III, 2020/1

Miles Pattenden

Electing the Pope in Early Modern Italy, 1450-1700

Review by: Giampiero Brunelli

Authors: Miles Pattenden
Title: Electing the Pope in Early Modern Italy, 1450-1700
Place: Oxford
Publisher: Oxford University Press
Year: 2017
ISBN: 9780198797449
URL: link to the title

Reviewer Giampiero Brunelli

Citation
G. Brunelli, review of Miles Pattenden, Electing the Pope in Early Modern Italy, 1450-1700, Oxford, Oxford University Press, 2017, in: ARO, III, 2020, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2020/1/electing-the-pope-in-early-modern-italy-1450-1700-giampiero-brunelli/

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Il volume si presenta con un titolo insolito. Tradotto in italiano, suona Eleggere il papa nell’Italia della prima età moderna, 1450-1700. Ma, ovviamente, il papa si elegge a Roma, nella prima età moderna, non “in Italia”. Quest’ultima poi – serve ricordarlo? – nei secoli XV-XVIII, è solo una "provincia universalis, continens in se plures provincias" come scriveva il giurista cardinale Domenico Toschi nei primi anni del Seicento, citando Bartolo da Sassoferrato (Selecta de jure statuum …, Francofurti, haer. Ioannis Bringeri, 1620, p. 36).

Sia chiaro, quanto detto è solo un’osservazione minima. Sappiamo che la scelta del titolo, non di rado, è dettata da valutazioni interne alle case editrici. A questo stesso riguardo, è almeno altrettanto significativo il fatto che il libro di Miles Pattenden non sia intitolato Il conclave nella prima età moderna. Il volume, infatti, non narra lo svolgimento dei conclavi che si sono succeduti, né si limita all’analisi delle procedure adottate nella selezione della figura apicale del cattolicesimo romano. Il suo oggetto precipuo ed esplicitamente dichiarato coincide invece con l’esame dei problemi posti dal carattere elettivo del Papato all’istituzione Chiesa e al collegio dei cardinali che ne rappresenta il gruppo di vertice. Così, il lettore è posto di fronte a un ragionamento olistico (l’"holistic argument" di p. 7) e l’intero da comprendere è proprio il Papato della prima età moderna, nella sua peculiare struttura politico-istituzionale, dal punto di osservazione dell’elezione pontificia.

Per raggiungere l’obiettivo, la materia è ripartita in otto suddivisioni, tutte numerate, dall’Introduzione (1.) alla Conclusione (8.). Il recensore, così, deve chiarire che i capitoli realmente dedicati al vivo dell’argomentazione sono sei e di questi, in realtà, solo quattro: 2. The Pope and His Electors; 3. Methods of Election; 4. The Vacant See; 5. Choosing Candidates. Gli ultimi due, infatti – 6. The New Pope e 7. Papal Government –, accompagnano il lettore fuori dalla clausura del conclave, per mostrargli le prime mosse del neo-eletto pontefice e la macchina di governo ecclesiastico-politico in funzione, a pieno regime.

Che l’autore sia interessato innanzitutto ai protagonisti e alle dinamiche di potere coinvolti nell’elezione sembra dimostrarlo anche la sequenza dell’argomentazione. Con un inaspettato hysteron próteron, la Sede vacante non costituisce il punto di avvio, ma si trova nel mezzo della discussione su come concretamente si facesse un papa. L’analisi, invece, prende le mosse dai cardinali, che della Chiesa e dello Stato ecclesiastico costituivano, nel giudizio dell’autore, l’oligarchia e la classe politica (letteralmente "oligarchy" e "‘political class’", a p. 10 e passim, ma senza più virgolette). Un’oligarchia pressoché tutta italiana, ed ecco allora spiegata la contestualizzazione geografica del titolo. Ciò che questo soggetto collettivo intendeva ottenere, come gruppo o come singoli, costituiva l’essenza dell’atto di eleggere un pontefice. Così, nel secondo capitolo, l’autore definisce dapprima la figura del cardinale, come delineata dalla trattatistica dei secoli XVI e XVII e dalla storiografia attuale e poi individua i quattro contesti essenziali del momento elettorale: il rapporto cardinali-papa (tutto sbilanciato a favore dell’eletto, sovrano dotato di plenitudo potestatis per antonomasia); il vincolo fra i cardinali e le rispettive famiglie; i vincoli imposti (o no) dalla religione nelle scelte effettuate; le relazioni tra i porporati e le potenze europee. Aggregare tutte queste dimensioni, così diverse, soppesarne di volta in volta le valenze, costituiva il cuore della decisione da prendere al momento di scegliere un candidato per la tiara.

Il terzo capitolo, quindi, entra nel vivo delle norme del conclave, di cui viene offerta una rassegna dal 1059 al 1622, con puntate fino all’inizio del XX secolo. La prassi concretamente scaturita dalle regole, una volta implementate, trova qui molto spazio per emergere, così come l’eco di quanto avveniva nel mondo della comunicazione politica, fatto di avvisi, Discorsi manoscritti, libelli polemici a stampa, vere e proprie pasquinate. Per questa via, viene infine introdotta una lunga disgressione di storia istituzionale e sociale della sede vacante, che occupa tutto il quarto capitolo e che offre la possibilità all’autore di tornare sul peso politico del Collegio cardinalizio, detentore del potere in quella occasione, insieme alla nobiltà di Roma e al Campidoglio.

Il capitolo successivo ritorna all’interno del conclave, al preciso momento della scelta. Detenere le giuste informazioni, in questo, era vitale. Ma la loro utilizzazione non comportava nessun automatismo. Ci volevano grandi strategie e piccoli accorgimenti tattici, che coinvolgevano anche attori esterni, come gli ambasciatori delle maggiori corone europee. Il risultato non era però a portata di mano. Quasi mai l’elezione andò come si pensava dovesse: la mediazione è la grande protagonista del chiuso del conclave (ma vedo un unico accenno al "mediating", a p. 168). L’autore, nondimeno, non rinuncia ad enunciare una regola: si eleggono di solito papi dei cardinali favorevoli al mantenimento dello status quo, che promettono di non alterare troppo le condizioni iniziali degli attori coinvolti nella scelta.

Il sesto capitolo vede in azione il papa eletto. Lo si considera ancora bisognoso di legittimazione e di consenso fra i cardinali. Tutto, da questo punto di vista, dalla cerimonialità del possessoalla distribuzione di cariche fra i cardinali nella Curia (a partire dai parenti subito chiamati alla porpora), doveva assicurare il risultato. Ne discende una discussione sul nepotismo a Roma e sulla scarsa possibilità dei pontefici di utilizzare mezzi coercitivi per raggiungere i propri scopi, in un contesto nel quale gli appartenenti alla classe politica di riferimento, i cardinali, operavano nella direzione di garantirsi ciascuno la propria posizione, chiunque di loro fosse stato eletto. Anche la venalità degli uffici della Curia, la crescita burocratica degli apparati sia in spiritualibus, sia in temporalibus, sono considerati elementi funzionali al mantenimento del potere dell’oligarchia cardinalizia. Di conseguenza, la domanda lanciata nell’ultimo capitolo – che tipo di Stato, anzi che tipo di Stato moderno assolutista poteva nascere in un sistema politico basato su un’elettività tanto condizionata? – deve coincidere in modo quasi naturale con la spiegazione di una debolezza strutturale, costituzionale dell’edificio ecclesiastico costruito per il sovrano pontefice.  Tesi di amplissimo respiro, come si vede.

Il libro di Miles Pattenden, insomma, è scritto molto bene, con invidiabile chiarezza espositiva e ha il pregio di offrire una sintesi di una stagione di studi che ha visto la storiografia italiana in prima linea, anche con numerose traduzioni in inglese. Il dialogo con gli autori (Paolo Prodi, innanzitutto) è costante: e si segue nel testo, sia chiaro, non nelle note a piè di pagina. Inoltre, lo scavo archivistico, se non offre mai colpi di sensazionale portata innovativa, correda e sostiene in molti punti l’esposizione. Eppure, non tutto torna. Non si tratta solo di piccoli errori, come quello di vedere in Virginio Orsini di Mentana, nobile romano ben noto alla storiografia, morto ribelle nel 1597 (a ennesima riprova del fatto che il papa sapeva, eccome, ricorrere alla coercizione), un improbabile "Virginio dalla Montana ... Generale della Campagna"   (p. 122); o di sviste di medio calibro, come la mancata consapevolezza di quanto siano proseguiti gli studi sull’opzione militare nello Stato della Chiesa del Cinque e Seicento, riproponendo al loro posto stereotipi triti, come quello che recita "Popes had troops to enforce their decisions, but their numbers were limited and all of them were mercenaries" (p. 205). No, si tratta di qualcosa di più serio: l’aver attribuito alle conclusioni che man mano l’autore veniva raggiungendo il valore di generalizzazioni che avrebbero meritato molto, molto più delle 150.000 parole, che – secondo quanto affermato a p. 5 – gli erano state concesse per sviluppare la sua argomentazione. Ma questo sarebbe tema di un’altra monografia, di almeno 300.000 parole.

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