Annali dell'Istituto storico italo-germanico | Jahrbuch des italienisch-deutschen historischen Instituts

39, 2013/1

Christoph Dartmann

Politische Interaktion in der italienischen Stadtkommune (11.-14. Jahrhundert)

Review by: Marco Veronesi

Authors: Christoph Dartmann
Title: Politische Interaktion in der italienischen Stadtkommune (11.-14. Jahrhundert)
Place: Ostfildern
Publisher: Jan Thorbecke Verlag
Year: 2012
ISBN: 978-3-7995-4288-3

Reviewer Marco Veronesi

Citation
M. Veronesi, review of Christoph Dartmann, Politische Interaktion in der italienischen Stadtkommune (11.-14. Jahrhundert), Ostfildern, Jan Thorbecke, 2012, in: ARO, 39, 2013, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2013/1/politische-interaktion-in-der-italienisc-marco-veronesi/

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Il libro di Christoph Dartmann ci offre un ampio panorama delle forme dell’agire politico nei comuni italiani, dagli inizi, nel secolo XI, fino al primo Quattrocento. Si tratta di una tesi di abilitazione condotta a Münster, nell’ambito del «Sonderforschungsbereich» (SFB) 496, dal titolo Symbolische Kommunikation und gesellschaftliche Wertesysteme vom Mittelalter bis zur Französischen Revolution, un progetto della stessa Università di Münster. Secondo le premesse metodologiche di questo grande consorzio di ricerca, le istituzioni politiche, per quanto riguarda l’età premoderna, si costituiscono tramite delle forme specifiche, mediante un gioco elaborato di comunicazione, di rituali, di performance, un complesso dunque dell’interagire politico, che l’autore sintetizza usando il concetto di «Interaktion». Quanto ai comuni italiani, Dartmann scrive che questa «interazione politica» esprimeva nel medioevo la necessità di uno spazio di comunicazione (p. 20). Sono tre gli aspetti che Dartmann si propone di analizzare. Per prima cosa, come il linguaggio simbolico dei comuni differisse dal linguaggio simbolico ‘comune’. Secondo, cosa si possa dire sulle interazioni tra il diritto scritto, l’agire della giustizia e le forme della conflittualità che venivano elaborate con «regole di gioco» (p. 27), ossia attraverso pratiche consuetudinarie non scritte. Terzo, come si configurava il rapporto tra l’interazione politica e il piano della scrittura (o, in altri termini, come si usava lo scritto per rafforzare l’oralità), sviluppatosi rapidamente sin dagli inizi dei comuni italiani.

L’autore ha scelto i suoi oggetti di studio, tre città, considerando la diversità della stratificazione documentaria dei comuni italiani. Non ci sorprende che come esempio per il comune dell’XI secolo e degli inizi del XII ci venga proposta Milano, con la sua eccellente, precoce e anche contraddittoria tradizione storiografica. Minutamente – come lo esige il metodo da lui adoperato – l’autore ci narra, per citare alcuni esempi, le vicende di Pietro Damiani, che nei panni di legato apostolico si propose di mediare tra la chiesa ambrosiana e i patarini; ci racconta dei luoghi dove si costituirono le prime assemblee, dei modi tramite i quali esse furono convocate, dei posti in cui si collocavano i protagonisti o che gli vennero assegnati, dei discorsi che lì si tennero; ci descrive i testi prodotti e mostrati per enfatizzare oppure per dimostrare le parole pronunciate, gli atti recitati a questo scopo e infine i giuramenti formulati dai diversi protagonisti. Una simile analisi l’autore la effettua anche per le altre contiones degli stessi anni, concludendo, tra altro, che le forme simbolico-istituzionali si distinguevano per una grande instabilità e potenzialità («große Offenheit», p. 75). Di fatto, allora, poiché non era stato possibile collegarsi alle forme politico-istituzionali dell’era precomunale, fondate sul ‘consenso’, si lasciò ancora aperto un ulteriore sviluppo istituzionale del comune. Anche la pratica della scrittura era piuttosto episodica, legata com’era ad alcune specifiche situazioni e non ancora dipendente da schemi preesistenti e codificati. Seguendo l’autore sul filo della narrazione dell’agire politico-simbolico si pone però al lettore una domanda: non esiste forse il problema, seguendo alla lettera la narrazione dei cronisti e degli annalisti medievali, che in alcuni casi essi stessi abbiano tratteggiato gli eventi a proprio piacimento? Non siamo forse in presenza, molto spesso, di grandi narrazioni appositamente messe in scena?

Genova serve come esempio del comune del secolo XII, in quanto la storiografia si può ormai avvalere, per questo periodo, di molte fonti di carattere docu- mentario. La prospettiva rimane la stessa del capitolo precedente: sono ancora una volta presentate le forme e i luoghi dei giuramenti, nel caso di Genova anzitutto i brevi dei consoli, e poi anche le trattative con le città sottoposte, come Ventimiglia, e con i poteri più distanti, quali Pisa e Lucca. A differenza del caso di Milano, per Genova è anche possibile rintracciare l’agire dei consoli come giurisdizione suprema e quella di altre istituzioni giusdicenti, prima fra tutte la curia arciepiscopale. Anche qui non è possibile riferire i risultati in dettaglio. Diventa molto chiaro comunque, per cogliere forse il punto centrale delle conclusioni di Dartmann, che benché ci troviamo ormai in una fase di vera e propria ‘istituzionalizzazione’, di «atti iterativi» (pp. 16 e 122), i consoli dovevano limitarsi spesso al ruolo di mediatori e conciliatori. Possiamo senz’altro dire che questo capitolo (di ben 170 pagine), costituisce un’analisi profonda ed utilissima della Genova del XII secolo.

Il Trecento e il primo Quattrocento vengono rappresentati dal caso di Firenze, con qualche sguardo ad altre città, come Volterra o Perugia. Siamo qui nella piena età dei rituali politici, nel senso che questi rituali erano ormai saldamente funzionanti. Con gli statuti comunali, scrive Dartmann, «il campo centrale dell’agire politico fu trasposto in modo conseguente sul ‘medium’ nuovo della scrittura» (p. 338), promosso anzitutto dall’istituzione del podestà. Siamo però anche nell’età della sfrenata violenza nei luoghi pubblici, dei tumulti, contro i quali il comune cercava spesso con molto impegno, ma non sempre con altrettanto successo, di opporre le milizie, ma anche, per esempio, il processo criminale ex officio. Che il comune avesse il suo ruolo più forte di ‘pacificatore’ tra le parti – ghibellini, guelfi, popolo, ma anche tra le parti civili in cause molto più piccole – l’autore non lo può confermare: il compromesso, emerso spesso solo alla fine di penose trattative, e il consenso, «esibito con tanta fatica», rimasero spesso episodi isolati. Vale qui come in tante altre pagine del libro, la considerazione che certamente non veniamo sempre a sapere delle novità, e che spesso la narrazione di Dartmann non si distingue molto dalle narrazioni di una storiografia d’impronta tradizionale. Il suo libro ci offre comunque una prospettiva nuova ed un’analisi profonda della politica dei comuni italiani del medioevo.

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