Reviewer Umberto Cecchinato - Università di Trento | FBK-ISIG
CitationIn tutta Europa, per secoli, performer di strada itineranti composero canzoni sui crimini commessi e sulle tribolazioni sofferte sul patibolo dai criminali, diffondendo la notizia delle esecuzioni capitali a un ampio pubblico e su vaste aree territoriali. Il genere ebbe grande impulso sin dagli albori della stampa e rimase in vita con caratteristiche simili sino alla prima metà del Novecento. I testi iniziavano con la chiamata a raccolta dei passanti, raccontavano la vita del condannato e descrivevano – spesso con molti dettagli – l’orrendo supplizio che subiva sul patibolo, ammonendo contro l’agire in maniera simile. Le canzoni erano vendute al pubblico su fogli a stampa di varie dimensioni, generalmente senza la notazione musicale, ma con l’indicazione della melodia su cui andavano cantati. Singing the News of Death getta luce su questo fenomeno sino ad ora relativamente poco studiato, analizzando le stampe prodotte tra il XVI e il XX secolo in varie regioni europee, in particolare testi in lingua inglese, francese, tedesca, olandese e italiana.
Il libro è diviso in due parti. La prima si compone di tre capitoli e presenta i caratteri formali del genere delle ballate: l’uso delle melodie, la centralità delle tematiche emotive di vergogna e del disonore e il rapporto tra la veridicità e la fiction dei fatti narrati. La seconda è composta da cinque capitoli su aspetti particolari del genere: i crimini che vi sono rappresentati e l’evoluzione delle ballate dopo la riforma del sistema giudiziario nell’Ottocento.
Il primo capitolo è dedicato alla pratica del contrafactum, ovvero l’uso di comporre nuovi testi su melodie di repertorio già conosciute. Questa tecnica esecutiva è studiata da tempo dai musicologi. Solitamente, le stampe vendute contenevano solo le parole della canzone. L’esecutore ricavava la melodia da un’indicazione posta nel margine. Solo in Italia ciò non accadeva. Chi acquistava una stampa e voleva riprodurla, doveva dedurre o ricomporre una melodia a sua scelta in base alla metrica del testo, che variava in tre tipologie – barzelletta, terza rima, ottava rima – in base al modo in cui il cantore voleva descrivere il criminale. McIlvenna si inoltra nei processi decisionali dei compositori, dimostrando che le melodie erano scelte in base alle emozioni che si volevano suscitare negli ascoltatori.
Il secondo capitolo esplora una delle emozioni più strettamente rappresentate nelle ballate da esecuzione: la vergogna e umiliazione dei condannati. I testi delle ballate forniscono una prospettiva insolita su molti aspetti emotivi, in particolare sulla vergogna provata per il tipo di supplizio inferto. La vergogna era dovuta più al tipo di supplizio che al crimine commesso. La distruzione del corpo durante il supplizio precludeva la salvezza eterna del condannato e stigmatizzava l’intera famiglia della vittima. In ciò le ballate giocavano un ruolo importante, contribuendo a diffondere l’infamia su un vasto territorio e a mantenerla viva nel tempo.
Il terzo capitolo tratta il ruolo svolto dalle ballate nella propaganda, soffermandosi sugli elementi immaginari che oggi diminuirebbero la veridicità del fatto raccontato – come interventi miracolosi o apparizioni di mostri – ma che allora contribuivano a rafforzare l’efficacia del messaggio morale della ballata. Tali elementi immaginari, poiché facevano presa sulle credenze popolari, legittimavano con aura sacrale la punizione dei crimini e glorificavano il ruolo dello stato.
Il quarto capitolo studia i crimini religiosi. Le numerose esecuzioni di eresiarchi diedero impulso allo sviluppo delle ballate di martirio, che differiscono per il tono apologetico. Gli stereotipi con cui si descrivevano le streghe o gli ebrei, invece, erano diversi in base alle regioni.
Il quinto capitolo si sofferma sull’omicidio. Poiché molti omicidi tra uomini difficilmente erano puniti con la pena capitale, le ballate riportano soprattutto quelli tra uomini e donne. I testi riducono le cause della violenza a tre motivi: l’eccesso nel bere, la provocazione e il diavolo. L’attenzione alla simpatia emotiva del pubblico spingeva i compositori a ritrarre soprattutto donne giovani vittime di uomini rapaci.
I capitoli sesto e settimo sono dedicati a due figure preminenti: i condannati per reati politici e i banditi. Le ballate dedicate ai primi ebbero un grande sviluppo tra il Seicento e il Settecento, a causa delle numerose lotte politiche, congiure e ribellioni che caratterizzarono il periodo in tutta Europa. In molti casi, i protagonisti erano famosi e ispirarono canzoni in diverse regioni europee. Lo stesso periodo vide la romanticizzazione della figura del bandito e le ballate contribuirono alla reputazione leggendaria ottenuta da alcuni. McIlvenna identifica due modelli: il primo segue il modello classico, soffermandosi sull’esecuzione. Il secondo modello, che ebbe più fortuna nei secoli a seguire, narrava le gesta del bandito in modo apologetico ed eroico e alla punizione dedicava solamente una menzione.
L’ultimo capitolo si sofferma sull’evoluzione del genere nel periodo della riforma penale napoleonica e negli anni a seguire. Nonostante il numero delle esecuzioni capitali diminuisse in tutta Europa, le ballate continuarono a essere prodotte, seppur con significativi cambiamenti. Maggiore attenzione era dedicata alle indagini del crimine e al procedimento penale. A dispetto della visione semplicistica di un’Europa illuminata e civilizzata rispetto al passato barbarico, alcuni elementi di continuità nelle ballate dimostrano che i temi cruenti dell’esecuzione capitale continuavano a riscuotere successo nel pubblico. Per esempio, nonostante l’esistenza di discipline scientifiche come l’antropologia forense, molto spesso il diavolo era ancora presentato come un plausibile movente di omicidio, a dimostrazione della permanenza delle credenze superstiziose in ampie fasce della società.
Il libro di McIlvenna è importante. Oltre a gettare nuova luce sulle performance musicali di strada – argomento che negli ultimi venti anni ha suscitato particolare interesse nel campo della storia della comunicazione – lo studio compara per la prima volta varie regioni europee, sottolineando il ruolo giocato dalle ballate nella trasmissione di idee ed elementi culturali comuni. Il quadro andrebbe completato con la penisola iberica e le regioni dell’Europa orientale, dove l’autrice non si è spinta.
Il libro invita ad approfondire anche la figura del cantante di strada, identificato da McIlvenna con i cantimbanchi o con persone che ricoprivano posizioni marginali nella società. Pure in questo, le stesse idee circolarono per secoli in diverse regioni europee. Le parole di Hans Jacob von Grimmelhausen, che nel 1670 stilò una lista in cui i performer di strada comparivano insieme a vagabondi e malviventi, riecheggiano quelle del patrizio veneziano Giacomo Nani, che a metà Settecento li inseriva nel paniere della cosiddetta «feccia della plebe».[1] In realtà i performer di strada erano figure complesse, in grado di padroneggiare più arti comunicative e spesso appartenenti a diversi ceti sociali. La proliferazione di stereotipi negativi nei loro confronti andrebbe messa a confronto con l’identità sociale che degli stessi si trae da altri tipi di fonte, come i processi criminali.
[1] «Chiamo finalmente feccia d’una società quella tal sorta di gente, la qual non professando alcun mestiere, vive nonostante a peso della stessa... tali sono i ciarlatani, i cantanti di piazza, i buffoni, que’ che affitan careghe in Piazza, que’ dei ferali, sportella, quei dai giochi bianco e rosso, biribis, quei che vendono stampe per la città, zaletti col butiro, quei che servono ai teatri, ai casotti, i ruffiani, gli stupri, i pezzenti». Cit. in Francesca Meneghetti Casarin, I vagabondi. La società e lo Stato nella Repubblica di Venezia alla fine del ‘700, Jouvence, Roma, 1984, 3, p. 36. Von Grimmelhausen è citato dall’autrice nel cap. 3.