Reviewer Andrea Martini - Università di Padova
CitationIl libro di Paolo Caroli rappresenta uno degli esiti di una rinnovata, per certi versi senza precedenti, attenzione delle scienze umane nei riguardi della transizione italiana o, per essere più specifici, dei provvedimenti messi in atto all’indomani della seconda guerra mondiale per sanzionare fascisti e collaborazionisti. La maggior parte di questi studi si è concentrata sull’attività delle Corti d’assise straordinarie (Cas), organi di giustizia preposti dal III governo Bonomi su sollecitazione degli Alleati per defascistizzare il Paese e operanti su scala provinciale. Abbondano dunque lavori su scala locale o, al più, regionale. Meno frequentata è la scelta di condurre un’analisi a livello nazionale, orientamento per cui invece opta l’autore di Transitional Justice in Italy e questa è una delle ragioni che contribuisce a rendere peculiare il lavoro di Caroli.
Non si tratta però di un libro di sintesi. Se nella prima parte lo studioso fornisce al pubblico internazionale cui si rivolge tutte le coordinate necessarie per meglio orientarsi nella complessa transizione italiana, nelle due sezioni successive Caroli analizza criticamente la stessa transizione e si interroga sulle eredità di quest’ultima, su come, cioè, le misure varate (così come quelle che si preferì non attuare) abbiano avuto un peso sul più ampio e articolato processo di resa dei conti con il fascismo.
Nucleo centrale del libro è la cosiddetta amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 che ha rappresentato un «colpo di spugna» sui crimini fascisti (Franzinelli, 2006). L’abbondanza di fonti archivistiche cui Mimmo Franzinelli aveva attinto in un suo testo di riferimento sull’argomento unita alla chiarezza espositiva di quel lavoro hanno indotto, forse a torto, gli studiosi a considerare il nodo dell’amnistia una pagina nota della storia nazionale. Non nel caso di Caroli però, del resto l’autore – ricercatore esperto di diritto penale e di giustizia di transizione – dispone di una cassetta degli attrezzi e di categorie alternative a quelle degli storici quindi ha guardato all’amnistia e, più in generale, alla defascistizzazione con una postura differente.
Attorno a un tema in cui a lungo è prevalso un giudizio liquidatorio – l’epurazione fu un fallimento, manifestazione evidente di come la Resistenza sia stata “tradita” – Caroli cerca di individuare diversi livelli entro cui inserire tale nodo della storia italiana, livelli che non sarebbero concepibili – o lo sarebbero in maniera assai meno scontata – se a monte non ci fosse un confronto con gli studi prodotti in seno a questo campo interdisciplinare chiamato transitional justice studies. In altri termini, guardando al dibattito interno a questo ambito – che si interroga, ad esempio, sul valore pedagogico delle misure retributive, piuttosto che sull’importanza dell’oblio e della rimozione nelle transizioni – non sorge spontaneo interrogarsi soltanto su quanto severa sia stata la magistratura italiana al cospetto dei crimini perpetrati dai fascisti e dai collaborazionisti, ma anche su quanto le Cas abbiano favorito il ristabilimento dell’ordine pubblico e abbiano partecipato a un consolidamento della verità.
Secondo Caroli, la transizione italiana ha avuto diverse falle, su tutte quelle di non perseguire i crimini perpetrati dai tedeschi tra il 1943 e il 1945 come sorta di moneta di scambio che prevedeva l’assicurazione dell’impunità dei propri criminali di guerra (p. 89). Fu un atto di barbarie – a tal riguardo l’autore è piuttosto netto – perché si optò deliberatamente per non fare giustizia. Secondo Caroli comunque i limiti della defascistizzazione sono da imputare tanto ai legislatori quanto alla magistratura, quest’ultima ancora troppo legata al precedente regime. Proprio per via della difficoltà ad assicurarsi una cesura netta con il passato, l’Italia – prosegue lo studioso – sarebbe stata «genuinamente» inadatta a perseguire i crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale e l’intero Ventennio, un’incapacità cui si affiancò una mancanza di volontà almeno in un primo torno di tempo (p. 240). Tale transizione si rivelò perciò assai negativa in termini di capacità di coinvolgere la parte lesa, dunque quell’ampia fetta della cittadinanza che direttamente o indirettamente aveva subito le conseguenze dei soprusi e delle violenze nazifasciste, e di ricostruzione della verità. Viceversa, si rivelò efficace nel favorire una rinnovata stabilità politica, quindi, in senso più ampio, un rafforzamento della cultura democratica, aspetto tutt’altro che da sottovalutare.
Ai limiti della transizione italiana, suggerisce infine Caroli, si poteva comunque porre rimedio. Sarebbe stato sufficiente applicare delle misure che, ad esempio, cercassero di compensare, nei limiti del possibile, le sofferenze patite dagli ebrei e di affrontare il nodo delle sottrazioni dei beni ebraici. Ma le difficoltà sul lungo periodo del paradigma antifascista a imporsi ha fatto sì che ai limiti, che caratterizzarono il periodo della transizione italiana, non seguisse in anni più recenti un’inversione di tendenza.
Per concludere, appare chiaro come il libro di Caroli – per scala d’analisi adoperata, desiderio di ritornare sul nodo dell’amnistia e dialogo con i transitional justice studies – si collochi in maniera peculiare nell’ampio ventaglio di pubblicazioni degli ultimi anni dedicati all’argomento. Tra tutti gli aspetti che rendono originale questo lavoro e che meritano di essere evidenziati, mi preme dedicare un’ultima riflessione alla propensione dell’autore a confrontare il caso studio italiano con altri scenari geografici e orizzonti cronologici. Negli ultimi anni, per lo meno nell’ambito storico, la comparazione ha patito una parziale battuta di arresto, a favore di una predilezione per un approccio di tipo transnazionale. Del resto, a frenare le comparazioni è la difficoltà obiettiva di mettere a confronto casi studio diversi e cronologie differenti. Caroli, tuttavia, se da una parte conferma come guardare ad altri casi studio – il Sud Africa, la Spagna, l’America Latina e la Germania sono gli orizzonti prediletti dallo studioso (meno, purtroppo, il caso francese, coevo a quello italiano) – possa risultare un’operazione delicata, dall’altra ci consente di riflettere su orizzonti di possibilità “altri” rispetto a quelli dispiegatisi in Italia. Così facendo, lo studioso impedisce una sorta di lettura teleologica della transizione e permette poi di collocare "finalmente" il caso italiano all’interno di una più ampia produzione di studi dedicata al nodo della transizione.