Reviewer Cristiano La Lumia - Scuola Superiore Meridionale, Napoli
Citation«Dobbiamo esportare». Questo era l’invito perentorio che il successore di Otto von Bismarck alla guida del governo tedesco, il cancelliere Leo von Caprivi, rivolse ai deputati riuniti nell’aula del Reichstag alla fine del 1891. In quel momento, la Germania era uno Stato unificato da appena venti anni che, pur essendo in forte ascesa anche sul piano economico, era in costante deficit commerciale. Quasi un secolo dopo, nel 1986, la Repubblica federale tedesca fece registrare un record senza precedenti nella sua storia: il paese era diventato il principale esportatore di beni al mondo, superando gli Stati Uniti. Dopo aver bissato quel record una seconda volta nel 2009, oggi, con l’equivalente di oltre mille e cinquecento miliardi di euro di merci esportate, la Germania riunificata si colloca al terzo posto nella classifica mondiale dei principali paesi esportatori, dopo Cina e Stati Uniti. Attualmente, quasi metà del suo Prodotto interno lordo e un quarto dei posti di lavoro dipendono dal commercio estero. Si può riassumere così il risultato dell’“ossessione” per l’export della politica e dell’economia tedesche. Nonostante due guerre mondiali perse e l’avvicendarsi di regimi molto diversi tra loro, nel giro di pochi decenni, la Germania è riuscita a centrare un obiettivo molto ambizioso. Perché l’export è stato così importante nella storia tedesca? Come si è giunti a questo risultato? Quali sono stati i fattori? E quali gli effetti? Sono queste alcune delle domande a cui il recente saggio di Jan-Otmar Hesse, storico economico dell’università di Bayreuth, cerca di dare una risposta.
Combinando l’approccio storico-economico con la business history e la storia politica, l’autore getta luce su un aspetto cruciale della storia economica tedesca come la capacità dell’industria di adattarsi ai mutamenti economici globali nel corso degli ultimi centotrenta anni. C’è di più. Il saggio è soprattutto il tentativo di ricostruire le ragioni e le implicazioni, anche in politica interna, dell’“ossessione” per l’export, dall’età guglielmina fino ai giorni nostri. Uno dei meriti principali del saggio, infatti, è quello di valorizzare la dimensione propriamente politica delle scelte compiute dalle classi dirigenti tedesche – con l’unica eccezione di quella tedesco-orientale tra 1949 e 1989 – in accordo con un pezzo importante delle élites industriali del paese in materia di promozione del commercio estero. Non a caso, una delle parole chiave usate dall'autore per comprendere queste dinamiche è Auβenwirtschaftspolitik, che potremmo tradurre con «politica estera economica».
Che la storia dello stato e del nazionalismo tedeschi siano stati caratterizzati dal «primato della politica economica», e degli affari, non è una tesi nuova tra gli storici. Ciò che Hesse chiarisce è che questa politica economica ha avuto come obiettivo fondamentale quello di fare della Germania l’Exportweltmeister, il campione mondiale dell’export. Infatti, promuovere l’export ha rappresentato la strategia economico-politica di lungo corso per rendere il paese competitivo sul mercato globale e accrescerne l’influenza politica. Secondo i tanti sostenitori della scelta di rendere l’economia tedesca orientata all’esportazione, soltanto questa ricetta avrebbe garantito benessere e solidità alla Germania.
Il saggio si articola in cinque capitoli. Dopo una sintetica panoramica delle principali teorie economiche sul commercio estero nel primo capitolo, nel secondo fornisce una ricostruzione di lungo periodo delle principali caratteristiche dell’export tedesco dal 1871 a oggi: statistiche sul commercio estero, struttura regionale e merceologica, investimenti esteri diretti. Nel terzo capitolo si sofferma sul periodo che va dalla fondazione dell’Impero tedesco alla fine della Seconda guerra mondiale. Hesse mette in risalto come l’esigenza di esportare si legasse al dibattito interno tra protezionisti e liberisti che infiammò la politica e l’opinione pubblica tedesche a partire dalla fine dell’Ottocento. Già alla vigilia della Grande guerra, pur registrando un costante deficit della sua bilancia commerciale, la Germania guglielmina era divenuta la seconda potenza economica globale, dopo la Gran Bretagna, per livello di esportazione e investimenti esteri diretti. Proprio in quegli anni emerse anche quel gruppo di aziende che sarebbero state protagoniste nell’indirizzare la politica tedesca al sostegno dell’export (e, quindi, dei loro interessi).
Come sottolinea l’autore, però, sarebbe stata soprattutto la classe politica della Repubblica di Weimar a puntare decisamente sul commercio estero come strategia chiave per la ricostruzione del paese dopo la sconfitta. A tale scopo, la repubblica tedesca ricorse a vari strumenti, anche innovativi: una diplomazia più attenta agli interessi economici tedeschi all’estero, politiche monetarie spregiudicate (anche favorendo l’iperinflazione nei primi anni Venti) e un corposo programma di aiuti statali alle imprese esportatrici. Malgrado le enormi difficoltà dell’economia mondiale negli anni Trenta, anche il regime nazista, a cominciare da Hitler stesso, pose il rilancio dell’export tra le sue priorità. Che la forza politica più autarchica, nazionalista e illiberale della storia tedesca avesse fatto proprio l’invito a puntare sul commercio estero è la prova del successo di un modello economico orientato all’esportazione.
Nei due capitoli successivi, Hesse esamina più da vicino le politiche perseguite dalla Repubblica federale tedesca dal 1949 in avanti. Decisivo è stato il ruolo di Ludwig Erhard – ministro dell’Economia di Adenauer e poi suo successore alla guida del governo – nel dare continuità alle politiche di promozione dell’esportazione. Malgrado gli sforzi dell’economista di “depoliticizzare” il commercio estero, la politica tedesca postbellica restò ancorata al raggiungimento di quello che era considerato dalla classe dirigente il «nostro destino» (p. 185): fare della Germania «l’officina del mondo» (p. 145) per ricostruirne la potenza politica e assicurarne il benessere. I risultati non tardarono ad arrivare. Dal 1952 in avanti, la bilancia commerciale sarebbe stata quasi sempre in positivo e l’industria tedesca avrebbe rapidamente scalato le vette dell’economia mondiale.
Attraverso le lenti della politica volta a promuovere l’esportazione, l’autore fornisce una spiegazione convincente delle scelte in materia monetaria e del sostegno al mercato comune europeo, così come della Ostpolitik lanciata da Willy Brandt, che per primo gettò le basi della strategia del «cambiamento attraverso il commercio» (Wandel durch Handel) nei confronti del blocco socialista. Infine, nella parte conclusiva, sottolinea come anche nella stagione della globalizzazione post-1989 la ricetta di puntare sull’export sia stata vincente per i principali gruppi industriali del paese. L’apertura dei mercati dell’ex-blocco sovietico, a cominciare dall’ex-DDR, e i bassi salari sono state le ragioni dei notevoli risultati raggiunti dalla Germania in materia di commercio estero dagli anni Novanta in poi. In seguito, la crisi dell’eurozona, se da un lato ha messo in evidenza gli effetti distorsivi e nocivi delle politiche commerciali della Germania sul resto del continente europeo, è stata anche l’occasione per la leadership tedesca di imporre agli altri paesi dell’Unione europea un modello di sviluppo basato su austerità finanziaria, compressione di salari e consumi, crescita delle esportazioni.
Tra i tanti elementi messi in risalto nel libro, merita di essere sottolineata la rilettura critica del liberalismo dei governi tedeschi, da Weimar in avanti, i quali hanno spesso sostenuto politiche di liberalizzazione e apertura dei mercati a livello internazionale. Due sono le precisazioni fatte. In primo luogo, questo liberalismo, specie dal 1949 in poi, è stato fortemente selettivo. Alla richiesta di liberalizzare il commercio internazionale dei prodotti finiti, spesso i governi tedeschi hanno sostenuto politiche protezioniste in altri settori (come quelle europee in campo agricolo). Ciò porta al secondo ingrediente fondamentale del liberalismo tedesco. La scelta di abbracciare il credo liberale non è stata l’esito di una genuina adesione a dei principi ideali in nome della difesa del mercato tout court, come ha sostenuto Quinn Slobodian nel suo Globalists, ma il frutto di un calcolo ponderato e consapevole di quale fosse lo strumento più adatto all’interesse nazionale tedesco.
Oltre ai molti meriti, il saggio presenta qualche limite. Hesse avrebbe potuto rimarcare con maggiore forza – anche con l’ausilio di qualche dato in più – gli effetti sociali regressivi provocati dalla scelta di diventare i campioni dell’export mondiale, come la compressione di salari reali e consumi o la debolezza del mercato interno. Nondimeno, quello di Hesse resta un lavoro prezioso e utile da cui partire per sviluppare nuove ricerche in futuro. Il volume, infine, può interessare anche il lettore italiano, che vi potrebbe ravvisare non pochi spunti per approfondire e comprendere le scelte che la classe dirigente italiana ha intrapreso, nella seconda metà del Novecento o negli anni dell’austerità post-2011, per promuovere l’export italiano nel mondo e le conseguenze che ciò ha provocato.