Reviewer Cristiana Antonelli - Università di Firenze
CitationNell’immaginario comune, il ruolo che l’arte ricopre all’interno della società non è sempre immediato ed è legittimo domandarsi se sia una fonte di benefici meramente estetici o possa (anche) costituire il terreno fertile per un cambiamento profondo. L’alfabetizzazione e la divulgazione rivolta a un pubblico non specializzato, il ragionare sulla creazione e sulla conservazione di un’opera, invitare l’occhio degli amatori a riconoscere certi paradigmi, andare oltre le narrazioni tradizionali: in estrema sintesi, questi sono stati i propositi, il motore del coinvolgimento degli storici dell’arte nelle vicende editoriali italiane della seconda metà del Novecento. Impossibilitato a coprire una landa storiografica potenzialmente infinita, il volume curato da Paolo Soddu e Franca Varallo aggrega le ricostruzioni delle esperienze più rilevanti e – soprattutto – dei dietro le quinte che portarono alla pubblicazione o al naufragio di certe proposte, all’ingaggio di alcuni intellettuali e all’esclusione di altri. Per l’ampiezza del tema e l’abbondanza delle notizie, l’indagine proposta è un ideale luogo di spunti e di confronti. L’organizzazione in quattro sezioni non impedisce infatti di rintracciare le tangenze tra i vari contributi: non di rado, questi dialogano, si compenetrano e, fornendo ciascuno la propria tessera del mosaico, ambiscono a restituire una panoramica più esaustiva possibile di quasi mezzo secolo di cultura editoriale italiana. L’unico riferimento “oltreoceano” è quello all’attività di Joan Merli, spagnolo esiliato durante il regime franchista, e alla sua rivista «Poseidón», ponte tra l’Argentina e l’eredità visuale del Vecchio Continente. L’affaccio concessoci da J.L. de la Nuez Santana può senz’altro sollecitare a riflettere con la stessa attenzione su analoghe vicende legate a personalità nostrane.
La raccolta è inaugurata dalla disamina di A. Ferrando sul complesso passaggio tra regime fascista e prima Repubblica, sulle strutture culturali che sono sopravvissute e quelle che invece hanno finito per soccombere. L’ultima parte è invece interamente dedicata alla casa editrice di Giulio Einaudi, con i pregevoli contributi di E. Pellegrini su Carlo Ludovico Ragghianti, di L.P. Nicoletti su Francesco Arcangeli, V. Russo su Paolo Fossati, F. Bonariva su Lamberto Vitali, C. Marraccini su Ranuccio Bianchi Bandinelli. In realtà, proprio per la centralità che ebbe nel contesto nazionale, la società torinese compare più volte nel volume, a partire dall’analisi di D.A. Grippa, che ripercorre la nodale transizione dalla linea azionista di Chabod-Venturi a quella di Vivanti-Romano, vale a dire dal proposito di fare informazione a quello della formazione, con una visione più affine alle istanze culturali del PCI. Un cambio di paradigma che sul fronte delle arti visive corse parallelo all’esaurirsi dell’influenza ragghiantiana in Einaudi nel corso degli anni Cinquanta, in favore prima di Argan e poi di Castelnuovo, entrambi indirizzati verso un superamento dell’idealismo crociano e dell’estetica purovisibilista. Di Giulio Carlo Argan, il saggio di C. Gamba offre una prima anticipazione dell’esperienza al fianco di Alberto Mondadori nelle neonate edizioni de Il Saggiatore, contraddistinta da un deciso impegno per la modernità (nei temi, negli apparati, nella qualità editoriale). Di Enrico Castelnuovo, invece, M. Testa evidenzia il nesso tra il coinvolgimento giovanile nella compilazione di voci enciclopediche e la pubblicazione nel 1960 di Civiltà nell’arte nella collana AZ Panorama di Zanichelli, esemplare compendio dedicato principalmente a un pubblico in età scolare.
Su un piano ideologico, alcuni episodi poi si dimostrano più significativi di altri. Tra i numerosi evocati nel volume, ci si limita a ricordare l’approfondimento di J. Cooke sulla pubblicazione per Einaudi di Florentine Painting di Frederick Antal, testo che, prima di divenire una tappa decisiva sul binario della storia dell’arte sociale, fu una vera e propria “patata bollente” sulla scrivania di Ragghianti. La collocazione nella collana Saggi è appunto da additare all’ostruzionismo del consulente lucchese, la cui forma mentis emerge d’altronde nel saggio di A. Ducci (generoso per la quantità di informazioni e di riproduzioni di materiali d’archivio) sull’articolata elaborazione de L’Arte in Italia. Per insufficienza di risorse economiche, e infine anche di fiducia, della serie videro la luce, per Gherardo Casini Editore, solo due dei dieci volumi programmati. Anche Storia della pittura italiana – la cui vicenda è analizzata da A. Auf der Heyde – rimase incompleta; ed è indicativo come, nell’ambizione di fare cultura per la massa, l’iniziativa di Editori Riuniti (con Roberto Longhi direttore e Antonio Del Guercio segretario) venisse di fatto soppiantata dal successo di letture meno scrupolose ma di più agile consultazione, ovvero le collane Fabbri dedicate alle arti figurative. Peraltro, quella sulle cause del “non pubblicato” è un’interessante riflessione sollecitata anche da altri contributi; in primis, quello di M. Ghelardi sull’incapacità di portare in Italia il pensiero di Aby Warburg – se non per il tramite degli allievi del suo Istituto – e quello di L. Not sul parallelo interesse di Einaudi e Feltrinelli per gli scritti di Erwin Panofky.
Certi approfondimenti hanno inoltre il merito di bilanciare almeno in parte gli squilibri “territoriali” del volume, e in generale di provare a riempire alcuni vuoti fisiologici che hanno contraddistinto la storiografia di settore sul Meridione. Tra questi, l’affondo di G. Cipolla su Leonardo Sciascia a capo della rivista nissena «Galleria» e quello di S. Zuliani sulle raffinate proposte di Filiberto Menna per la valorizzazione delle esperienze d’avanguardia, con le edizioni romane Officina e Kappa, ma anche con Marcello Rumma a Napoli e infine con le 10/17 di Salerno. Ma è soprattutto il saggio di A. Trotta a illuminare sulle coordinate politiche e culturali che resero possibile la pubblicazione – nel 1978, ancora per Einaudi – di Pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame di Giovanni Previtali, uno studio finalmente ampio e rigoroso anche a livello iconografico.
Trasversale alla maggior parte delle realtà citate (dalle medie alle più consolidate, da nord a sud) era la consapevolezza che la strada verso la modernizzazione passasse necessariamente da progetti scrupolosi; di qui, l’attenzione rivolta alla creazione delle collane, reali bussole della visione di una casa editrice. In questo scenario i denominatori comuni erano il rigore degli studi e la qualità delle pubblicazioni, l’ampliamento degli orizzonti tematici e cronologici, l’ambizione alla trasmissione della complessità e al potenziamento del senso critico; non ultimo, un impegno civile latamente antifascista. Emblematica e riassuntiva di quanto riepilogato finora è la vicenda della Biblioteca di cultura ricostruita da G. Tomasella: per quanto la collaborazione di Neri Pozza con Ragghianti e Licisco Magagnato (sua l’immagine in copertina del volume) non ebbe seguito, il progetto dimostra come – almeno nel secolo scorso – il proposito di fare una seria divulgazione dovesse scaturire da una prospettiva condivisa e di lungo raggio, da un sodalizio che fosse pure umano e intellettuale.
Leggendo Editoria e storici dell’arte, il margine per alcune osservazioni sull’oggi è molto ampio. Senza cedere alla nostalgia per una levatura morale che sembra non aver attraversato il millennio, certi aspetti della storia editoriale del Novecento possono essere ancora adattati al contesto contemporaneo, dove tecnologie informatiche e immersive costituiscono oramai i moduli dominanti anche dell’esperienza culturale. In questo senso, l’educazione alle arti visive – a cui dovrebbe tornare a essere corrisposta una fiducia almeno pari a quella delle vicende citate – può offrirsi come un vessillo di resistenza di fronte al generale disorientamento causato dalla smaterializzazione e sovrabbondanza di immagini nell’era digitale.