Reviewer Umberto Cecchinato - Università di Trento | FBK-ISIG
CitationDal Cinquecento per quasi trecento anni, ogni sabato, un gruppo consistente di ebrei romani fu costretto a recarsi dal ghetto all’oratorio della chiesa di Santa Trinità per assistere a un sermone che li incitava a convertirsi, confutando un passo del Talmud e dimostrando la superiorità della religione cristiana. Assistevano allo spettacolo anche gli alti prelati, alcuni ebrei convertiti e molti romani e viaggiatori stranieri. Emily Michelson getta nuova luce sul fenomeno grazie allo studio approfondito di un ricco corpus di prediche manoscritte inedite. In continuo dialogo con la bibliografia internazionale sul tema, l’autrice adotta diverse prospettive, unendo studi di storia ebraica e della chiesa cattolica; teologia e scienze sociali; storia urbana e globale. Catholic Spectacle risponde con successo a due sfide storiografiche: superare la trattazione della storia degli ebrei come qualcosa di isolato dalla storia dell’Europa di epoca moderna e ricollocare la figura dell’ebreo immaginario, basata su stereotipi e concetti astratti, nella realtà di tutti i giorni. Michelson dimostra che i sermoni agli ebrei erano funzionali alla costruzione dell’immagine che la Chiesa cattolica voleva dare di Roma dopo la Riforma protestante – quella di una capitale religiosa mondiale – e si integravano con la missione politica e morale della Santa Sede – la cattolicizzazione dei popoli. Andando oltre il testo dei sermoni e ricostruendo molti aspetti materiali del rito, Michelson dedica ampio spazio al modo in cui gli ebrei lo vivevano: in questo senso, come sottolinea l’autrice, il libro è una storia delle continue vessazioni che la comunità ebraica romana visse in epoca moderna e svela i metodi violenti celati dall’apparente tono conciliatorio dei sermoni.
La trattazione si sviluppa in sette capitoli. Il primo dimostra che le prediche agli ebrei servivano a ricostruire l’immagine di Roma come città pia e devota agli occhi di residenti e viaggiatori stranieri. Lo spettacolo aveva luogo in determinati spazi pubblici – che diventavano “scenari” ideali e acquisivano significati specifici – e seguiva le politiche di rinnovamento urbano iniziate sin dalla metà del Quattrocento. Nel Cinquecento, le politiche di conversione erano fondamentali nella nuova visione di Roma. L’opera di conversione era rivolta ai principali nemici della fede cattolica: protestanti, musulmani ed ebrei. Ma soprattutto verso questi ultimi si svilupparono pratiche umilianti e degradanti, sintomo di uno slittamento di approccio nei loro confronti. Da fine Quattrocento, le migrazioni di massa di ebrei convertiti (marrani) dalla Spagna e dal Portogallo stimolarono contrasti nelle comunità italiane. Gli ebrei romani, prima tollerati e protetti dalle autorità, cominciarono a essere emarginati. Il ghetto, fondato nel 1555 e rapidamente fornito di mura, sancì la loro totale separazione dai cristiani. La piazza Giudia, una volta luogo di incontro e mescolamento, fu divisa dalle mura. Numerosi divieti separarono la vita sociale delle due popolazioni, vietando la partecipazione congiunta a feste e riti religiosi, scambio di cibo o altre merci.
Il secondo capitolo descrive gli aspetti salienti del rituale delle predicazioni agli ebrei e dimostra la loro importanza nella società romana. Dalla loro istituzione e nel corso dei secoli, i sermoni furono sostenuti da istituzioni quali Propaganda Fide e da mecenati dell’aristocrazia ecclesiastica. L’organizzazione del rito era in contrasto con la stima data alla cultura e alla lingua ebraica. La scelta del momento – sabato dopo pranzo – era strategica e toglieva agli ebrei l’unico momento di riposo che avevano per trascorrere con la famiglia, a studiare la Torah oppure a pregare individualmente. Tutte le persone di età superiore ai dodici anni erano obbligate a partecipare. Il loro comportamento era rigidamente regolato: dovevano vestirsi umilmente con i colori distintivi ed erano costretti a seguire la predica in modesto silenzio. All’entrata, alcuni ufficiali – solitamente ebrei convertiti che conoscevano la folla – identificavano i partecipanti. All’interno dell’oratorio circolavano alcuni sbirri armati di bastone o mazza, pronti a punire con violenza o a multare chi si distraeva, commentava o faceva battute sarcastiche, interrompeva le prediche, oppure era scoperto a dormire. Gli sbirri agivano sotto indicazione del predicatore, che sorvegliava il pubblico strettamente. Gli ebrei erano anche costretti a pagare per la costruzione, il mantenimento e l’allestimento settimanale dei banchi.
Il terzo capitolo ricostruisce le carriere di alcuni predicatori che acquisirono fama ben al di fuori del pulpito. Tenere i sermoni agli ebrei, anche solamente una volta, era un conseguimento prestigioso e un passo decisivo per accedere alle più alte cariche ecclesiastiche. I predicatori erano uomini dotti, istruiti nella cultura e nella lingua ebraica. Nel Cinquecento, le prediche permettevano loro di accedere al network di aristocratici, alle cattedre universitarie e, talvolta, preparavano la strada alla più alta onorificenza: la santità. Dal Seicento in poi, questo ruolo divenne una prerogativa dei frati domenicani e rappresentò una tappa importante per scalare la gerarchia dell’Ordine. La predicazione mantenne il prestigio ma divenne un lavoro specializzato, permanente e metodico, meno aperto a eventi miracolosi e a personalità straordinarie. Anche il tono delle prediche cambiò. Se prima si convertivano gli ebrei costruendo ponti tra la cultura cattolica ed ebraica, ora si passava a violente invettive. Questo approccio è evidente nei libelli pubblicati dai predicatori al di fuori della loro attività sul pulpito. Molte pubblicazioni assumevano titoli o toni aggressivi e sferzanti e dipingevano gli ebrei come testardi miscredenti. Quando il tono degli scritti era pacato, l’ostilità poteva emergere nella condotta comportamentale degli autori. Emblematico il caso di Giuseppe Ciantes. Fine conoscitore dei testi ebraici ed esperto di cabala, egli produsse molti libri che dimostrano una inclinazione al dialogo e alla persuasione. Ma nella vita reale, Ciantes imponeva le conversioni con la violenza, rapendo infanti, ricattando le famiglie e organizzando scorribande armate nel ghetto romano. I sermoni, con i loro messaggi astratti e intellettuali, mascheravano le coercizioni e rappresaglie che subivano gli ebrei.
Le prediche degli ebrei non miravano unicamente alla conversione. Gli spettacoli erano un potente mezzo di propaganda ed erano pensati per fare effetto sulla folla di spettatori cristiani. Nel quarto capitolo, l’autrice analizza il pubblico e le sue funzioni rispetto al rito. Oltre agli ebrei partecipavano i cristiani romani – alte cariche ecclesiastiche e popolani – i neoconvertiti della Casa dei Catecumeni, i visitatori stranieri. La presenza di questi gruppi aveva la duplice funzione di propaganda e di controllo. I neobattezzati ricordavano che i sermoni erano efficaci e le conversioni possibili. I cristiani potevano segnalare agli sbirri chi dormiva o si distraeva, e svolgere funzioni di deterrenza verso gli ebrei ricalcitranti. La loro presenza legittimava le azioni di conversione, dimostrando l’unità della cittadinanza. La partecipazione degli stranieri contribuiva ad aumentare ulteriormente la fama di questi riti. Le relazioni sui libri di viaggio consacrarono gli spettacoli di conversione come una delle attrazioni di Roma a livello europeo.
Se i primi quattro capitoli contestualizzano le prediche di conversione nel loro contesto culturale, sociale e urbano, gli ultimi tre si soffermano su alcuni casi di studio. Il quinto capitolo si focalizza sui testi dei sermoni. Le prediche degli ebrei erano ripetitive e standardizzate. I contenuti teologici avevano lunga tradizione medievale e furono codificati in Francia e Spagna. Basandosi su questa tradizione, i predicatori sfoggiavano la propria arte oratoria e presentavano le conversioni come frutto di persuasione e discussione di colti problemi dottrinali. Ma questa retorica era per lo più indirizzata ai cristiani. Comunicando agli ebrei, il linguaggio diventava offensivo, violento e antagonistico. L’autrice dedica queste pagine a un’analisi delle continuità e dei cambiamenti. Nei sermoni romani l’ebreo rimane una figura astratta, generalizzata. Per regola, i predicatori dovevano discutere su questioni dottrinali e non sulle pratiche rituali o sugli aspetti della vita quotidiana della comunità ebraica.
Il sesto capitolo esplora la raccolta di 750 sermoni manoscritti di Gregorio Boncompagni Corcos, rampollo di una potente famiglia aristocratica romana di origine ebraica, il cui capostipite era stato convertito da papa Gregorio XIII. Corcos fu predicatore per trentanove anni, dal 1649 al 1688, e inserì nei suoi sermoni nuovi temi per celebrare i recenti trionfi della Chiesa cattolica: la sua opera di conversione in scala globale, i nuovi santi e le attività dei recenti Ordini religiosi. È un corpus prezioso per lo studio delle predicazioni rivolte agli ebrei anche per le molte annotazioni e marginalia, che riportano alcuni pensieri intimi del predicatore – il suo sostegno all’attività di conversione degli ebrei, i suoi dubbi e le sue insicurezze. I manoscritti rivelano le comparazioni con gli altri nemici della cattolicità, in particolare i protestanti e i musulmani. I primi sono citati per fugare le accuse di settarismo mosse alla religione cristiana – gli ebrei potevano opporsi alla conversione, mentre i musulmani appaiono stereotipati, perché la conoscenza di Corcos non sembra andare oltre a ciò che la tradizione medievale aveva tramandato.
Il pubblico ebraico non subiva passivamente i maltrattamenti. Dalla seconda metà del Seicento, attraverso la figura di un altro Corcos, non convertito, il rabbino Tranquillo Vita, gli ebrei cominciarono a protestare in forma scritta contro la retorica usata da alcuni predicatori. Essi li accusavano di soffermarsi sulle faccende quotidiane degli ebrei piuttosto che discutere su questioni teologiche e dottrinali. Questa pratica era considerata offensiva e proiettava un’immagine dell’ebreo incompatibile con quella del cristiano, oltre a incitare violenze e aggressioni. Corcos lamenta anche il paragone con l’Islam – affermando che l’ebraismo era una religione migliore – e l’uso dei bastoni da parte degli sbirri, usati sempre più liberamente, tanto che si picchiavano senza preavviso anche le donne. La resistenza passava anche attraverso il comportamento tenuto durante le prediche. Talvolta gli ebrei dormivano, parlavano, producevano rumori molesti, comunicavano attraverso gesti per esprimere il proprio dissenso su qualche confutazione del predicatore, oppure si mettevano tappi nelle orecchie.
Catholic Spectacle fa riflettere su un tipo di violenza sottile, subdola, che è quella della omologazione coatta. Gli ebrei erano obbligati ad assistere a invettive pubbliche contro le loro tradizioni culturali e religiose, ridotti a comparse in uno spettacolo studiato per degradarli. Il tema potrebbe essere studiato come una “politica di umiliazione” . Sarebbe interessante sapere se, tra i manoscritti e le lettere di protesta, emerga qualcosa sullo stato emotivo degli ebrei che subivano queste vessazioni.
Il saggio ci ricorda inoltre che Roma, come tutta l’Europa dell’epoca, era un miscuglio di religioni e culture diverse. Il clima moralizzante e intollerante, le paure verso l’alterità fomentate da interessi politici, portarono a un inasprimento delle violenze contro gli ebrei e le altre minoranze, alla creazione di stereotipi che avranno seguito fino alla tragedia dell’Olocausto, all’innalzamento di muri immaginari e reali, e alla creazione di rituali pubblici che alimentarono divisioni nella popolazione romana. Il parallelo inquietante con la contemporaneità fa di questo libro una lettura importante.