VI, 2023/3

Giusi Russo

Women, Empires, and Body Politics at the United Nations, 1946-1975

Review by: Lorella Tosone

Authors: Giusi Russo
Title: Women, Empires, and Body Politics at the United Nations, 1946-1975
Place: Lincoln
Publisher: University of Nebraska Press
Year: 2023
ISBN: 9781496205810
URL: link to the title

Reviewer Lorella Tosone - Università degli Studi di Perugia

Citation
L. Tosone, review of Giusi Russo, Women, Empires, and Body Politics at the United Nations, 1946-1975, Lincoln, University of Nebraska Press, 2023, in: ARO, VI, 2023, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/3/women-empires-and-body-politics-at-the-united-nations-1946-1975-lorella-tosone/

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Il volume di Giusi Russo si inserisce in un filone di studi relativamente recente che da due decenni circa si occupa di ricostruire i diversi aspetti dell’impegno delle Nazioni Unite per l’affermazione dei diritti delle donne a livello internazionale.

L’autrice arricchisce questa produzione storiografica con uno studio che ricostruisce il lavoro della Commissione sullo status delle donne delle Nazioni Unite dalla sua nascita fino al 1975, dando particolare attenzione al tema del confronto fra le donne del Nord e quelle del Sud del mondo nel dispiegarsi del processo di decolonizzazione. Sia il periodo storico trattato sia la scelta del particolare punto di osservazione di tali incontri post-coloniali – la CSW appunto – sono originali e molto utili per comprendere le origini del cammino che ha portato a far divenire l’uguaglianza di genere una questione di rilevanza internazionale.

Nel 1946, su proposta della rappresentante brasiliana Bertha Lutz, nacque la Sottocommissione sullo status delle donne, in seno alla Commissione sui diritti umani presieduta da Eleanor Roosevelt, formata da pioniere dell’attivismo femminista a livello internazionale. Nel giro di pochi mesi, visioni diverse sul ruolo dei diritti delle donne nel nascente sistema generale di tutela dei diritti umani portarono alla creazione di una commissione autonoma dell’ECOSOC – la Commissione sullo status delle donne (CSW). Tale scelta, osteggiata da Roosevelt, venne dettata dal timore che i diritti delle donne, se non tutelati e messi in evidenza da uno organo dedicato, sarebbero divenuti marginali nel sistema generale di tutela dei diritti umani che si andava definendo in quei mesi. Se questa scelta permise, da un lato, di tutelare una condizione specifica di discriminazione a livello internazionale portò, dall’altro, alla creazione di due sistemi paralleli di tutela dei diritti, che solo a metà degli anni Novanta trovarono una loro riconciliazione.

La non discriminazione di genere venne discussa alla prima riunione dell’Assemblea Generale dell’Onu a Londra nel 1946, grazie all’iniziativa di Eleanor Roosevelt che in quell’occasione pronunciò un discorso (noto anche come Letter to the women of the world), condiviso con le altre diplomatiche presenti, che mirava a promuovere la partecipazione delle donne nel lavoro delle Nazioni Unite. L’autrice avvia da questo punto la sua critica alle femministe del  mondo industrializzato per il loro approccio alla difesa dei diritti delle donne: come altri autori hanno sottolineato, fu in generale un approccio eurocentrico e, in questo caso particolare, l’ambizione di parlare alle “donne di tutto il mondo” e di rappresentarle suggeriva, come scrive Russo «a set of consequences in terms of representation and speaking on behalf of the invisible “other” both phisically and conceptually» (p. 39). Ma Russo va oltre, e nei richiami che Roosevelt fa al contributo delle donne alla guerra legge il tentativo di giustificare con esso le rivendicazioni per il riconoscimento di una loro piena cittadinanza. Scrive l’autrice: «Roosevelt’s letter declared that the women delegates’ legitimacy to take part in the UN inaugural meeting in London was a reward for their war participation» (p. 40) e, alcune pagine dopo, che «the GA’s positioning of women as helpers solidified their social role as such and defined the receiver of women’s services while it reconfirmed that men did not need a justification to participate in the public sphere» (p. 43). Tale interpretazione appare tuttavia un po’ forzata e sembra non corrispondere allo spirito, se non alla lettera, del documento né si ritrova nei lavori successivi dell’Organizzazione. Nel suo intervento Roosevelt fece un appello a tutti i governi del mondo perché si adoperassero per il riconoscimento dei diritti delle donne, e a tutte le donne del mondo perché cogliessero ogni occasione di partecipazione alla vita pubblica. Peraltro anche le attiviste e le donne politiche italiane, impegnate nel dopoguerra a “divenire cittadine”, evidenziarono costantemente, anche nei forum internazionali a cui parteciparono, la connessione, ritenuta cruciale, fra il loro contributo alla lotta di liberazione dal fascismo, l’affermazione degli ideali democratici e il progressivo riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza per le donne.

Il lavoro della CSW risentì naturalmente delle tensioni del contesto internazionale e fu condizionato dalle trasformazioni di quest’ultimo. Nel ripercorrere il lavoro della Commissione l’autrice fa emergere le contraddizioni e le difficoltà che si evidenziarono nel tentativo di individuare una definizione condivisa dei diritti delle donne nonché le divisioni fra le rappresentanti, che seguivano linee ideologiche, nel contesto della guerra fredda, preoccupazioni coloniali, rivendicazioni di diversità di esigenze fra le donne del  Nord e del Sud del mondo.

Nei primi anni della sua esistenza, la CSW divenne l’ennesimo terreno di scontro fra i due blocchi, che combatterono la loro guerra culturale esponendo al mondo modelli di femminilità diversi ispirati ai propri modelli di società. L’autrice si sofferma molto sulla descrizione della propaganda utilizzata dagli occidentali e dai paesi del blocco sovietico, accomunati però da un approccio che definisce di «femminismo imperiale», cioè la tendenza a proiettare sulle donne del terzo mondo, ancora assenti nell’Organizzazione, modelli di donne emancipate dalla cultura tradizionale e tutelate nei loro diritti. Le donne dei paesi definiti “arretrati”, impossibilitate ad avere una voce, divenivano così oggetto della volontà di protezione da parte delle loro “sorelle moderne”,  in un atteggiamento che esprimeva insieme paternalismo, senso di superiorità, atteggiamenti neocoloniali e che tradiva una linea di continuità con l’idea della sacra missione civilizzatrice che lo statuto della SdN aveva peraltro messo nero su bianco nel suo Statuto. Tale atteggiamento è dimostrato bene nel volume nel capitolo dedicato al rapporto fra la CSW e il Consiglio di Amministrazione fiduciaria delle Nazione Unite.

In un primo momento la Commissione si occupò di definire gli strumenti internazionali che dovevano servire a spingere gli stati a garantire pari diritti civili e politici per le donne, facendo prevalere la visione occidentale. Successivamente, il progressivo raggiungimento dell’indipendenza da parte di un numero crescente di paesi comportò una maggiore articolazione dei dibattiti e l’emergere di nuove dicotomie e contraddizioni nel lavoro della Commissione mano a mano che rappresentanti dei paesi di nuova indipendenza entravano a farne parte. Si approfondì così il dibattito sui diritti politici in contrapposizione con i diritti economici e sociali, un dibattito che vedeva il riproporsi alla CSW di quanto avveniva già in altri organi dell’Onu, con i paesi occidentali che puntavano al riconoscimento dei primi e i paesi in via di sviluppo, sostenuti dall’Unione Sovietica, che li ritenevano vuote affermazioni retoriche in mancanza di attenzione per un’equa distribuzione di risorse e di opportunità di lavoro.

La parte più interessante del volume è quella che descrive le difficoltà della Commissione di conciliare l’universalità dei diritti umani, espressa nella Dichiarazione universale, con il rispetto per le tradizioni e le consuetudini locali, che spesso erano alla base delle discriminazioni di genere ma che, allo stesso tempo, sollevavano questioni identitarie per i paesi di nuova indipendenza. Esemplificativo a questo proposito è il confronto che si aprì dalla metà degli anni Cinquanta sul tema delle mutilazioni genitali femminili, che fece emergere, da una parte, la consueta auto-percezione delle donne occidentali come portatrici di modernizzazione e emancipazione per le donne del terzo mondo e, dall’altra, le voci delle rappresentanti africane che, come le altre, sostennero la necessità di eliminare ogni forma di intervento sul corpo delle donne che fosse lesiva della loro volontà, dignità e integrità fisica. All’inizio degli anni Sessanta, le “invisibile others”, insomma, parvero accettare l’interpretazione del nesso universalismo-tradizione che l’AG aveva espresso nel 1954 con l’approvazione della risoluzione 843 che sollecitava gli stati ad abolire pratiche consuetudinarie lesive della libertà e dignità della donna nella famiglia alla luce dei principi espressi nella Dichiarazione universale dei diritti umani, affermandone, sebbene indirettamente, la superiorità.

Nel volume c’è dunque davvero molto: dalle dispute sul linguaggio da utilizzare nella Dichiarazione universale perché risultasse maggiormente inclusivo dei diritti delle donne, alla discussione del ruolo delle donne nello sviluppo; dalla descrizione del ruolo di alcune Ong nel lavoro della Commissione, ai diversi approcci delle femministe ai problemi della non discriminazione di genere, alla discussione sulla pianificazione familiare nel terzo mondo. Se la trattazione di tutti questi temi rende bene la complessità del lavoro e delle questioni affrontate dalla Commissione, lascia però al lettore l’impressione che alcuni aspetti avrebbero potuto essere meglio descritti e approfonditi. Una maggiore riflessione su alcuni passaggi avrebbe permesso, inoltre, di evitare la perentorietà di alcune affermazioni su temi a lungo oggetto di dibattito storiografico («at a national level, the US government showed an interest in civil rights mostly as a reaction to Soviet attacks on American racism», p. 97); di non affidarsi a tesi singolari («postwar family planning policies in the developing world […] were based on the fear of revenge of the postcolonial population asking for reparations for colonialism, a bigger population would have asked more forcefully», p. 15) o inesattezze («Ethiopia  […] symbolized the continuity of African history since its history was unmarked by colonial interference – with the exception of a brief occupation by the Italian army, 1935-1936», p. 148).

Nel complesso il volume appare di interesse per gli storici che si occupano di organizzazioni internazionali e dei movimenti femministi transnazionali e offre un approccio originale e spunti interessanti capaci di stimolare ulteriori ricerche sull’azione delle Nazioni Unite per l’affermazione dei diritti delle donne.

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