Reviewer Fernanda Alfieri - FBK-ISIG
CitationIl campo di studi che si è sviluppato intorno alla stregoneria è senz’altro uno dei più ricchi nella storiografia di età moderna. Con un picco di esecuzioni tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, si stima che le condanne capitali in Europa furono circa ventitremila, due terzi delle quali di donne. In ambito germanofono e anglofono, orizzonte di riferimento del volume di Laura Kounine, tre sono state le principali letture del fenomeno: secondo la tesi del “cattivo vicino”, le accuse di stregoneria sarebbero sorte soprattutto da conflitti di vicinato non risolti (R. Briggs e A. Rowlands); secondo la tesi della “piccola glaciazione”, la caccia alle streghe sarebbe fortemente legata alla crisi agraria attraversata dall’Europa nell’epoca in questione (W. Behringer); infine, l’assenza di un forte controllo centralizzato da parte dello stato avrebbe favorito l’ondata di condanne (J. Dillinger, E. Labouvie, B. Levack). Si tratta dunque di ricostruzioni tese a spiegare i presupposti delle persecuzioni, le tensioni politiche, economiche e sociali sottese, le circostanze di fondo.
Di recente una linea di indagine, che vede in Lyndal Roper il principale riferimento, ha invece assunto come oggetto di studio la strega in sé e su questo filone si innesta anche lo studio di Kounine. Chi è la strega? O meglio, come viene rappresentata? E quali inquietudini – individuali e collettive – precipitano in queste rappresentazioni? Vecchia, avvizzita, sterile, corrosa dall’invidia per le donne giovani, invece floride e fertili, la strega si aggira per i villaggi della parte meridionale e occidentale dell’Impero, per i cantoni orientali della Svizzera, per le province meridionali della Francia, seminando morte per neonati, animali e piante. La dimensione corporea e di genere è cruciale per la sua identificazione. La strega incarna lo spettro dell’anti-housewife (secondo la lettura di Diane Purkiss), che invece di generare uccide, anziché tenere ordine crea disordine, anziché prendersi cura devasta. Il fatto che a denunciarla siano donne più giovani, magari familiari o conoscenti, è indice del tipo di angoscia che provoca. La sua sterilità rabbiosa spaventa, perché, in una civiltà principalmente agraria il cui spettro è l’infertilità, dice che il suo corpo di donna, capace di produrre umori, sangue e latte e di mettere al mondo, può essere altrettanto capace di distruggere. E, tanto nel suo essere quanto nel suo agire (è brutta, isolata, scomposta, aperta alla seduzione del diavolo), mette in atto proprio quei desideri che l'ideale housewife di età moderna deve invece reprimere per restare nel ruolo assegnato. Come Kounine avverte in introduzione, queste interpretazioni, appoggiate alla sponda teorica della psicanalisi, se hanno forse il limite di contribuire alla “femminilizzazione” della stregoneria, hanno comunque saputo mettere al centro il soggetto-strega e il ruolo cruciale della corporeità e delle sue nozioni. Infatti, se non si tiene presente il fatto che nell’orizzonte culturale dell’Europa moderna il corpo è innanzitutto umorale (la sua secchezza è fattore e segno di malattia), e che corpo e mente erano considerati porosi l’uno rispetto all’altra, è difficile comprendere come mai un’emozione fosse ritenuta avere conseguenze talmente forti da poter essere letale (per il corpo proprio, ma soprattutto per quello dell’altro), che uno sguardo potesse essere additato come responsabile di una malattia, che una parola pronunciata con una data intenzione potesse influire sulla materialità del sangue e delle fibre fino a seccarle e raggelarle, che il dolore della tortura fosse la via per stanare la verità celata nell’inquisito. Anche di questa prospettiva il lavoro di Kounine si dichiara debitore (e qui riferimento primo è Ulinka Rublack).
Ma è soprattutto all’interno della recente storiografia delle emozioni che si inserisce il lavoro di Kounine, già curatrice, insieme a Michael Ostling di un volume collettaneo (Emotions in the History of Witchcraft, 2016). Questo ulteriore orizzonte di riferimento è caratterizzato da un dialogo programmatico con le scienze cognitive, nel tentativo di afferrare la dimensione embodied delle emozioni, senza perderne di vista l’ancoraggio in un orizzonte culturale necessariamente sottoposto a mutamento, e di testare sulle tracce dei vissuti di chi ci precede il ruolo cruciale del linguaggio non solo nell’esprimere stati d’animo ricorrendo a formule codificate, che ascrivono l’individuo a comunità di sentimenti (B.H. Rosenwein) ma anche di determinarli, incidendo sulla condizione emotiva del soggetto parlante.
In Imagining the Witch si ricorre alla Listening guide, una metodologia sviluppata ad Harvard all’inizio degli anni Duemila dalla psicologa femminista Carol Gilligan, volta a cogliere i livelli multipli della soggettività nella narrazione di soggetti parlanti. L’assunto è che vi sia sempre una dimensione corale intrinseca alla narrazione di sé, composto dai vari “sé” che il soggetto “performa” nelle sue molte relazioni (e qui riferimento evocato è a Judith Butler), negli immaginari che ha di se stesso, ricevuti dalla comunità in cui vive, dai discorsi di cui la sua cultura di riferimento è imbevuta. Se l’ascolto è applicato al documento, spiega Kounine, certo si perdono la fisicità della voce, le sfumature rivelatrici del tono, l’eloquenza delle pause, ma nell’uso di “io”, nell’attingere a metafore, immagini e formule ricorrenti, nelle assenze e omissioni, si possono ancora cogliere le varie voci che ogni sé incarna. Intercettarle è possibile laddove si disponga di narrazioni in prima persona, e per questo il documento processuale costituisce materiale ideale. I 250 processi per stregoneria celebrati nel baluardo luterano del Ducato del Württemberg fra 1497 e 1750 (600 furono le persone coinvolte, di cui un terzo condannate), e conservati presso l’Hauptstaatsarchiv di Stoccarda, sede dell’Oberrat, offrono all’autrice una casistica ricca che non viene tuttavia considerata complessivamente, ma isolando un numero limitato di casi, al fine di operarne uno studio intensivo che metta al centro il sé, o meglio, i sé, dei soggetti coinvolti. Lo schema narrativo della fonte è condizionato necessariamente dalla procedura processuale, dalla normativa giuridica e dalle nozioni demonologiche veicolate da una vasta letteratura che plasmava non soltanto la visione dei normatori ma anche – per via mediata – quella degli imputati. Tuttavia, secondo Kounine, di quegli io parlanti in tribunale può essere colta una certa “autentica” vitalità. Del resto quello che interessa è non solo e non tanto mostrare che anche la contadina del Württemberg accusata di stregoneria avesse un senso del sé individualizzato (contro un filone di pensiero dalla lunga storia di cui Thomas Robisheaux è individuato dall’autrice come il più recente sostenitore), ma con quali nozioni, quali immaginari e attraverso quali relazioni quel senso del sé prendesse forma. In quattro capitoli, e attraverso singole vicende processuali, il volume analizza vari livelli di questa dinamica: delle istituzioni giudiziarie (procedure, nozioni, prassi), delle strategie difensive degli imputati (retoriche, visioni del bene e del male, codici valoriali invocati), delle figure dell’interiorità (il ruolo del cuore e della coscienza) e dell’immaginario (rappresentazioni visive e narrative della strega circolanti in Europa). Uno dei dispositivi dotati di maggiore forza secondo Kounine è quello della coscienza (Gewissen), che con frequenza gli imputati e le imputate invocano come il luogo della verità radicata e indiscutibile, sulla quale fondare la propria difesa dalle accuse. In questo ricorso alla coscienza, registrato in vari casi, a prescindere dal sesso di appartenenza e dalla estrazione sociale, l’autrice individua l’effetto di un’evangelizzazione a tappeto condotta in quel torno di tempo nel Ducato del Württemberg, baluardo luterano. Ed è proprio nella specificità della nozione luterana di coscienza che Kounine individua il principale strumento di resistenza degli imputati, questione che meriterebbe una comparazione con la nozione cattolica di coscienza, soggetta in quegli anni a un’intensa tematizzazione che conduce a esiti non necessariamente opposti, e che anche la storiografia anglofona, riferimento di Kounine, non ha mancato di trattare.
Uno degli scopi – riuscito – del volume è quello di destabilizzare la nozione di witch, che secondo l’autrice rischia di essere portatrice di una forza evocativa talmente forte da avere un effetto stereotipizzante anche negli stessi studi in materia. Il termine inglese bene si presta all’operazione, essendo ascrivibile tanto al genere maschile quanto a quello femminile. Una delle prime immagini da decostruire, infatti, è quella della strega necessariamente femmina. Le storie di Hans Haass, Jakob Steibers, Althirt Scholl, Georg Shaff e altri, conservate nell’Hauptstaatsarchiv di Stoccarda, sono qui a smentirne l’universalità.