Reviewer Ivan Portelli - Istituto di Storia Sociale e Religiosa di Gorizia
CitationLe riflessioni e gli studi che Raoul Pupo ha dedicato alle vicende dell'area alto-adriatica tra Ottocento e Novecento trovano nel suo ultimo volume una sintesi che ruota attorno al tema della violenza. O meglio, verrebbe da dire, delle diverse violenze di natura politica che hanno caratterizzato la storia di queste terre.
Nel costruire un percorso unitario, capace di abbracciare le vicende frastagliate e conflittuali di questo angolo particolarmente complesso di mondo, diventa necessario considerare la pluralità delle situazioni e dei contesti che vi si sviluppano a più livelli. Peraltro, sottolinea a più riprese l'autore, le violenze non vanno collocate solo nel contesto locale – come molta storiografia ha spesso fatto – ma in uno ben più ampio. Allargando lo sguardo si colgono meglio le ragioni e le dinamiche che stanno all'origine della lunga scia di violenze che ha tormentato quest'area, permettendo di considerarle non come fatti esclusivi ed eccezionali ma articolazioni di fenomeni di ben maggior estensione.
D'altra parte, quella incentrata sul tema della violenza non è l'unica storia possibile della regione alto-adriatica, come dichiara fin dalla prefazione lo stesso autore. Sussistono anche altre chiavi di lettura, che offrono prospettive diverse e consentono di esplorare ulteriori aspetti rispetto a quanto nel libro emerge.
Nella sua ricostruzione, Pupo riesce con grande equilibrio ad offrirci un'interpretazione viva e attenta, che permette anche a ogni lettore, compresi quelli poco addentro alle intricate vicende dell'area esaminata, di coglierne le complesse sfumature. Le tappe in cui si snoda la narrazione costituiscono un itinerario che muove da un titolo evocativo (una nota citazione dannunziana) e capace di calarci rapidamente nel contesto.
Il percorso parte dalle violenze di fine Ottocento. Violenze che possono essere di matrice politica e sociale, come nel caso delle rivolte operaie di fine secolo nella Trieste industrializzata e cosmopolita, di cui troviamo riferimento sulla copertina del volume; oppure che possono muovere da rivendicazioni nazionali. Tale è per certi versi il caso dell'episodio che vede protagonista Guglielmo Oberdan, che verrà poi assunto nel martirologio irredentista italiano. A sua volta la forza pubblica esercita contro queste espressioni di violenza una risposta dura. L'ordine – auspicato – o il disordine – reale – del finis Austriae si amplificano nella città cosmopolita, dove le tensioni si sovrappongono. Le aspettative nazionali (italiane, slovene, croate), che ritroviamo a ispirare un diffuso associazionismo politico e culturale, unitamente alla lotta di classe contribuiscono a generare un clima di alta conflittualità politica.
La Grande Guerra, con il suo enorme carico di violenza, non viene qui affrontata direttamente ma nei suoi prodromi (compresi gli assalti contro le centrali liberal-nazionali triestine nel maggio del 1915) e nelle sue drammatiche conseguenze, nelle quali la scia di violenza è impressionante e si inscrive nelle molteplici situazioni di crisi che l'Europa conosce in quel frangente. La nascita di nuovi stati nazionali (qui il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), la volontà di affermazione di un nuovo dominio, la definizione dei nuovi confini che porta a nuove sopraffazioni, l'incapacità di gestire il malcontento degli ex-combattenti, le istanze rivoluzionarie: tutti elementi che confluiscono nei torbidi del momento. Nel dopoguerra l'esperienza di Fiume non è un semplice episodio ma è sintomatica delle tensioni in atto, e ha avuto una imponente risonanza internazionale (ricordiamo che lo stesso autore ha dedicato alla città quarnerina un efficace volume).
L'azione del primo fascismo nella Venezia Giulia assume una dimensione radicalmente nazionalista: al confine orientale il nemico principale è lo "slavo"; l'incendio dell'Hotel Balkan (il Narodni Dom di Trieste) è il funesto simbolo dell'azione squadrista antislava, ma un episodio tutt'altro che isolato. Una violenza che rapidamente si istituzionalizza, sostenuta dallo Stato divenuto fascista, che colpisce gli individui e la dimensione identitaria delle comunità slave della Venezia Giulia. Violenza di Stato che si abbatte sull'identità dei singoli, prospettando una vera e propria "bonifica etnica" che interessa la metà della popolazione della regione. I cambi di cognome come anche i divieti all'uso pubblico di sloveno e croato propongono un ventaglio di drammi personali e pubblici; mentre d'altra parte diversi personaggi di spicco pienamente inseriti nelle strutture del regime (dai Cosulich a Suvich) non hanno bisogno di cambiare alcunché. Si pone anche il problema di quanti lasciano l'Italia per la Jugoslavia: difficile arrivare a un computo preciso, ma vanno contati a decine di migliaia. La politica snazionalizzatrice viene contrastata da rare azioni di terrorismo, duramente represse, attraverso reti di lotta clandestina antifascista, ma soprattutto provoca una generale avversione, che trova riscontri in un sentimento comune e diffuso, oltre che in alcune produzioni artistiche. A tale proposito sono significativi degli affreschi realizzati in diverse chiese dal pittore sloveno Tone Kralj: tra i soldati che flagellano il Cristo si può riconoscere il Duce.
Riprendendo temi già più volte affrontati, Pupo dedica ampio spazio alle vicende legate al periodo della Seconda guerra mondiale; questo gli permette di esaminare di nuovo una serie impressionante di tensioni e di drammi. L'atteggiamento dell'esercito italiano, l'occupazione nazista, la presenza del Fronte di Liberazione jugoslavo (OF) a guida comunista, ma anche la collaborazione con gli occupanti offerta da settori importanti delle élite locali delle diverse nazionalità.
Anche all'interno della Resistenza troviamo posizioni che esprimono aspettative molto lontane. Pesa la vicinanza del movimento di liberazione jugoslavo: per molti comunisti italiani la prospettiva rivoluzionaria incarnata dall'OF è un obiettivo; per altri – sia comunisti, sia antifascisti di diverso colore – invece la prospettiva nazionale italiana va difesa. L'eccidio di malga Porzûs è esito tragico ed emblematico di tali contrasti e di queste prospettive e aspettative, con tutti gli strascichi che ha avuto.
La presa del potere da parte dell'esercito di liberazione jugoslavo, in chiave nazionale e rivoluzionaria, è contro i tedeschi, contro lo stato italiano e contro quanti contrastano l'instaurarsi di un governo comunista: questo porta a esiti drammatici per le stragi contro i nemici del popolo (al di là della nazionalità) oltre all'esodo di buona parte della popolazione italiana di Istria e Dalmazia.
Necessariamente il tema delle foibe occupa una posizione rilevante. Qui Pupo riprende le analisi già elaborate in diversi precedenti studi, offrendo una sintesi efficace, che non si limita alla ricostruzione dei tragici eventi – cercando ancora, e ce n'è bisogno, – di riportarli su un piano storico, ben distinto dalla mera lotta politica che ancora ne fa ampio uso.
Il dopoguerra in quest'area geografica si protrae pericolosamente. Necessariamente vengono considerate le lunghe e tormentate vicissitudini legate alla definizione dei nuovi confini, in cui un nodo a lungo irrisolto resta la posizione di Trieste, in quella condizione di limbo rappresentata dal mai realmente completato Territorio Libero (TLT). Si inserisce in tale contesto il caso di Pola e della strage di Vergarolla, definita dall'autore la prima strage italiana (all'epoca Pola era un'enclave controllata dagli alleati ma formalmente ancora italiana), come anche la complessa vicenda del citato esodo di gran parte della popolazione italiana d'Istria e Dalmazia o le violenze di piazza che continuano a insanguinare Trieste. In sostanza «la fine delle ostilità fra gli eserciti non coincide affatto con la cessazione dei conflitti accesisi durante la guerra» (p. 249).
C'è un filo rosso nelle violenze di marca politica che attraversa il Novecento. Ne esce una tragica galleria degli orrori («un cammino faticoso e per molti versi inquietante»). Pupo riconosce a posteriori due stagioni: la «stagione delle fiamme» e la «stagione delle stragi», che fino a un certo punto si possono facilmente ricollegare a guerra e dopoguerra, in una fluidità che segna la «fragilità periodizzante» di queste categorie. Le fiamme colpiscono le centrali nazionali slave ma anche le Camere del lavoro, i giornali, i cantieri e si sviluppano in buona parte d'Europa. Le stragi, legate alla Seconda guerra mondiale, iniziano ben lontano, già con l'occupazione italiana in Bosnia e Montenegro nel 1941, e poi si avvicinano come una pericolosa onda che produce morte e memorie. Il ricordo collettivo di questi fatti produce effetti difficili da superare: «sulle profondità delle ferite delle memorie collettive, l'altezza reale dei mucchi di cadaveri ha una rilevanza limitata» (p. 251). Quanto questa storia di violenza abbia condizionato le memorie e le percezioni collettive delle strade che hanno condotto al presente è altrettanto evidente: la riproposizione di divisioni e giustificazioni nella attuale dialettica politica e sociale ne è una dolorosa testimonianza.