Reviewer Ignazio Veca - Scuola Normale Superiore
CitationC’è stato un tempo, non molto lontano, in cui il mondo delle campagne occupava un posto centrale nelle società occidentali. Le trasformazioni economiche del secondo dopoguerra hanno cambiato letteralmente il paesaggio. Avvenne allora quello che lo scrittore spagnolo Sergio del Molino ha definito con efficacia il "grande trauma": lo svuotamento delle campagne a favore dell’inurbamento di massa, la fine di un mondo apparentemente millenario con l’avvento della nuova società industriale. Ai protagonisti italiani di quel mondo perduto dedica il suo ultimo libro Adriano Prosperi, che ha sentito il bisogno di fissare lo sguardo dello storico oltre il cambiamento repentino di metà Novecento che ha vissuto di persona, dopo che gli anni della guerra sembravano aver riportato nelle campagne toscane le lancette dell’orologio a prima che gli orologi esistessero.
Il volume è il frutto dell’incontro tra la memoria personale di un "testimone del tempo remoto" (p. XVII) e l’interesse professionale dello studioso. Una struttura a macchia di leopardo accompagna il lettore in un viaggio rabdomantico lungo l’Ottocento, sulle tracce di quello che – parafrasando il Manzoni del coro dell’Adelchi, il quale pure non si riferiva solo al mondo rurale ma a tutto il popolo latino oppresso – viene definito "un volgo disperso": i contadini come "classe oggetto", secondo la definizione di Pierre Bourdieu; soggetti invisibili allo sguardo del mondo urbanizzato e soprattutto individui relegati in una condizione di subalternità strutturale e culturale nella storia italiana.
Un rumore di fondo attraversa la narrazione lungo i diciotto capitoli del volume, divisi in tre parti: il brusio sordo della miseria e delle precarie condizioni alimentari e abitative delle popolazioni contadine, la cruda realtà di malnutrizione e malattie dietro alle immagini della tradizione letteraria di genere. Ma l’Ottocento è anche un secolo di cambiamenti, che vengono colti non solo nei mutamenti, ora lenti ora più veloci, dei rapporti di produzione e delle forme contrattuali, ma anche nella progressiva attenzione prestata all’"igiene" fino alla ricerca di una vera e propria utopia di purezza e sanità sociale perseguita dalla nuova figura di intellettuale affermatasi nel corso del secolo: il medico condotto. Partendo da Bernardino Ramazzini, precursore settecentesco della medicina del lavoro, e dall’articolo che Cesare Lombroso dedicò nel 1863 alla "carta igienica d’Italia", e cioè al progetto di una "mappa delle carenze di igiene come il primo passo per risanare, rendere più forte e longevo l’essere umano" (p. 7), comincia una storia che attraversa per prima l’età napoleonica, quando ben tre indagini statistiche furono organizzate per avere un quadro preciso della popolazione e dei suoi costumi nelle nuove realtà politiche. Lo sforzo che sta alla base del libro è stato proprio quello di individuare e sfruttare le fonti che permettessero di avvicinare il più possibile gli individui in carne e ossa, i contadini “oggetti”. E dunque inchieste governative, ma anche analisi della nuova scienza positiva che – tra sguardo paternalistico e sincero trasporto per le condizioni ai limiti della sopravvivenza dei lavoratori agricoli – produssero una grande quantità di materiali da cui lo storico può trarre molte informazioni. Non solo. Si mette a fuoco la dialettica tra «collaborazione necessaria» e «conflitto potenziale» tra i medici condotti e i parroci, tradizionali mediatori e guardiani delle masse anonime.
I due terzi del libro sono dedicati all’inserzione del nascente protagonismo scientifico e civile dei medici condotti nella tessitura istituzionale del nuovo Stato unitario. È una storia che ripercorre la stesura delle topografie statistiche dei medici e delle inchieste governative, seguendo l’ideale ottocentesco dell’igiene come filtro per guardare alla condizione contadina: dalla Statistica medica di Milano (1838) del chirurgo milanese Giuseppe Ferrario, ai resoconti del medico quarantottardo Ercole Ferrario, alla fallita inchiesta agraria promossa dal patriota e deputato radicale Agostino Bertani dagli anni Settanta, passando per la circolare sull’igiene del ministro Gaspare Cavallini (1870). Una densa catena di medaglioni vengono così offerti per la prima volta in forma unitaria, aggirando i limiti delle grandi differenze regionali italiane sotto l’ombra incombente del criminologo Cesare Lombroso.
Per la peculiarità delle fonti analizzate, al centro del volume finiscono per emergere tuttavia più le rappresentazioni dei contadini che i contadini stessi, passati ad essere percepiti, nel giro di un secolo, da moltitudine povera e cenciosa a "stirpe disgraziata" affetta da atavismo organico e psichico: dove il pericolo sociale cambia di veste nello sguardo delle classi dominanti. Dalle topografie igieniche dei medici condotti e dalle inchieste governative si ricavano moltissimi dati sulle condizioni materiali dei contadini, ma altri aspetti della loro vita ne restano esclusi: la parentela, la sessualità, le dinamiche di gruppo, il linguaggio e la conversazione, e infine la politica. L’azione cosciente delle folle contadine compare per la prima volta a proposito della rivolta sarda di Salnuri del 1881, e bisogna attendere il movimento lombardo-veneto de "La Boje!" e i fasci siciliani per ascoltare finalmente "la voce autentica dei contadini": "con la partecipazione diretta alla lotta sociale, il popolo dei lavoratori delle campagne cessò di essere una classe oggetto" (pp. 313-314).
Questa storia dei contadini italiani offre la ricchezza di uno sguardo eccentrico: quello del passato osservato da un presente ormai straniero, ma anche di un passato più remoto che illumina un passato più prossimo. Sulle orme di Arno Mayer, l’Antico Regime si prolunga alla prima metà del Novecento: "La parola igiene indica una soglia tra presente e passato" (p. 322). L’Ottocento contadino ci viene restituito così come lunga età di transizione che ha forgiato la nostra contemporaneità, i suoi schemi mentali tanto quanto le sue strutture: un campo in cui modernisti e contemporaneisti dovrebbero incontrarsi invece di contendersene le ossa. Un invito dunque a proseguire, magari verso quella "storia generale comparata dei contadini del mondo" (p. 165) che l’esportazione della pellagra negli Stati Uniti d’America a inizio Novecento suggerisce all’autore.