III, 2020/2

E. Gombrich
Lucio Biasiori (ed.)

Immagini e parole

Review by: Allegra Baggio Corradi

Authors: E. Gombrich
Editors: Lucio Biasiori
Title: Immagini e parole
Place: Roma
Publisher: Carocci
Year: 2019
ISBN: 9788843086115
URL: link to the title

Reviewer Allegra Baggio Corradi - Warburg Institute

Citation
A. Baggio Corradi, review of E. Gombrich, Lucio Biasiori (ed.), Immagini e parole, Roma, Carocci, 2019, in: ARO, III, 2020, 2, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2020/2/immagini-e-parole-allegra-baggio-corradi/

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Immagini e parole raccoglie sei saggi redatti dallo storico dell’arte tedesco Ernst Gombrich tra il 1950 e il 1998, nessuno dei quali era stato sino ad ora disponibile in traduzione italiana. Nell’introduzione al volume, Lucio Biasiori difende l’importanza di Gombrich per la storia delle idee, sollevandolo dalle accuse, rivoltegli dalla critica, di aver nutrito uno scarso interesse nei confronti delle culture non occidentali e di aver marginalizzato la dimensione visiva dell’arte a favore della sua componente psicologica. Tramite la scelta ponderata dei saggi inclusi nel volume da lui curato, Biasiori illustra, in maniera convincente, la portata anti-spiritualistica dello storicismo di Gombrich, contrario alla Geistesgeschichte di matrice hegeliana e corifeo della necessaria unione di verità e metodo.

Nel primo saggio, Immagini e parole, Gombrich si pone in una posizione di continuità rispetto all'assunto warburghiano di unire la parola all'immagine, enfatizzando, tuttavia, la necessità di anteporre ad esso uno spazio del pensiero critico (Denkraum) che consenta allo storico di partecipare all'opera in maniera impartecipata, sottolineando la difficoltà sottesa al compito e al desiderio di trovare una corrispondenza perfetta tra ciò che si vede e ciò che a proposito di esso si scrive. Gombrich sostiene che l’ostacolo più ingente per lo storico dell’arte consista nell’evitare di produrre testi che, trasferiti da un’opera all’altra, siano comunque appropriati. Quest’ardua impresa, le cui poche probabilità di successo dipendono, non tanto dalla complessità semantica dell’arte, quanto dall’insufficiente universalità del linguaggio che si sviluppa sempre post factum, ovvero in seguito all’appercezione dell’opera da parte dei sensi, è complicata dall’introflessione dello storico che conduce le proprie indagini dal mondo agli occhi alla mano, senza passare prima dalla mente. La mediazione della ragione, secondo Gombrich, evita la produzione di transfert, cioè legami di confidenza tra l’oggetto e il soggetto che insularizzano il primo e conducono il secondo a fruire del suo contenuto tramite l’intuito e l’esperienza estetica. Combinare la parola all’immagine è, quindi, impossibile senza la mediazione di un contesto, in quanto «per tutto il tempo che rimaniamo qui sulla terra, non siamo anime disincarnate che leggono altre menti senza l’intervento della materia e che a noi mortali anche un tenue barlume di conoscenza è dato solo al prezzo di un lavoro onesto e pedestre» (p. 48).

Il secondo saggio, Le celebrazioni veneziane per la Lega Santa e la vittoria di Lepanto, è incentrato sulle vicende della guerra della Serenissima contro i Turchi e, in particolare, della battaglia di Lepanto. Nello specifico, Gombrich tenta di comprendere il motivo della marcata differenza tra la vivacità iconografica degli apparati festivi nei dipinti realizzati in relazione all’evento e il conservatorismo delle tecniche pittoriche degli stessi, sostenendo che già in epoca rinascimentale «la gerarchia dei generi si sovrapponeva alla gerarchia dei media» (p. 62); un pensiero, questo, quanto mai attuale.

Il terzo saggio, L’evidenza delle immagini, è dedicato al complesso rapporto tra le cose e le descrizioni verbali delle stesse. Secondo Gombrich, i mezzi dell’arte visiva non possono sposarsi con la funzione enunciativa del linguaggio, in quanto i primi sono sottoposti alla «variabilità della visione» (p. 68), ovvero il processo costruttivo implicito nella produzione delle immagini mentali tramite la percezione e l’immaginazione, mentre il secondo dà vita a concatenazioni prima di tutto logiche, frutto di costrutti artificiali della razionalità umana. Ciò che più differenzia la visione dalla scrittura è, dunque, la tendenza dell’occhio a scrivere la realtà alla luce della memoria pregressa e l’incapacità della mano di tradurre il processo tramite il quale i nessi tra realtà e conoscenza vengono stabiliti dalla percezione a causa di una ridondante convenzionalità. La parola, in sostanza, è un filtro teorico e trasparente che sfugge alla consapevolezza, mentre l’immagine è sempre empiricamente incontrovertibile in quanto pratica. Nonostante la sua veridicità, anche l’immagine non è che un’evidenza, una prova materiale che lo storico dell’arte-detective deve essere in grado di utilizzare sapientemente per ricostruire i (mis)fatti, senza farsi indurre in tentazione dal magnetico desiderio di proiettare le proprie ambizioni critiche sulle opere. Senza un contesto, anche l’osservatore più diligente può finire per travisare il vero significato di ciò che egli vede tramite gli occhi del suo pensiero debole. L’educazione dello sguardo, secondo Gombrich, deve presupporre il tentativo di rallentare l’automatismo della nostra reazione percettiva, informando la memoria conoscitiva durante la visione di un’opera, ogni volta come se fosse la prima.

Il quarto saggio, Il Rinascimento. Periodo o movimento?, riflette, tramite l’ampia analisi di fonti primarie e secondarie, da Petrarca a Vico passando per Roscoe, Pater, Burckhardt, Yates e Walker, sulle necrosi intellettuali che nel corso della storia si sono abbeverate alla fonte di un’ideale età dell’uomo, elaborando filosofie del progresso supportate dalla «credenza metafisica che il corso della storia sia predeterminato da una specie di spirito hegeliano» (p. 150).

Il quinto saggio, La Cappella Sassetti rivisitata. Santa Trinita e Lorenzo de’ Medici, verte sulle ricerche giovanili di Gombrich a Firenze, in particolare sul suo tentativo di completare il pionieristico lavoro iniziato da Warburg nella stessa sede quattro decenni prima. In questo scritto, Gombrich offre un eccellente esempio di metodo, illustrando con la seguente descrizione che Machiavelli scrisse di Lorenzo de’ Medici, come le apparenti contraddittorietà che si incontrano lungo un percorso di ricerca, piuttosto che essere fuorvianti, siano spesso intrinseche alla non-linearità della storia stessa e dei suoi attori: «Si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte» (p. 173).

Il sesto saggio, Invenzioni orientali e risposta occidentale, esplora i rapporti internazionali sottesi allo sviluppo del Rinascimento italiano che portarono alla ricezione di pratiche come la stampa e strumenti quali la polvere da sparo e la bussola, già presenti in Oriente da lungo tempo. Lo scontro e lo scambio costituiscono, secondo Gombrich, in egual misura, la forza motrice del desiderio occidentale del progresso, dimostrando che le polarità inconciliabili, come, ad esempio, quelle tra scienza e magia, non sono poi realmente tali. Questo scritto è un invito rivolto ai ricercatori di ogni generazione e orientamento a ricordarsi che «i nostri antenati non avevano il monopolio del sapere e che noi potevamo imparare a conoscere più cose di loro, se solo non avessimo accettato la loro parola senza discutere». (p. 191).

Nel complesso, Parole e immagini è un libro colto, non perché i saggi riunitivi siano stati scritti da Gombrich, ma perché la scelta curatoriale di Biasiori illustra in maniera semplice, ma non semplicistica, come le immagini più potenti non siano quelle affisse ai muri, bensì quelle proiettate dalla mente sulle sue pareti interne, dove esse si trasformano in idee tramite l’immaginazione, producendo senso e, dunque, discorso. Emerge chiaramente dai sei testi che, talvolta, le immagini sono anche le proiezioni illusorie di un intero gruppo di individui legati da un ideale comune, più o meno distorto, alimentando il quale essi producono visioni, scrivono pensieri, si orientano nel mondo e agiscono nel tentativo di ri-produrne uno del quale si proclamano nostalgici nonostante non lo abbiano mai abitato. Come asserisce Gombrich, «tanto più intellettuale è la nostra formazione, tanto più a base di inchiostro è la nostra dieta» (p. 25). Il desiderio di intellettualizzare un periodo storico, sia esso l’antichità classica, il medioevo o il Rinascimento stesso, rivela sempre il pensiero di una minoranza, mai di una totalità. Per questo motivo, è necessario anteporre distanza tra la storia e la storiografia, tentando di agire diversamente dai nostalgici saturnini del passato, compiendo lo sforzo di «parlare con lo stesso tono a chi già sa e a chi deve ancora imparare» (p. 22).

Non restando intrappolato nelle secche dell’erudizione fine a se stessa e tantomeno nelle sabbie mobili dell’aspra critica contestatoria, Biasiori offre un’eccellente dimostrazione di come possa ancora prodursi conoscenza senza intervenire, giudicare o distorcere il pensiero di un uomo o di un intero mondo al fine di giungere a una verità non partecipata, supportata da un adeguato metodo. I pregi del volume sono sicuramente maggiori degli sporadici nei nella traduzione, come, ad esempio, «delusion» diventato «delusione» (p. 88), sicuramente una svista che rivela l’illusione sottesa alle parole. La brevità dell’introduzione redatta da Biasiori sembra, infine, rispondere direttamente alla domanda retorica posta da Gombrich: «Non sono le migliori parole sulle immagini quelle che rimangono non dette?» (p. 25). A noi sembrerebbe proprio di sì.

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