Reviewer Andrea Santangelo - Istituto Storico della Resistenza e della storia contemporanea della provincia di Rimini
CitationPotremmo racchiudere la recensione del volume in una sola parola: finalmente!
Finalmente un libro che raccoglie le meticolose ricerche di uno storico della nuova generazione su di un momento tra i meno documentati della storia dell’esercito italiano dal 1861 a oggi. La stragrande maggioranza degli autori, infatti, si è soffermata sulle due guerre mondiali, sulle operazioni coloniali, sulle guerre fasciste, sulla seconda fase risorgimentale (quella del 1866 per intenderci), sulle operazioni di peacekeeping e di peace-enforcement, qualche impavido studioso poi si è concentrato sul ruolo italiano nella Guerra fredda, ma pochi hanno affrontato il periodo immediatamente successivo alla fine del più distruttivo conflitto che l’umanità abbia mai visto. Uno scontro che aveva letteralmente raso al suolo l’Italia, i suoi edifici, le strutture produttive e le infrastrutture, ma anche le sue istituzioni politiche, economiche e sociali.
Quello di Andrea Argenio è un libro che risponde a tutta una serie di domande importanti per capire come è nata la nostra repubblica. Cosa pensavano, dicevano e tramavano i vertici militari delle Forze Armate italiane prima del referendum del 2 giugno 1946? Che progetti avevano i vari capi politici sul futuro dell’Esercito Italiano? Cosa succedeva nelle caserme prima e durante le fatidiche elezioni politiche del 1948? Qualche generale aveva mai pensato a un colpo di stato?
Alla fine della Seconda guerra mondiale un esercito sconfitto, e dai più considerato colluso con il deposto regime fascista, si ritrovò ad avere a che fare con una nuova forma di governo, una costituzione di stampo repubblicano e delle inedite preoccupazioni sia di ordine pubblico sia di difesa di sin troppo deboli confini nazionali.
Questo sarebbe stato di per sé un compito da far tremare i polsi a chiunque, ma era ulteriormente complicato dal fatto che la nuova classe politica antifascista non si fidava affatto dell’esercito, molti dei nuovi eletti al Parlamento e dei quadri dei partiti, infatti, erano ufficiali di complemento reduci dai vari fronti della guerra e avevano sperimentato da vicino l’impreparazione tecnica, tattica e strategica delle armi italiane. Stessa cosa per chi aveva fatto il soldato. Queste persone si ritrovavano ad aver a che fare politicamente con gli stessi generali (o la gran parte di essi) che avevano dato prove belliche di incompetenza (a esclusione di alcuni assai capaci, come il Maresciallo Messe) e che rappresentavano ancora i vertici dell’esercito ormai in procinto di diventare repubblicano. Come fidarsi? Non era possibile: quel periodo a cavallo tra la fine del 1945 e i primi sei mesi del 1946 fu decisamente improntato all’incertezza e al caos informativo. Nessuno si fidava di nessuno. È avvincente seguire nelle pagine di Argenio le quotidiane incomprensioni e i sospetti tra i vari presidenti del consiglio dei ministri, i ministri della Guerra (poi della Difesa), i sottosegretari alle tre forze armate e i capi di stato maggiore di esercito, marina e aeronautica nei mesi e nelle settimane antecedenti il referendum sulla monarchia. Il presidente del consiglio Ferruccio Parri, ad esempio, si fidava di una sola fonte informativa, Luca Osteria, che lo teneva informato sulle dinamiche interne ai partiti della coalizione governativa, sullo spirito dell’opinione pubblica, sui servizi segreti stranieri e sulle gerarchie delle Forze Armate. Il che è abbastanza paradossale visto che Luca Osteria era stato il più famoso agente dell’OVRA che aveva infiltrato il partito comunista italiano in Francia, che aveva arrestato esponenti dell’antifascismo in Australia, che aveva messo su una finta organizzazione clandestina di sabotatori antifascisti, Terzo Fronte, con i soldi e le armi dell’Intelligence Service inglese, che sotto la R.S.I. aveva lavorato per le SS di Walter Rauff (SS-Standartenführer comandante della Gestapo e dello SD in nord Italia) e che a un certo punto si era “ravveduto” e aveva cominciato a collaborare con alleati e partigiani, liberando dalla prigionia vari esponenti della resistenza, tra cui proprio Ferruccio Parri e Indro Montanelli. Nonostante il curriculum (o forse proprio per quello) Parri si fidava solo di lui. Ma, come dicevamo, era davvero difficile in quei giorni trovare qualcuno che si fidasse di qualcun altro. Parlavi con qualcuno, ma non sapevi realmente chi avevi davanti, per esempio l’ammiraglio Raffaele De Courten era considerato un monarchico dai repubblicani e un repubblicano dai monarchici. Il generale Paolo Puntoni, l’uomo di fiducia di re Vittorio Emanuele III, non si fidava del capo di stato maggiore Raffaele Cadorna, il “generale della Resistenza”, perché lo vedeva troppo debole e succube dei partiti di sinistra. Il generale Arnaldo Azzi, convinto repubblicano che aveva combattuto con la resistenza comunista in Albania, e il colonnello Ravajoli, fondatore del Centro Studi Militari, non si fidavano della stragrande maggioranza degli ufficiali in servizio (soprattutto di Utili, Berardi, Zambon, Primieri e Trabucchi) e temevano che tramassero con la Casa Reale per un colpo di stato che sarebbe stato guidato da Messe e De Courten. Il partito comunista si fidava solo di pochissimi ufficiali, tra cui il generale Giacomo Carboni, l’inetto difensore di Roma, che aveva anche un torbido passato come capo del SIM (Servizio Informazioni Militari). L’avvocato Palermo, sottosegretario alla Guerra per il PCI, si fidava del generale Taddeo Orlando e detestava e temeva le trame del generale Paolo Berardi. Di conseguenza Berardi e Orlando, che pure erano stati scelti dagli Alleati, con il Maresciallo Messe, per ricostruire le forze armate italiane, si disistimavano a vicenda.
E in tutto questo sospettarsi a vicenda, non va dimenticata l’ingombrante presenza delle missioni militari alleate, che non volevano certo una rapida ricostruzione di un forte e numeroso esercito italiano, anzi gli inglesi ne auspicavano uno nettamente rimpicciolito e che si occupasse solo di ordine pubblico. Tanto che nel dicembre 1945 il generale Claudio Trezzani, all’epoca Capo di stato maggiore generale, scriveva: «se così fosse, migliore soluzione sarebbe portare a 200.000 la forza dei carabinieri, abolire l’esercito, dichiarare la neutralità perpetua e affidarci alla generosità e alla buona fede delle nazioni confinanti».
Il risultato di questo clima di sfiducia globale fu che l’esercito si allontanò dalla politica e la politica si interessò dell’esercito solo per tenerlo a bada “democraticamente” con commissioni e strutture ad hoc. Si acuì insomma quella scissione tra esercito e politica che era già accaduta nel ventennio mussoliniano, dove i vertici militari si erano in pratica autogovernati e non erano stati fascistizzati, se non nei casi isolati come quello di Rodolfo Graziani. I ministri della Difesa non furono più degli “addetti ai lavori” o degli esperti in materia militare (con l’eccezione di Randolfo Pacciardi) e questo lasciò un notevole spazio di manovra ai rispettivi capi di stato maggiore.
Comunque, nonostante la sfiducia, il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 si svolse senza particolari problemi, grazie anche all’opera di vigilanza e moderazione che il liberale Manlio Brosio, ministro della Guerra, effettuò nel corso del suo mandato. Le preoccupazioni di Nenni e Togliatti di un golpe monarchico si rivelarono infondate e furono pochissimi gli ufficiali (come il generale Puntoni) che si dimisero per non prestare giuramento alla Repubblica italiana.
L’esercito volle occuparsi il meno possibile di ordine pubblico, demandando questa incombenza a polizia e carabinieri. Non lo volle fare neppure nei convulsi giorni seguenti l’attentato a Palmiro Togliatti, nel luglio 1948, quando sembrava che i comunisti stessero per riprendere le armi e tornare in montagna.
Il primato delle autorità civili su quelle militari stava cambiando l’ontologia stessa dei militari di carriera. Il primo momento in cui politica e forze armate italiane collaborarono fu quello relativo alla decisione di entrare nella NATO come paese fondatore. Nonostante le resistenze della sinistra e di alcuni generali come Trezzani, che auspicavano una terza via (una sorta di autarchia sostenuta dagli USA), emerse una sostanziale unanimità sulla scelta occidentale e atlantista. Il viaggio negli Stati Uniti del generale Efisio Marras, nel dicembre 1948, si rivelò fondamentale per chiarire il futuro ruolo dell’Italia nella geopolitica internazionale. Alcide De Gasperi, firmando l’adesione dell’Italia tra i soci fondatori della NATO (1949), sanciva l’inedita collaborazione tra militari e politici nel ricercare e ottenere un obiettivo politico strategico. Se si pensa al decennio appena trascorso era un fatto non da poco.