1716 al 1718, e al pittore Jean-Baptiste Vanmour. La prima è stata autrice di un libro di lettere (The Turkish Embassy Letters, 1717) che ha plasmato buona parte dell’immaginario ottocentesco sull’Impero ottomano, mentre il pittore fiammingo Vanmour, lavorando alla corte imperiale, ha immortalato l’élite europea a Istanbul, il vissuto quotidiano dell’aristocrazia ottomana e i fasti del sultano. Tanto negli scritti di Lady Montangue quanto nelle pitture realizzate da Vanmour due elementi appaiono importanti: la rappresentazione del potere mediante parate e processioni e l’osservazione degli usi e costumi della donna ottomana.

Questo aspetto legato al genere gioca un ruolo importante nell’immaginario europeo, perché si arricchisce di significati simbolici, politici ed erotici sottolineando innanzitutto anche i limiti delle rappresentazioni tramandate da Lady Montangue e da Vanmour che, probabilmente, non capirono a fondo, come molti altri loro conterranei, i costumi della società turca d’inizio Settecento. Queste tematiche accompagnano ai due capitoli successivi, l’uno dedicato a Jean-Baptiste Vanmour, l’altro a Lady Montangue. Nel capitolo terzo, O’Quinn descrive i momenti salienti della vita delle donne aristocratiche della società ottomana (matrimoni, funerali, nascite) e, attraverso le rappresentazioni di Vanmour, l’autore nota come fossero mutati gli usi e i costumi dell’aristocrazia turca nell’età dei tulipani (1718-1730), uno dei momenti salienti della storia ottomana, quando i consumi aumentarono vertiginosamente, insieme alle speculazioni finanziarie, e i beni lusso in arrivo dall’Europa Occidentale modificarono i consumi della nobiltà turca. La rivolta di Patrona Halil mina la solidità dell’Impero e viene rappresentata dallo stesso Vanmour. Questo episodio è tramandato anche da Lady Montangue nel suo libro di lettere, ove descrive la violenza di quel momento storico e lo rappresenta in modo realistico (capitolo 4). Dipinti e lettere sono animati da una duplice prospettiva, ove convivono la rappresentazione realistica della rivolta e l’allegoria politica dello status quo, cioè della stabilità del potere del sultano.  

Nella seconda parte del libro, l’autore compie un salto temporale e accompagna i lettori negli anni Sessanta del Settecento (capitolo 5), quando con il Trattato di Parigi alla fine della guerra dei Sette anni, la Francia perse il dominio sui mari a vantaggio della Gran Bretagna. Negli anni Sessanta mutarono completamente i rapporti di potere in Europa e nell’Atlantico e iniziarono a porsi numerose questioni che si protrarranno per tutto l’Ottocento: da un lato l’autore preannuncia il ruolo importante giocato dall’imperialismo britannico e il diffondersi della «questione orientale» che inizia a fare la sua comparsa nella letteratura dell’epoca e diventa oggetto di dibattito nei circoli letterari di Parigi, Berlino e Londra.

È alla Gran Bretagna hannoveriana che l’autore presta molta attenzione. All’inizio del 1764, la Society of Dilettanti, a differenza di molte istituzioni britanniche attive nel periodo successivo alla guerra dei Sette anni, promosse numerose attività di studio e di scavo in Medio Oriente, come scrive Richard Chandler nelle Antiquities of Ionia (1769). In questo contesto maturarono correnti letterarie vicine al filoellenismo: una tendenza culturale che caratterizzò molti ambienti dell’intellighenzia britannica del tardo Settecento. Nelle pagine successive (capitolo 6),  O’Quinn mette in luce la nuova prospettiva culturale incentrata sulla riscoperta del passato della Grecia e promossa nei racconti di viaggio del conte di Choiseul-Gouffier (Voyage pittoresque de la Grèce, 1784), ambasciatore a Costantinopoli, e di Lady Elisabeth Crave (Journey Through the Crimea to Constantinople, 1789).

In particolare, Lady Crave mette in rilievo la solida bellezza dell’Antichità per contrapporla alle incertezze del mondo contemporaneo; per fare questo, Lady Crave oppone al fascino delle donne dell’Antichità un ritratto manipolato e sarcastico delle suddite del sultano. Di nuovo testi e immagini sono protagonisti del capitolo 7, dove O’Quinn propone uno studio comparato tra i resoconti del conte di Choiseul-Gouffier e quelli di sir Robert Ainslie, ambasciatore britannico a Istanbul. In questo caso, due progetti culturali diversi si scontrarono, perché Choiseul-Gouffier volgeva lo sguardo all’Antichità passando sotto silenzio le condizioni dell’Impero ottomano della seconda metà del Settecento, mentre Ainslie mise in campo numerosi progetti culturali e artistici orientati a fare interagire la cultura occidentale con il mondo multilinguistico e multietnico sottoposto alla Sublime Porta. Il diplomatico britannico era amico di Luigi Mayer, pittore e artista italo-tedesco attivo a Istanbul, ed era anche il committente di numerose stampe realizzate da Mayer. Inoltre, l’autore mette in evidenza in ogni capitolo le strategie narrative scelte con cura dai numerosi cronisti che si distinsero dal progetto culturale di Sir Ainslie: O’Quinn ha individuato nei testi metafore, similitudini, allegorie e giochi simbolici, tutti volti a sessualizzare la «Grecia», immaginata come una donna fertile capace di ripopolare le sue terre, e a denigrare la «Turchia», destinata al declino.

L’obiettivo di spiegare la propria prospettiva analitica viene raggiunto con efficacia nel capitolo finale, dove O’Quinn catapulta il suo lettore in epoca romantica e introduce l’emergere di un tipo di riflessione sull’Oriente che ha un precedente illustre in Edward Said (Orientalism, 1978). Il passo dalla rappresentazione allegorica e sessualizzata della «Grecia» all’impegno politico per la sua indipendenza è breve. Per questo motivo, l’autore evidenzia l’importanza del Voyage pittoresque de Constantinople et des rives du Bosphore di Antoine-Ignace Melling (1807-1824) e porta alla luce Le Giaour di Lord Byron (1813). Due opere molto differenti, capaci però di spiegare le due dimensioni diverse dell’imperialismo europeo, quello francese e britannico: dopotutto, come afferma O’Quinn, l’interazione fra arti visive e generi letterari «minori» non spiega soltanto l’estetica dei fenomeni di ibridazione culturale, delle interazioni difficili fra la cultura europea e l’universo di valori del mondo ottomano, ma diventa anche un modo per riuscire a intravvedere già le dinamiche più ampie dei diversi imperialismi sviluppatesi in tutto il XIX secolo. Con questo volume O’Quinn rivolge agli storici degli interrogativi su questioni di metodo più ampie, orientate a portare al centro del dibattito la cultura materiale e l’interazione fra rappresentazioni visive e letterarie come strumenti utili allo studio delle dinamiche politiche e culturali del «lungo Settecento».

Subscribe to our newsletter

Partners