VI, 2023/3

Aurélie Dianara Andry

Social Europe, the Road not Taken

Review by: Roberto Ventresca

Authors: Aurélie Dianara Andry
Title: Social Europe, the Road not Taken. The Left and European Integration in the Long 1970s
Place: Oxford
Publisher: Oxford University Press
Year: 2022
ISBN: 9780192867094
URL: link to the title

Reviewer Roberto Ventresca - European University Institute

Citation
R. Ventresca, review of Aurélie Dianara Andry, Social Europe, the Road not Taken. The Left and European Integration in the Long 1970s, Oxford, Oxford University Press, 2022, in: ARO, VI, 2023, 3, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/3/social-europe-the-road-not-taken-roberto-ventresca/

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Chiunque adotti un approccio non meramente teleologico allo studio del processo di cooperazione e di integrazione europea potrà difficilmente ignorare quanto l’accidentata parabola storica dello spazio politico comunitario (e della Cee in primis) sia attraversata da una messe impressionante di iniziative e programmi che sono stati di volta in volta elaborati, discussi e infine accantonati da parte degli attori politico-istituzionali interni alla Comunità. Lungi dal prefigurare l’adozione di categorie di natura controfattuale nell’analisi dei molteplici progetti inconclusi di cui è costellata la vicenda della costruzione europea, una postura metodologica che si incarichi di indagare l’origine e gli sviluppi delle “strade non intraprese” nella pieghe del processo di integrazione consente di ricostruire l’esistenza di concrete progettualità politiche che, per un insieme di ragioni storicamente rintracciabili, vennero del tutto o in parte superate dall’emergere di paradigmi e opzioni decisionali di segno differente. È questo il precipuo – e ampiamente realizzato – obiettivo interpretativo che si è posta Aurélie Dianara Andry nel dare alle stampe il volume Social Europe, the Road Not Taken: The Left and European Integration in the Long 1970s (Oxford University Press, 2022).

L’autrice sgombera subito il campo da un possibile equivoco: l’oggetto di questo lavoro non si risolve nell’analisi delle politiche sociali promosse da uno o più organismi interni alla Comunità; parimenti, l’”Europa sociale” indagata da Andry non si riduce ai molteplici tentativi di mitigazione socio-economica degli effetti generati dalle spinte liberalizzatrici rivelatesi egemoniche nel corso del processo di integrazione. Piuttosto, questo volume prende in esame la ben più ambiziosa aspirazione delle sinistre europee (partiti socialisti e socialdemocratici; sindacati; alcuni partiti comunisti, come ad esempio quello italiano, protagonista della stagione dell’eurocomunismo) a elaborare un’agenda sociale capace di trasformare l’intera Cee in un attore governato da logiche economico-politiche aderenti agli interessi delle classi lavoratrici del continente e foriere di un’evoluzione radicalmente progressista dell’intero orizzonte comunitario.

Dopo aver ripercorso la fase aurorale del processo di integrazione europea, mettendo in luce la (per certi versi limitata) dimensione sociale rinvenibile nelle fasi della ricostruzione postbellica e dell’avvio dello scontro bipolare, l’autrice si sofferma sulla relazione che si istituì tra il 1968 globale e le sinistre dell’Europa occidentale. Queste ultime – agendo in un contesto nel quale cominciavano a manifestarsi i limiti dei sistemi di welfare emersi all’indomani del 1945 – colsero la necessità di stimolare in maniera più decisa e coordinata la promozione di politiche socialmente orientate da parte della Comunità, la quale a partire dal 1969 (Conferenza dell’Aja) sperimentò una fase di rilancio che condusse, tra i molti altri esiti, a una prima riforma del Fondo sociale europeo. Il “momento socialdemocratico” di cui l’Europa occidentale fu protagonista nella prima metà degli anni Settanta – si vedano le esperienze Brandt in Germania; Palme in Svezia; Kreisky in Austria; Joop den Uyl nei Paesi Bassi; Wilson nel Regno Unito – si sostanziò anche nella complessa e largamente conflittuale interlocuzione che si produsse tra le forze tradizionali del movimento operaio dei paesi Cee e le domande sociali espresse dai “nuovi” movimenti transnazionali di protesta, laddove le sinistre europee lavorarono per rendere progressivamente più inclusivi gli istituti di welfare nazionali attraverso programmi di intervento elaborati e promossi (anche) a livello comunitario. Figure come quella dell’olandese Sicco Mansholt (presidente della Commissione europea nel 1972-1973) si distinsero per la radicalità con la quale i temi della pianificazione economica, del rapporto tra ambiente e sviluppo (il Club di Roma aveva da poco pubblicato il noto report Limits to Growth) e della necessità di approfondire il coordinamento politico tra i partiti socialisti dell’area Cee vennero fatti transitare all’interno dell’agenda politica della Comunità. Queste istanze, soltanto in parte raccolte da altre componenti del socialismo europeo (si vedano le proposte di Brandt al summit di Parigi del 1972), avrebbero poi trovato una più compiuta sistematizzazione nelle “Tesi per un’Europa sociale” del 1973, promosse dai partiti socialisti dei paesi Cee e caratterizzate dall’obiettivo di collocare i temi del diritto al lavoro e della solidarietà tra i membri della classe operaia in Europa occidentale al cuore dell’azione politica dell’intera Comunità. Nonostante l’emergere di significative divergenze tra i maggiori rappresentanti del socialismo europeo – soprattutto intorno ai temi della pianificazione economica e dell’alternativa tra co-gestione, auto-gestione e co-determinazione nei rapporti tra lavoratori e componente padronale all’interno delle aziende –, la mobilitazione dei socialisti pose le condizioni perché la Comunità lavorasse alla formulazione di un "Social Action Programme" (SAP, 1974) da promuovere in parallelo alla graduale evoluzione dell’Unione economica e monetaria (Uem) e incardinato sugli obiettivi del pieno impiego, del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e di una maggiore partecipazione degli attori sociali (per esempio i sindacati) nella definizione delle politiche economiche della Cee. Tuttavia, come sottolinea l’autrice, i numerosi contrasti che emersero tra il Consiglio europeo e la Confederazione europea dei sindacati; la successiva ricomposizione in senso conservatore della Commissione europea; l’ostilità dei rappresentanti del mondo delle imprese; le divisioni interne all’orizzonte del socialismo europeo; nonché i profondi sconvolgimenti che lo scenario economico globale conobbe nella prima metà degli anni Settanta – collasso di Bretton Woods, guerra dello Yom Kippur, prima crisi petrolifera e affermazione del primato della lotta all’inflazione – contribuirono a depotenziare le risoluzioni finali del SAP e a stemperare la tensione trasformatrice dell’agenda sociale perseguita dalle sinistre europee. Espandendo la propria analisi alla seconda metà del decennio Settanta, Andry tematizza opportunamente il tormentato sviluppo di questa stessa agenda in un contesto internazionale nel quale i principi costitutivi del paradigma neoliberale sembrarono offrire alle leadership europee occidentali – partiti socialisti e socialdemocratici inclusi – gli strumenti attraverso cui rispondere alle molteplici forme di crisi (monetaria, sociale, economica, energetica) che si stratificarono in quel periodo. L’auspicato irrobustimento dei diritti sociali delle classi lavoratrici venne progressivamente adombrato dalla priorità di riattivare una crescita economica di natura anti-inflazionistica, le cui condizioni di possibilità furono individuate non già nel ripensamento dei meccanismi di accumulazione, produzione e distribuzione capitalistica – un esempio su tutti: la lotta dei sindacati europei per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario –, bensì nel primato della stabilità monetaria, della riduzione delle prestazioni welfaristiche e di una sempre più accentuata proiezione liberalizzatrice, che specie negli anni Ottanta e Novanta avrebbe condotto la Cee a diventare uno degli attori principali della cosiddetta globalizzazione. Benché le vicende legate alla lenta approvazione della direttiva Vredeling – lanciata nel 1980 e volta a consolidare il peso dei lavoratori nei processi decisionali delle multinazionali – dimostrino come la seconda metà del decennio Settanta non abbia rappresentato il completo de profundis delle lotte per l’affermazione di istanze di eguaglianza sociale in Europa occidentale, Andry coglie nell’osmosi (tanto intellettuale quanto più globalmente politica) tra i precetti della scuola neoliberale e le forze della sinistra socialista e social-democratica una delle principali ragioni dell’eclissi di quelle forme di progettualità alternativa che fino ad allora avevano animato l’agenda della “Social Europe”. In questo contesto, il tournant de la rigueur praticato dai socialisti francesi nel 1983 avrebbe segnato, nell’opinione dell’autrice, l’epitome della sconfitta del progetto per un’Europa sociale e la cristallizzazione della “conversione neoliberale” delle sinistre in nome, manco a dirlo, dell’Europa stessa. Se è vero che negli ultimi anni una parte della storiografia (si pensi ai lavori di Mathieu Fulla e di Michele Di Donato) ha ridimensionato l’accostamento tra le politiche promosse dal governo Mauroy nel 1983, l’asserita neoliberalizzazione dei socialisti francesi e la promozione di misure di austerità legate alla cosiddetta scelta europea, risulta evidente come il contesto internazionale dei primi anni Ottanta fosse apertamente ostile alle istanze di radicale perequazione sociale di cui le sinistre continentali si erano fatte interpreti nel corso del decennio precedente. Un esito, quest’ultimo, le cui origini vengono fatte opportunamente risalire da Andry a un insieme di ragioni di natura tanto politico-istituzionale (basti citare le divisioni tra i partiti socialisti europei o le fratture interne al variegato mondo sindacale dell’area Cee) quanto più globalmente sociale, laddove il persistente scollamento tra l’azione dei partiti della sinistra tradizionale e il piano della conflittualità praticata dai movimenti di protesta post-1968 costituì un elemento di strutturale debolezza per quanti coltivarono l’ambizione di rendere lo spazio istituzionale della Comunità un’arena attraverso la quale affermare il primato politico delle istanze espresse dalle classi lavoratrici in Europa occidentale.

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