Reviewer Giovanni Bernardini - Università di Verona | FBK-ISIG
CitationIn alcuni paesi, come la Francia, la demografia è storicamente definita come “un’ossessione nazionale”. In molti altri, essa rimane una materia oscura per le riflessioni di ristretti circoli di esperti, salvo raggiungere il dibattito pubblico soltanto in particolari periodi di crisi, quando i suoi rapidi mutamenti minacciano gravi conseguenze per gli equilibri sociali. In questi casi, fatalmente, l’episodicità comporta anche la scarsa preparazione al dibattito da parte del pubblico più vasto, spesso preda di luoghi comuni e logori stereotipi, su cui più di una parte politica fa leva alla ricerca di facile consenso. Purtroppo, quest’ultimo sembra proprio il caso dell’Italia dei nostri anni, in cui il consistente declino demografico e le sue ripercussioni su tutti i campi del vivere sociale sono finalmente usciti dall’indifferenza, per finire però in pasto a chi propone soluzioni tanto facili quanto inesorabilmente destinate al fallimento sulla base dei precedenti storici, di cui pochi sono al corrente.
L’idea di condensare la storia demografica d’Italia in un libro breve ed esplicitamente divulgativo, quindi, è un’operazione lodevole e utile, tanto più se a farlo sono due studiosi di chiara fama come Alessandro Rosina e Roberto Impicciatore. Il risultato è un volume di 160 pagine (cui si aggiunge una bibliografia utilissima per ulteriori approfondimenti) che racconta l’evoluzione quantitativa e qualitativa della popolazione italiana addirittura dall’epoca preunitaria fino ai giorni nostri, attraverso i traumi e i conflitti che le hanno dato forma, ma anche le politiche che ne hanno condizionato gli sviluppi. Il duplice intento degli autori appare chiaro sin dalle prime pagine: fornire a un dibattito non più rinviabile gli argomenti e i paradigmi necessari a un suo sano svolgimento; e restituire alla questione tutta l’ampiezza e le correlazioni in cui essa va intesa, dall’economia alle tradizioni, dalla gestione del territorio e delle città alle politiche sanitarie. Al contempo, il volume non manca mai di collocare le tendenze italiane all’interno di quelle internazionali, con particolare riferimento all’Europa, al fine di mostrarne con chiarezza le peculiarità.
Non è semplice riportare nel breve spazio qui disponibile la mole di spunti di riflessione e di efficace contrasto alle credenze più radicate (e fallaci) che i due autori riescono a condensare. Valgano perciò alcuni esempi, come le responsabilità spesso attribuite alla disarticolazione della famiglia tradizionale per la riduzione delle nascite. Dati alla mano, gli autori dimostrano come lo stesso non accada (o almeno non nelle stesse dimensioni) in paesi in cui il primo processo è ancora più avanzato che in Italia. Allo stesso modo, è fuorviante attribuire la “colpa” della denatalità al maggiore impiego delle donne fuori dalla famiglia e a dimostrarlo concorre il paragone con l’epoca fascista, durante il quale il regime disincentivò il lavoro femminile con l’obiettivo di aumentare le nascite. Il libro non lascia dubbi sul fallimento che tali politiche incontrarono all’epoca (quando di fatto la popolazione rimase al più stazionaria) e sulla ripetizione dello stesso risultato. L’Italia ha già il triste triplice primato in Europa dei minori tassi di impiego femminile, di fecondità e di divario tra il numero medio di figli desiderati (2) ed effettivi (1,25). Così come nel Ventennio, le famiglie monoreddito sono generalmente più povere e insicure, dunque certamente meno inclini alla procreazione, indipendentemente dall’efficacia (non certo proverbiale) dei nostri sistemi di assistenza alla maternità e prima infanzia. Al contrario, i paesi europei in cui il calo demografico è stato finora arginato più efficacemente sono gli stessi che vantano il tasso di occupazione femminile più elevato. Sulla stessa linea, il trito leitmotiv secondo cui si attribuisce alla maggiore prolificità degli immigrati la prospettiva di una “sostituzione etnica” si scontra con l’evidenza che anche il tasso di natalità di questi ultimi ha da tempo iniziato a declinare, ricalcando l’andamento degli “autoctoni”. Si tratta di segnali che dovrebbero indicare quanto le ragioni del “caso italiano” vadano cercate altrove, a cominciare dall’arretratezza e dalla cronica insufficienza del nostro sistema di welfare.
Il quadro finale, pur ribadendo la complessità della materia e l’impossibilità di spiegazioni monocausali, riconduce buona parte delle responsabilità all’incapacità delle classi dirigenti, all’indomani del duplice boom economico e demografico degli anni ’60, di creare adeguate opportunità lavorative e di vita per i giovani, per ripiegare piuttosto sulla conservazione dell’esistente. “Squilibri demografici, diseguaglianze sociali e territoriali, opportunità di giovani e donne nel mondo del lavoro, invecchiamento e domanda di assistenza nelle età molto avanzate, integrazione degli immigrati, sono tutti aspetti intrecciati rispetto ai quali l’Italia già prima di entrare nella grande recessione si trovava in condizione meno virtuosa rispetto alle altre società moderne avanzate e che negli anni Dieci non hanno visto sostanziali miglioramenti”. A fronte di tanto pessimismo della ragione, tuttavia, gli autori hanno voluto chiudere il volume con un richiamo all’ottimismo della volontà: “la storia di una popolazione”, avvertono, “non è come la storia di un individuo. Se i singoli individui possono compiere il loro vissuto solo in un’unica direzione […], le popolazioni possono sia invecchiare sia ringiovanire”. Nessuna inerzia è inarrestabile, a patto che a contrastarla siano misure efficaci, anche a costo di risultare impopolari nel breve periodo, e una nuova “combinazione tra consapevolezza e responsabilità nelle scelte individuali” diffusa tra la cittadinanza.