II, 2019/3

Moritz Buchner

"Warum weinen?“

Review by: Marco Meriggi

Authors: Moritz Buchner
Title: "Warum weinen?“. Eine Geschichte des Trauerns im liberalen Italien
Place: Berlin
Publisher: De Gruyter Oldenbourg
Year: 2018
ISBN: 978-3-11-059565-9
URL: link to the title

Reviewer Marco Meriggi - Università di Napoli

Citation
M. Meriggi, review of Moritz Buchner, "Warum weinen?“. Eine Geschichte des Trauerns im liberalen Italien, Berlin, De Gruyter Oldenbourg, 2018, in: ARO, II, 2019, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2019/3/warum-weinen-eine-geschichte-des-trauerns-im-liberalen-italien-marco-meriggi/

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Oggetto di questo libro è soprattutto l’Italia dei notabili, che l’autore studia a partire da una prospettiva inconsueta: quella dei rituali connessi all’esperienza della morte (altrui) e ai modi di elaborazione del lutto; un sentimento che la civiltà borghese del secondo Ottocento e del primo scorcio del Novecento tese ad addomesticare e a razionalizzare, proponendo modelli comportamentali che si distanziavano dalle esasperazioni drammatiche che continuavano invece, nella stessa epoca, a contraddistinguere le manifestazioni del dolore caratteristiche del mondo contadino, soprattutto meridionale. Queste ultime, che prendevano forma attorno a un’incerta linea di confine tra religiosità e superstizione – lungo la quale il lutto veniva fortemente drammatizzato e quasi teatralizzato in pubblico – divennero in quei decenni oggetto di studio di etnografi e antropologi, che svilupparono a partire dalla riflessione su di esse un discorso di sapore orientalista, inscrivendo d’ufficio quello del Mezzogiorno nel novero dei “popoli senza storia” e senza modernità.

Ma la linea di discrimine tra un’esperienza di rapporto con la morte e di formalizzazione del lutto di matrice secolarizzata e di impianto igienista e quella di impronta religiosa era, a ben vedere, meno netta di quanto la letteratura che la tematizzava, ispirandosi alla stella polare della scienza moderna, avrebbe voluto lasciar intendere. Nelle città borghesi si potevano, certo, neutralizzare le forme di espressione del lutto più cariche di pathos, così come si provvide, in aderenza alle nuove norme igienistiche, a ritirare precocemente le salme dall’esposizione pubblica, quasi medicalizzando anche queste. Resta tuttavia il fatto che per alleviare il dolore provocato nei sopravviventi dall’esperienza della morte di un congiunto la morale secolarizzata offriva ricette meno efficaci di quelle tradizionali di carattere compensatorio e sublimatorio ispirate alla trascendenza, che la religione era invece in grado di mettere a disposizione.

E, d’altro canto, malgrado alcune forme di espressione della religiosità popolare (del Sud) si presentassero allo sguardo distanziato della borghesia (del Nord) come pericolosamente oscillanti verso la deprecata sponda della superstizione, il notabilato che interpretò i moderni, freddi e disciplinati, rituali del lutto era a sua volta in larga prevalenza cattolico anch’esso. Fortemente ancorati ad alcune cerchie del laicato massonico, tanto il dibattito quanto soprattutto la pratica della cremazione restarono ad esempio fenomeni del tutto marginali anche negli stessi milieux secolarizzati.

Del resto, la spinta al disciplinamento delle emozioni e dei sentimenti, non meno che delle manifestazioni esteriori del dolore, impressa alle élites dalla nuova morale ispirata al razionalismo e finalizzata a garantire la perdurante vitalità di quel principio di prestazione e di operosità che l’abbandono alla disperazione avrebbe altrimenti minacciato di intaccare, entrava implicitamente in frizione con un altro dei tratti nevralgici dell’emergente mentalità borghese: il culto dell’individualismo, che, in questo contesto, poteva anche tradursi nella rivendicazione del diritto a coltivare un' intensa esperienza personale di dolore, anche a costo di deludere le aspettative efficientistiche alimentate dalla cultura secolarizzata circostante.

Per altri versi, ciò che emerge da questo studio è anche il fatto che nell’Italia liberale il lutto borghese contribuì a polarizzare ancora più che in passato le asimmetrie di genere. Spesso la donna borghese era comunque in primo luogo custode all’interno della famiglia dell’esuberanza sentimentale e dei valori religiosi e trascendenti, dai quali formalmente il suo partner coniugale prendeva le distanze in pubblico. E nella dimensione della casa le era assegnata la funzione di farsi interprete di quelle manifestazioni di dolore incontrollato e indisciplinabile che, per quanto pubblicamente disdicevoli, conservavano evidentemente intatta la propria efficacia consolatoria.

Questi sono, a mio avviso, i punti più interessanti del libro di Buchner. Molti altri sono tuttavia i temi che affiorano dalle pagine della sua densa e ben documentata ricerca, che si avvale, spesso con esiti originali, di una notevole varietà di fonti coeve: da quelle letterarie (il cui uso si rivela particolarmente efficace e suggestivo nel caso del Piccolo mondo antico  di Antonio Fogazzaro, o anche in quello della Piccola vedetta lombarda all’interno del Cuore di De Amicis) a quelle elaborate nei campi dell’etnologia, dell’antropologia, della fisiologia, della medicina igienistica, della psicologia; da quelle iconografiche a quelle diaristiche (sulla base della raccolta custodita dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano). E, ancora, ad essere opportunamente valorizzato è un vasto corpus di fonti archivistiche conservate a Bologna, Firenze, Forlì, Milano, Roma, Napoli. A scaturirne sono affondi preziosi su vari aspetti della società italiana dell’epoca, lumeggiati spesso al punto di confluenza tra ambito privato, pubblico e politico.

Dal punto di vista dell’impianto metodologico il lavoro si inserisce nel quadro delle linee di ricerca promosse dal Forschungsbereich Geschichte der Gefühle del Max-Planck-Institut für Bildungsforschung diretto da Ute Frevert; ma si può affermare che i suoi presupposti più risalenti vadano individuati nel filone di studi sulle borghesie europee dell’Ottocento attivato ormai qualche decennio fa da Jürgen Kocka e, a quanto pare, ancora suscettibile di offrire, come in questo caso, risultati innovativi. Ciò di cui si parla, infatti, è una delle modalità di irradiazione della Bürgerlichkeit.

Convincente in molte delle sue parti, lo studio di Buchner mostra tuttavia un punto debole. Un’Italia dei notabili e dei ceti medi, infatti, esisteva in quei decenni anche nel Mezzogiorno. Del suo rapporto con il lutto, così come dell’intensità delle sue eventuali strategie di distanziamento da pratiche popolari circostanti all’insegna della superstizione e del disordine sentimentale e corporeo, da questo libro veniamo a sapere poco, dal momento che esso identifica in modo forse troppo schematico e stentoreo l’emergente civiltà borghese con il Nord e il mondo contadino impregnato di religiosità superstiziosa con il Sud. Peraltro, da un allargamento della prospettiva alle borghesie del Sud potrebbe risultare ancora più rafforzata la tesi esposta dall’autore a proposito delle ambivalenze a proposito di secolarizzazione e disciplinamento del lutto caratteristiche del caso italiano.

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