Reviewer Francesca Brunet - Centro di Storia regionale, Bressanone
CitationIl bel libro di Paola Trevisan ricostruisce una storia che va ben oltre i limiti cronologici suggeriti nel titolo. Se la persecuzione degli “zingari” durante il fascismo è l’oggetto precipuo dello studio, essa è collocata all’interno di una tendenza di lungo periodo, che viene fatta risalire all’Italia postunitaria – con qualche accenno all’età moderna – e la cui ombra lunga si estende fino ai giorni nostri.
Si tratta di un campo di ricerca finora quasi del tutto inesplorato. In questo senso, l’autrice va a colmare un vuoto storiografico che appare quasi sorprendente, specialmente se allarghiamo lo sguardo all’Europa centrale e occidentale, dove da decenni storici e storiche – pur in modo diseguale e intermittente – si occupano delle persecuzioni di rom, sinti e jenisch in periodo nazista, e più in generale delle politiche “antizingare” messe in atto tra Otto e Novecento soprattutto in Germania, in Austria-Ungheria, in Svizzera, in Francia.
A differenza di quanto avvenne altrove – pensiamo al censimento dei Bohémiens francesi, al “registro degli Zingari” svizzero, al famigerato Zigeunerbuch bavarese, o alla compilazione delle liste degli heimatberechtigte Zigeuner (“zingari” con diritto di incolato) austriaci, operazioni tutte condotte tra la fine del XIX secolo e i primi anni del secolo successivo –, in Italia non vi fu un pregresso sistema di identificazione centralizzato degli “zingari” presenti sul territorio nazionale. Mancò inoltre, come del resto in altri paesi europei, una vera e propria definizione poliziesca e amministrativa esplicitamente riferita allo “zingaro”, il cui profilo era di fatto incluso nell’ampia categoria dei “vagabondi”. D’altra parte, i governi dell’Italia liberale negarono per molto tempo l’esistenza stessa di “zingari” italiani, ammettendo esclusivamente quella degli “zingari stranieri” da un lato, e di “saltimbanchi girovaghi” di nazionalità italiana, ma non zingari, dall’altro. Ciò rispondeva, sostiene Trevisan, ad una vera e propria strategia, volta sia a respingere alle frontiere, senza eccezioni, persone indesiderate, contro le pressioni e le speculari politiche di espulsione degli stati confinanti; sia ad evitare in ogni caso di naturalizzare gli “zingari” di nazionalità incerta. Allo stesso tempo, la dicotomia tra “zingari stranieri” e “saltimbanchi italiani” diede per un certo periodo ai rom e ai sinti che vivevano stabilmente in Italia, molti dei quali tradizionalmente impiegati in mestieri di spettacolo itineranti, un certo margine di movimento e la possibilità di sottrarsi, almeno in parte, alle maglie della polizia e delle disposizioni antivagabondaggio.
Nel primo dopoguerra una politica di esclusione particolarmente rigida, e spesso illegittima, venne deliberatamente esercitata contro i rom e i sinti dei territori austriaci annessi all’Italia dopo il conflitto mondiale – Litorale adriatico e Tirolo meridionale, ridenominati Venezia Giulia e Venezia Tridentina. Mentre l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli ex sudditi austriaci che abitavano in queste province venne regolata da specifici decreti legge, tale passaggio fu attivamente osteggiato nel caso di persone identificate come “zingare”, che rimasero in una condizione di sospensione giuridica.
Sono queste, dunque, le premesse e il contesto istituzionale nel quale vennero innestate le misure repressive attuate contro rom e sinti dallo Stato fascista. Nel caso di “zingari stranieri” o presunti tali, si continuò con le espulsioni e i respingimenti alla frontiera: se in una prima fase questi avvennero di fatto senza sostanziali soluzioni di continuità con i governi liberali, dalla fine degli anni Venti si avverte un primo scarto nel modo in cui gli “zingari” venivano percepiti. Il linguaggio delle circolari che disponevano tali misure riverbera infatti la parallela radicalizzazione della lotta agli oppositori politici, per cui gli “zingari”, sospettati in virtù della loro mobilità di fare propaganda comunista al soldo dalla III Internazionale, cominciarono ad essere considerati non più solo come un problema afferente alla pubblica sicurezza, ma anche come potenziali nemici politici.
Dalla fine degli anni Trenta, i carteggi delle autorità centrali e periferiche coinvolte nell’applicazione delle politiche “antizingare” segnalano un passaggio ancor più significativo: ammettendo l’esistenza di “zingari di nazionalità italiana certa o presunta”, venne chiesto ai prefetti di segnalarne il numero per ogni provincia. I dati quantitativi raccolti, pur decisamente sottostimanti la reale presenza di rom e sinti sul territorio italiano, allarmarono le autorità di polizia: a farne le spese furono specialmente le famiglie “zingare” delle nuove province di confine che, ritenute particolarmente pericolose proprio per la loro dubbia “italianità”, vennero mandate al confino nel centro-sud della penisola.
Lo scoppio del conflitto mondiale esasperò le politiche di controllo e repressione contro chiunque potesse rappresentare una minaccia per la nazione. Diversi furono i destini dei rom e dei sinti che si trovavano in Italia o nei territori occupati dal regio esercito. Molti di loro, sospettati di spionaggio o in generale di azioni antinazionali (specialmente stranieri e giuliani), furono internati nelle colonie confinarie e in campi di concentramento: quelli di Boiano ed Agnone, in provincia di Campobasso, e di Tossicia in provincia di Teramo vennero riservati specificamente agli “zingari”, anche per le condizioni pessime in cui, in particolare il primo e il terzo, versavano. Altri rom e sinti di nazionalità italiana – prevalentemente “girovaghi” privi di domicilio stabile – vennero concentrati in piccole località di internamento organizzate su base provinciale, con sussidi del tutto insufficienti al sostentamento di intere famiglie con numerosi minori. La già ricordata assenza di una categoria amministrativa univoca fece sì che tali misure venissero applicate in modo parziale e, soprattutto, disomogeneo da un luogo all’altro: le famiglie rom del centro-sud Italia, di più antico insediamento, che a quell’altezza cronologica conducevano una vita stanziale o semi-stanziale ed erano pertanto meno rispondenti allo stereotipo dello “zingaro girovago”, furono complessivamente risparmiate dalle politiche persecutorie fasciste.
Drammatica fu la situazione dei rom e dei sinti dei territori jugoslavi invasi dagli eserciti dell’Asse nella primavera del 1941, alcuni dei quali (Slovenia sud-occidentale e parte della costa dalmata) passati sotto il controllo dall’esercito italiano. I rom della provincia di Lubiana, in particolare, si trovarono letteralmente tra due fuochi: molti furono vittime degli eccidi perpetrati dalle forze partigiane, che li accusavano di essere spie al soldo degli italiani; altri vennero invece internati nel campo di concentramento di Arbe (isola di Rab), destinato agli sloveni e ai croati sospettati di far parte di formazioni partigiane, o in altri campi di concentramento gestiti dal regio esercito, dove i detenuti erano costretti a condizioni di vita durissime. Infine, alcuni rom e sinti che si trovavano nella Zona di Operazione del Litorale Adriatico, annessa al Reich dopo l’8 settembre 1943, furono deportati nei campi di concentramento nazisti. Il numero relativamente basso di persone che subirono questa sorte, al netto dell’estrema frammentarietà delle fonti disponibili che permettono di ricostruire solo parzialmente nomi e percorsi concentrazionari, è dovuto al fatto che in quel momento la maggioranza degli “zingari” di quelle province era già stata forzatamente allontanata.
L’ultimo capitolo getta uno sguardo sul modo in cui, dalla fine della Seconda guerra mondiale, lo Stato italiano ha agito (ed agisce) nei confronti degli “zingari”. Le vicende sia di quelli provenienti dai territori ex italiani ceduti alla Jugoslavia con gli accordi di pace, sia di quelli italiani – ridenominati “nomadi” –, mostrano il perpetuarsi di una tendenza alla disapplicazione nei fatti del diritto alla cittadinanza, e dei pieni diritti legati a quest’ultima, da parte dello Stato italiano nei confronti di alcuni gruppi sociali. In questo, così come nell’indeterminatezza giuridica di entrambe le categorie di “zingaro” e “nomade” e nel loro utilizzo funzionale all’applicazione di misure preventive di pubblica sicurezza, l’autrice ravvisa una linea di continuità tra stato fascista e stato democratico. Sarebbe proprio tale “trattamento differenziale” attuato dalle istituzioni ed accettato da ampia parte della società ad aver ostacolato l’emersione, al di fuori della comunità romanì, di una memoria condivisa delle persecuzioni subite da rom e sinti durante il Ventennio fascista, e ad aver gettato un persistente velo di silenzio su un pezzo doloroso di storia italiana: una storia che Trevisan ricostruisce in questo libro importante ed atteso, nel quale sono messi a frutto, con sensibilità e competenza scientifica, anni di ricerca rigorosa e appassionata.