Annali dell'Istituto storico italo-germanico | Jahrbuch des italienisch-deutschen historischen Instituts

40, 2014/1

Patrick Ostermann - Claudia Müller - Karl-Siegbert Rehberg (ed.)

Der Grenzraum als Erinnerungsort

Review by: Marco Mondini

Editors: Patrick Ostermann - Claudia Müller - Karl-Siegbert Rehberg
Title: Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa
Place: Bielefeld
Publisher: Transcript Verlag
Year: 2012
ISBN: 978-3-8376-2066-5

Reviewer Marco Mondini - Università di Padova- Isig

Citation
M. Mondini, review of Patrick Ostermann - Claudia Müller - Karl-Siegbert Rehberg (ed.), Der Grenzraum als Erinnerungsort. Über den Wandel zu einer postnationalen Erinnerungskultur in Europa, Bielefeld, Transcript, 2012, in: ARO, 40, 2014, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2014/1/der-grenzraum-als-erinnerungsort-uber-d-marco-mondini/

PDF

Il confine come oggetto di studio ha conosciuto negli ultimi anni una stagione felice. Sia pure con approcci assai diversi, dalla tradizionale analisi politicodiplomatica alle ricerche sulla costruzione (o la dissoluzione) delle identità nazionali, anche in Italia i confini sono tornati ad essere protagonisti del dibattito storico, soprattutto ad opera di studiosi non italiani. I contributi di Rolf Wörsdörfer (2009) e Marina Cattaruzza (2007) sul confine orientale sono eloquenti dimostrazioni di come si possa uscire dalle secche ideologiche (e a volte dai silenzi) a cui la storia delle frontiere italiane contese tra Prima e Seconda guerra mondiale era stata condannata negli ultimi decenni.

Il volume collettaneo Der Grenzraum als Erinnerugsort, curato da Patrick Ostermann, Claudia Müller e Karl-Siegbert Rehberg, si colloca in questo contesto di rinnovamento storiografico, ma al contempo propone spunti di lettura del tutto innovativi. In primo luogo, perché la dimensione della storia politica, che era stata ancora largamente preponderante nelle ricerche antecedenti (maggiormente nella monografia della Cattaruzza, meno in quello di Wörsdörfer) è pressoché completamente assente in questo volume, esplicitamente dedicato ad una storia dei confini dell’Italia nord-orientale (Trentino-Alto Adige e Trieste) nella loro funzione di teatri della memoria costruita facendo ricorso ad un armamentario ermeneutico (derivato dal dibattito attorno allo spatial turn) perlopiù sconosciuto agli storici italiani anche negli ultimi anni («Der nordostitalienische Grenzraum als Erinnerungsort», pp. 9-23). Il punto di partenza dei curatori è duplice: da un lato, i confini sono il luogo (fisico e culturale) in cui si possono osservare e ricostruire i campi di tensione tra le diverse strategie di costruzione delle identità e delle memorie collettive, dall’altro il contesto post-nazionale dell’Europa del XXI secolo permette di affrontare il dibattito sull’uso pubblico dei passati nazionali e dei santuari laici deputati a tramandarli (dai musei ai sacrari di guerra) con un minor tasso di coinvolgimento emotivo.

Si può forse avanzare qualche dubbio sul fatto che il presupposto di una depoliticizzazione dei confini sia realmente verificabile ma non c’è dubbio che i quindici autori italiani, tedeschi, austriaci, sloveni e croati che contribuiscono al volume abbiano messo insieme un catalogo ragionato e raffinato delle forme e degli spazi attraverso cui nel Novecento si è costruita l’idea pubblica del confine nazionale italiano, in conflitto (alternativamente vittorioso o perdente) con le politiche identitarie degli stati confinanti. Le quattro sezioni in cui si articola il libro sono dedicate alle linee portanti delle costruzione storiche nazionali (Claudia Müller e Patrick Ostermann sul conflitto tra «romanità» e «germanesimo» e Christiane Liermann sulle eredità di una lettura storica nazionalista nella cultura italiana attuale), alle funzioni delle strutture depositarie della costruzione e trasmissione del passato nelle province di confine (Hans Heiss e Hannes Obermair, Patrick Ostermann, sui musei storici trentini Camillo Zadra e Anna Pisetti sul Museo della Guerra di Rovereto), all’ipotesi di una difficile transizione da una cultura del ricordo nazionale ad una prospettiva «plurale» sulla storia del Novecento al confine orientale (Borut Klabjan, Jože Pirjevec, Luigi Cajani, Francesco Fait) e sulla funzione odierna dei monumenti commemorativi come luoghi di insegnamento della storia alle generazioni più giovani, e segnatamente agli studenti, in uno spettro di casi che va dalla Risiera di San Sabba a Trieste ai campi di battaglia dell’Alsazia-Lorana ai musei storici di Francoforte (Bert Pampel, Alfons Kenkmann, Tobias Arand e Christian Bunnenberg, Martin Liepach).

Il filo rosso che unisce questi saggi è, per molti versi, il tentativo di verificare il superamento delle prospettive nazionali che tra anni Venti e Trenta legittimarono l’istituzione di molti di questi laboratori memoriali (i musei della guerra e i monumenti ai caduti in primo luogo) e la loro possibile riattualizzazione come luoghi di una «nuova» memoria collettiva.

Volendo proporre una comparazione, si potrebbe pensare a Der Grenzraum als Erinnerungsort come una lettura rovesciata delle politiche della rimembranza analizzate nel periodo tra le due guerre in un fascicolo di «Memoria e Ricerca» curato da Massimo Baioni e Claudio Fogu nel 2001 (La Grande Guerra in vetrina: mostre e musei in Europa negli anni Venti e Trenta) e come un ideale punto d’arrivo della parabola delle memorie «posteroiche» elaborate dopo il 1945 sull’onda del trauma per la guerra totale e per le politiche genocidarie (The Politics of Memory in Postwar Europe, a cura di Richard N. Lebow, Wulf Kansteiner e Claudio Fogu, 2006).

Forse la maggiore perplessità sollevata da questa raccolta, peraltro molto ricca e analitica, deriva proprio dalla visione implicitamente teleologica che pare essere stata adottata dai curatori. Sulla scorta dei suggerimenti di Bernhard Giesen (Triumph and Trauma) e della sua cesura tra un’età degli eroi e una delle vittime (dopo il 1945) come protagoniste del ricordo pubblico, il saggio conclusivo di Patrick Ostermann propone un breve viaggio attraverso la cultura del ricordo dell’Italia novecentesca, scandito da una frattura rigida tra un tradizionale codice eroico, legato ad una visione nazionalista del nesso patria-passato, e una cultura post-nazionale e vittimistica che avrebbe fatto seguito alla sconfitta («Denn Heroismus sei als Teil eines nationalen kulturellen Codes nur in einer geschlossenen nationalen Kommunikationsgemeinschaft, nicht mehr in einer vernetzten globalisierten Zivilgesellschaft möglich», p. 247). Benché ispirata a ricerche molto innovative nel campo della storia culturale (tra cui i recenti lavori di Guri Schwarz sulla genesi identitaria dell’Italia repubblicana, non menzionati ma particolarmente importanti per il caso italiano), la lettura di Ostermann è eccessivamente schematica. Non solo la transizione degli anni Cinquanta e Sessanta è molto più complessa e sfumata di quanto questa e altri saggi sull’era post-militare e post-eroica (per riprendere una abusata categoria richiamata da James Sheehan nel suo celebre, ma non sempre puntuale, volume del 2008 Where have all the Soldiers Gone?) possano suggerire, ma, particolarmente nel caso italiano, è alquanto problematico sostenere che le zone di confine siano diventate per l’opinione pubblica solo i luoghi ideali di uno scambio e di un confronto compiutamente transnazionale. Come suggerisce l’attualissimo e puntuale saggio di Hans Heiss e Hannes Obermair su Bolzano negli anni Duemila (o il dibattito mai sopito sulle foibe tra anni Novanta e inizio del Duemila), i conflitti della memoria sono tutt’altro che spenti in alcune province e in alcuni segmenti della popolazione.

Subscribe to our newsletter

Partners