Reviewer Giovanni Di Bella - Università di Messina
CitationIl testo di Luigi Andrea Berto, Sudditi di un altro Dio, uscito per Salerno Editrice nel dicembre 2022, si concentra sulla varietà di esperienze vissute da sudditi cristiani e musulmani in territori appartenenti alla fede dell’altro. L’autore, che già in altre occasioni ha affrontato queste tematiche (si ricorda la più recente pubblicazione dal titolo Christians and Muslims in Early Medieval Italy, London 2020), presenta una narrazione che copre un ampio arco cronologico che va dall’VIII secolo, quando l’Islam emerse nello scenario politico-religioso del Vicino Oriente, fino a giungere all’inizio dell’Età Moderna, segnato dall’espansione dei Turchi selgiuchidi, prima, e quelli ottomani, dopo. Lo studio di Berto indaga principalmente lo status che fu assegnato ai sudditi delle contrapposte fedi, soffermandosi dettagliatamente su come i governati gestirono i rapporti con i governanti e su quali furono le relazioni tra i sudditi delle due religioni.
La narrazione del libro segue un orientamento discendente nella prima parte (capitoli primo, secondo e terzo), nella quale Berto parte dall’analisi delle disposizioni impartite dai governanti nei confronti dei sudditi. Nella seconda (capitoli quarto e quinto), invece, l’analisi comincia dal basso per andare verso l’alto, ovvero l’autore analizza consuetudini, luoghi lavorativi e devozioni popolari in comune tra le fedi per giungere all’analisi dell’approvazione o meno da parte dei governanti. L’ultimo capitolo, infine, è il triste epilogo di una lunga vicenda di sincretismo che, a quanto pare, i cristiani hanno ben presto rinnegato. Berto, come egli stesso sottolinea, ha utilizzato una selezionata quantità di fonti che gli permettono di mantenere una visione imparziale rispetto alle prese di posizione sia da parte musulmana sia da parte cristiana.
Il primo capitolo (pp. 11-46) è consacrato all’analisi della sfera giuridica e in particolare a come vennero imposti e applicati divieti e leggi alle comunità assoggettate. L’autore sottolinea che la principale fonte ispiratrice per il trattamento dei nuovi sudditi era, per entrambe le fedi religiose, il testo sacro. Tuttavia, spesso le conseguenze di tale trattamento dipendevano anche da come avveniva la conquista e dalle dinamiche sviluppatesi in seguito tra soggiogati e conquistatori. Attraverso un continuo confronto tra dominatori e dominati, Berto riflette sui divieti imposti dalla maggioranza sulla minoranza, osservando come in area musulmana si tendesse molto di più, rispetto a quella cristiana, a sottolineare visivamente e socialmente la minoranza religiosa tramite l’imposizione di divieti e obblighi, per i quali spesso venivano create narrazioni legislative dalle infondate origini storiche e indebitamente attribuite a Maometto; divieti e obblighi vennero comunque applicati e fatti rispettare con molta flessibilità, nonostante le pene previste. Tuttavia, anche nel caso in cui i governatori volessero fronteggiare e reagire alla trasgressione delle minoranze, permisero che gli imputati – cristiani o musulmani – potessero difendersi dalle accuse tra i loro corregionali presso tribunali presieduti da magistrati della loro stessa fede e seguendo le proprie leggi, a patto però che esse non fossero in contrasto con la legislazione secolare e religiosa dei dominatori. Quest’ultimi, del resto, avevano tutto l’interesse che i sudditi, tra i quali molti detenevano un cospicuo patrimonio economico, non si sentissero oppressi e fortemente emarginati dalla società. Tale atteggiamento comportò che spesso i conquistati preferissero ricorrere ai tribunali dei dominatori.
Il secondo capitolo (pp. 47-83) è dedicato ai processi di conversione che ogni religione, in virtù delle sue aspirazioni universalistiche, avviava nei confronti dei sudditi. Berto sottolinea due aspetti importanti: il primo è il valore simbolico di questo processo, in quanto nella logica dei dominatori avrebbe confermato la verità della propria fede e la fallacia di quella altrui. L’altro aspetto importante sottolineato dall’autore è che cristiani e musulmani condivisero il principio secondo il quale questo processo di conversione doveva avvenire volontariamente, senza l’utilizzo di forme di coercizione. Di fatto capitava, soprattutto in area musulmana, che i cristiani offrissero i loro figli alla fede dei dominatori affinché potessero fare carriera. Inoltre, vi erano casi in cui la scelta di convertirsi alla fede dei dominatori veniva presa per evitare di sentirsi sudditi di seconda classe, per mantenere lo status sociale ed economico (talvolta addirittura per migliorarlo), oppure per sfuggire alla schiavitù. Particolarmente interessante è l’analisi sulle conversioni di ecclesiastici cristiani: molto spesso sacerdoti, chierici e monaci aderivano liberamente alla fede islamica per fuggire dal voto di obbedienza che avevano nei riguardi dei loro superiori, oppure per non sottostare alla pena imposta dalle autorità ecclesiastiche. Accanto alla necessità e all’interesse del cambio di fede e ai casi di criptofedeli, vi erano conversioni spontanee. Berto sostiene che i cristiani erano attratti dalla semplicità dei riti musulmani, dal rigore del culto a Dio e dalle forme mistiche diffuse popolarmente. Questo elemento, osserva l’autore, portò i musulmani a sviluppare un interesse missionario, affidato in molti casi alla confraternita dei dervisci mevlevi.
Il terzo capitolo è dedicato agli impieghi pubblici e privati e ai luoghi di lavoro condivisi tra maggioranza e minoranza religiosa. L'autore evidenzia come, in seguito all’occupazione dei territori, i nuovi governanti erano consapevoli di non riuscire da soli a guidare strutture amministrative già avviate e, pertanto, preferirono che la pubblica amministrazione continuasse a essere gestita dagli autoctoni, secondo la loro lingua. Anche in altri settori lavorativi, i dominatori adottarono atteggiamenti in certa misura accomodanti e di ammirazione (soprattutto per l’arte), con l’intento di ricavare qualche vantaggio economico.
Il quarto capitolo (pp. 117-145) focalizza l’attenzione sulla comune condivisione di pratiche e luoghi devozionali. Berto presenta due tipologie di luoghi condivisi: il primo è quello esterno, spesso di origine biblica, verso il quale si compiono atti devozionali privati o collettivi. Il secondo, invece, è interno, nella sfera domestica, dove musulmani e cristiani si incontrarono per festeggiare e dialogare insieme. Luoghi e credenze popolari furono i binari entro i quali si coltivarono forme di fede sincretica.
I capitoli quinto e sesto (pp. 146-178 e 179-196) sono dedicati ai casi di ostilità e ai loro più o meno gravi risvolti. Come in tutti gli agglomerati umani in cui convivono diverse religioni, è normale che vi siano degli scontri (durante il periodo preso in esame dall’autore, i casi di ostilità in area musulmana nei riguardi di sudditi appartenenti a un’altra religione furono piuttosto modesti); più intensa e violenta, sottolinea Berto, fu l’ostilità in aera cristiana, dove nei confronti della minoranza musulmana vennero messe in atto soluzioni drastiche per scacciare dai territori della croce i fedeli della mezzaluna. Particolarmente interessante in quest’ultimo caso è la proiezione che l’autore fa sulla storia a noi più contemporanea (fine XIX secolo – 2015 circa), caratterizzata dall’impossibilità di raggiungere un accordo pacifico tra musulmani e cristiani.