Reviewer Antonio Benci - Università Ca' Foscari Venezia
CitationIl libro di Mauro Forno si occupa di un argomento piuttosto trascurato dalla storiografia contemporanea: il processo di decolonizzazione che accompagna la nascita dell’idea-concetto Terzo Mondo vissuto dal mondo missionario che era all’epoca uno dei principali corrispondenti del mondo occidentale. Questo libro è utile per chi vuole approfondire quel periodo storico e si pone all’interno del mondo ecclesiastico e missionario durante il periodo 1945-1965.
In questo ventennio si completa il processo di decolonizzazione e la missione assiste a una vera e propria trasformazione o rivoluzione basata sulla revisione dell’idea stessa di evangelizzazione. Forno insiste molto, a ragione, sul concetto di decolonizzazione della missione e addirittura, in fase di conclusioni, arriva a porsi la domanda-provocazione se la missione sia ancora una idea accettata in una Chiesa contemporanea in cui, con il rifiuto di paternalismo ed etnocentrismo, va rispettata la specificità di ogni paese e quindi la mentalità, le tradizioni e la religione pre-esistente.
Andiamo con ordine. Innanzitutto le fonti: questo saggio si avvale di tre tipologie di fonti, grossomodo. Le relazioni e le “carte” degli ordini missionari più rilevanti (Comboniani, Salesiani, Cappuccini, e Consolata) consultate negli archivi dall’autore, la stampa missionaria prevalente (che al tramonto degli anni Cinquanta arrivava a una tiratura complessiva di 800.000 copie mensili) e infine la letteratura scientifica in materia.
In fase di introduzione, ci si cala nella realtà missionaria fin dall’Ottocento e lo scopo dell’autore è dimostrare come la mentalità, la visione dell’altro, le interpretazioni e perfino i pregiudizi correnti non fossero così variati fino al 1945. L’assioma colonizzazione-evangelizzazione insomma reggeva e dimostrava come la visione di una missione civilizzatrice da parte della Chiesa tramite i propri agenti sul territorio (i missionari, per l’appunto) fosse piuttosto pacifica.
Ciò che invece emerge, ed è una dei portati di novità dell’opera, è lo scollamento tra i missionari molto refrattari al cambiamento e una Chiesa centrale che inizia a introiettare una visione più “moderna” e meno lontana dall’idea stessa di colonialismo. Le gerarchie sembrerebbero più aperte verso la comprensione della specificità di ciascun paese ma anche al clero locale, al contrario di una aliquota piuttosto consistente di missionari. Forno elenca numerosi casi in cui questa frattura è evidente, miscelando sapientemente risultanze d’archivio e stampa corrente.
L’autore sottolinea come questo non sia poi così inspiegabile dato che molti di loro si trovavano in terra di missione da molti anni, lontani dalle riflessioni teoriche che iniziavano a farsi largo in Occidente. Non va poi dimenticato che in molti casi questi sacerdoti erano stati formati nel ventennio in un clima culturale intriso di razzismo, e questo non faceva che aumentare la loro-percezione di se stessi come portatori di una civiltà superiore.
Questo è un tema cruciale nel libo, suffragato dai molti rimbalzi tra lettere dei missionari recuperati dagli archivi delle congregazioni e pubblicazioni della stampa missionaria. Il quadro che si delinea è chiaro: a partire dai primi anni Cinquanta i punti di vista tra chi lavorava sul campo (il missionario) e chi era chiamato a dettare la linea (la gerarchia ecclesiastica e/o della congregazione stessa) divergevano molto spesso e denotavano posizioni sul campo spesso irrimediabilmente ancorate alla tradizionale visione paternalistica missionaria.
Gli stessi reportages che ci arrivavano da loro, sia pure con il filtro della stampa, ci regalavano spesso delle foto tradizionali disegnate su luoghi comuni e forzatamente edificanti in cui la missione era vista come una sorta di oasi di pace e fede. Ma la realtà scandagliata tramite la ricerca di archivio di Forno, per quanto parziale e limitata ad alcune congregazioni, ci fornisce appieno i dubbi e le angosce del “micro” mondo missionario spaventato dall’abbraccio con la modernità che finiva per intaccare quel fascino misterioso ed eroico delle missioni. Una divaricazione tra immaginario e realtà che si fece particolarmente dirompente negli anni Sessanta in virtù del radicalmente mutamento socio politico in corso. La scomparsa delle colonie, il clima conciliare che portava un modo diverso di vedere “l’altro”, l’ingresso dei laici e volontari nel mondo missionario (tema in verità solo accennato nel libro di Forno), le nuove teorizzazioni sullo sviluppo che la Chiesa stessa recepì con forza a partire dalla Populorum Progressio del 1967.
Gli stessi dati delle vocazioni che indicavano un crollo delle richieste missionarie a cavallo del 1960 indicano appieno la crisi di un modello che aveva “retto” fino a pochi anni fa. Forno riflette sul fatto poi che, con le prime avvisaglie del ’68, ci furono anche altri elementi che entrarono in gioco. La critica sempre più forte di essere contigui al potere locale se non all’imperialismo non venne solo “da sinistra”, ma anche da spezzoni consistenti di quello stesso mondo cattolico che iniziava a rivedere la propria azione nel Terzo Mondo. C’è da dire – e Forno fa bene a farlo – che vi furono non pochi iniziative e segnali nel senso di una apertura alle istanze più coraggiose, come quella dei Padri Bianchi del Mozambico che decisero di “andarsene” dal Paese a causa delle intromissioni del potere, ancora fortemente caratterizzato dalla visione coloniale.
In conclusione l’impressione è che il libro di Forno sia un importante punto di partenza per sviluppare e approfondire lo studio non solo della missione, ma della Chiesa e del mondo cattolico di fronte all’irruzione del Terzo Mondo, nel pieno delle problematiche innescate dalla decolonizzazione, anche perché, come l’autore giustamente sottolinea, da qui parte la rimessa in discussione dell’intero impianto della missionarietà e della stessa opera di evangelizzazione.