VI, 2023/1

Renata Segre

Preludio al Ghetto di Venezia

Review by: Alessandra Veronese

Authors: Renata Segre
Title: Preludio al Ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516)
Place: Venezia
Publisher: Edizioni Ca' Foscari
Year: 2021
ISBN: 9788869695537
URL: link to the title

Reviewer Alessandra Veronese - Università di Pisa

Citation
A. Veronese, review of Renata Segre, Preludio al Ghetto di Venezia. Gli ebrei sotto i dogi (1250-1516), Venezia, Edizioni Ca' Foscari, 2021, in: ARO, VI, 2023, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/1/preludio-al-ghetto-di-venezia-alessandra-veronese/

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Il volume di Renata Segre nasce da una considerazione di carattere storiografico: per secoli coloro che si sono occupati – in maniera più o meno puntuale – della presenza ebraica nella Serenissima hanno dato per scontato che la storia ebraica veneziana cominciasse davvero ad essere significativa solo con l’istituzione del Ghetto nel 1516. Non ci sarebbe quindi stato alcuno stabile insediamento ebraico prima di tale data, e gli storici – anche coloro che hanno dedicato maggiore attenzione alla presenza ebraica nelle terre venete – avrebbero accolto abbastanza acriticamente la narrativa che voleva gli ebrei pressocché assenti da Venezia sino agli albori dell’età moderna. In alcuni casi, si è invocata la carenza di fonti, che non avrebbe consentito, anche se lo si fosse voluto, di approfondire la questione.

Il merito principale della Segre è quindi quello di avere messo in discussione la vulgata corrente, dedicandosi con grande pazienza allo spoglio delle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Venezia. Compito improbo, tre lustri di paziente ricerca e alla fine la pubblicazione di un volume che può a buon diritto essere considerato il lavoro di una buona parte della vita.

Il libro consta dodici capitoli. Il primo (Ebrei tracciati a Venezia, sec. XIII-XIV) si concentra sulle prime presenze ebraiche attestate con una certa continuità nella Serenissima, e si apre con un paragrafo dedicato ai medici e agli scienziati ebrei (1250-1330). Le informazioni fornite sono di indubbio interesse, e meriterebbero di essere approfondite. Ad esempio, non risulta chiarissimo se il maestro Elia da Ferrara fosse veramente ebreo: fatto questo debitamente segnalato dall’autrice (p. 25). Certo è che nel 1326, mentre dettava il suo testamento al notaio, Elia risulta avere dei figli dai nomi tutt’altro che ebraici (o comunque, utilizzati normalmente dagli ebrei italiani, per i quali era assolutamente normale l’uso di un nome ebraico per gli affari interni alla qehillah e di un nome 'cristiano' per i rapporti con il mondo esterno, come ampiamente dimostrato dagli studi di Colorni). Luciano e Marco si chiamavano i figli di Elia, Alvise e Guglielma i figli di Marco: tutti nomi 'veneziani', e infatti l’autrice avanza l’ipotesi che i figli del medico fossero stati tenuti a battesimo proprio da patrizi della Serenissima. Non possiamo quindi non domandarci se anche Elia fosse un neofita, e da quanto: perché ovviamente se il suo arrivo a Venezia fosse avvenuto solo dopo il battesimo, anche la sua presenza e la sua attività nella città lagunare andrebbero probabilmente considerate in modo diverso e non si potrebbe parlare di stabile presenza ebraica, perlomeno nel corso del Duecento. Lo stesso discorso vale per gli altri esempi portati dalla Segre: tutti i medici ebrei presenti a Venezia sono infatti neofiti, fatta eccezione forse per uno. Una stabile presenza ebraica è viceversa ben documentata a partire dalla fine del Trecento, nel paragrafo dedicato agli ebrei feneratori: si tratta pressoché solamente di ebrei ashkenaziti, distribuiti in varie contrade.

Il secondo capitolo analizza la questione dei primi insediamenti ebraici nella Terraferma veneziana, che secondo l’autrice furono una conseguenza del sostanziale insuccesso dei banchi feneratizi nella Serenissima. Segre analizza, sulla scorta della recente bibliografia, i principali insediamenti ebraici di Terraferma, a partire dalla comunità di Treviso, una delle poche vere comunità ebraiche del centro nord (e non un semplice insediamento), composta quasi integralmente da ashkenaziti. Ricostruisce anche le vicende di Padova e Mestre, inserendole nella complessa dialettica politica esistente tra comunità soggette e Dominante.

Il terzo capitolo è dedicato al dogado di Tommaso Mocenigo (1414-1423). Secondo l’autrice, in questo periodo in Veneto si tendeva a privilegiare l’insediamento ebraico nelle cosiddette «quasi città» (borghi, castelli). La conseguenza fu una diffusione a macchia di leopardo sul territorio, motivata da esigenze locali e caratterizzata dall’esclusione degli ebrei da qualunque ruolo nel piano di sviluppo economico e sociale. Era più semplice, per gli ebrei, insediarsi dove potevano vantare una dipendenza diretta da una famiglia o da una consorteria predominante, cosa che rendeva appunto i borghi spesso più accoglienti rispetto alle città. Venezia, d’altronde, operata la conquista della Terraferma, impose un sistema economico subalterno alle proprie esigenze, e in questo quadro gli ebrei potevano venire accolti solo se risultavano utili (addirittura, a giudizio dell’autore, indispensabili). Tale stato di cose rese non di rado complessa la coesistenza tra gruppi ebraici e società cristiana.

Si disegna poi una sorta di mappa degli insediamenti ebraici, che entrarono a far parte dei dominii veneziani man mano che la Serenissima si mostrava capace di incorporare nei suoi dominii porzioni di territorio. La geografia degli insediamenti ebraici ci proietta a nord di Padova: in gran parte di tali insediamenti, salta all’occhio la costante e predominante presenza di ebrei ashkenaziti. Per quanto riguardava Verona e Vicenza, il ritorno di un cospicuo numero di feneratori si ebbe nel corso del primo decennio di dominazione veneziana. Attestata è anche la presenza ebraica nella patria del Friuli, a Udine in modo particolare (oltre che a Trieste, che però godeva di uno statuto particolare). Ad ovest, in direzione della frontiera lombarda, si trovavano nel secondo decennio del Quattrocento, Vicenza e Verona: quest’ultima fu una delle strutture feneratizie più longeve del Veneto. Si parla, dunque, molto poco della presenza ebraica nella Serenissima, mentre si cerca di analizzare con attenzione l’espansione della rete dei banchi nella Terraferma veneta.

Il quarto capitolo tratta del lungo dogado di Francesco Foscari (1423-1457). L’autrice sottolinea che tale periodo, segnato dalle guerre anti-viscontee, si caratterizzò per avere plasmato la presenza ebraica in Veneto. Fu questo il periodo della massima diffusione sul territorio e dell’emergere di caratteri peculiari ai singoli nuclei. Alcune affermazioni inducono a ulteriori riflessioni, come quella a p. 114, relativa al prestito ebraico a Firenze. Come ben mostrato da Michele Luzzati, la tarda introduzione dei banchi ebraici a Firenze fu dovuta – più che al rifiuto dei banchieri cristiani all’introduzione del prestito ebraico – alla scarsa propensione dei banchieri ebrei ad accettare tassi di interesse ritenuti troppo bassi. Tra l’altro, il paragone con la Toscana funziona poco, anche in considerazione dei tassi in vigore nella Repubblica fiorentina, assai più elevati di quelli applicati dagli ebrei veneti. In questo capitolo compaiono personaggi residenti – più o meno legalmente – a Venezia, come quel Moise Rappa che poteva permettersi di risiedere stabilmente nella Serenissima.

Il quinto capitolo si concentra sulla politica papale da Martino V a Niccolò V (1417-1455). L’autrice sottolinea il particolare atteggiamento di Venezia nei confronti della Chiesa, e la netta propensione della Serenissima ad evitare interferenze da parte del papato nelle proprie decisioni, incluse quelle che avevano a che fare con la presenza ebraica. In alcuni casi, Venezia riuscì a modificare a proprio vantaggio alcune prese di posizione dei pontefici (p. 204, delibere di Martino V). L’atteggiamento nei confronti degli ebrei, secondo Segre, fu anche alla base di taluni comportamenti particolarmente spregiudicati da parte di alcuni appartenenti alla minoranza ebraica. Mi sembra, tuttavia, che comportamenti simili fossero adottati anche in altri contesti geografici, e che il caso veneziano non fosse dunque del tutto peculiare.

Il sesto capitolo è dedicato alle città suddite nella seconda metà del Quattrocento. L’argomento viene trattato seguendo un criterio rigorosamente geografico: si parte dagli insediamenti sulla direttrice ovest-est, da Bergamo a Verona e a Padova. L’autrice discute l’uso di «hebrei» al posto di «iudei», a suo avviso più favorevole. Considerazione questa che può forse essere corretta per l’ambito veneto, dalla Segre ben conosciuto, ma che certamente non è applicabile ad altri contesti geografici. Più interessante l’uso del termine «cives», inteso a indicare non tanto la condizione di cittadini, quanto una lunga storia di permanenza in una località da parte della compagine ebraica. L’affermazione a p. 233, secondo la quale la Dominante non intendeva in alcun modo creare una «vera e propria collettività ebraica», formata da diversi ceti sociali, ma favoriva la presenza solo e unicamente degli ebrei prestatori, meriterà sicuramente ulteriori indagini in futuro, in particolare sulla vastissima documentazione notarile di Terraferma. Il capitolo, come ho già detto, procede con una disamina dei vari insediamenti. Il discorso si interrompe – o meglio, si completa – con l’analisi della questione relativa alle accuse di omicidio rituale e all’utilizzo della stampa in tali vicende. L’autrice esamina casi tra loro diversi, soprattutto per gli esiti: in alcuni casi (come a Portobuffolé) mortali, in altri assai meno gravi (Bassano e Marostica). Viene trattato in breve anche il caso più famoso per l’area 'italiana', vale a dire quello di Trento, che portò all’eliminazione dell’intera comunità. Di un certo interesse risulta la reazione ebraica a due casi in cui le false accuse avevano portato alla condanna a morte dei presunti colpevoli: mentre Trento fu dichiarata città non grata, Portobuffolè tornò già a fine Quattrocento ad essere appetibile per altri ebrei. Relativamente a Padova, va segnalato a p. 282 un riferimento probabilmente impreciso: è stato ben messo in discussione da Michele Luzzati l’assunto secondo il quale nello studio patavino gli ebrei potevano addottorarsi. Studiare, certamente sì. Conseguire il titolo, probabilmente no.

Sulla direttrice nord-sud, l’autrice individua altri insediamenti ebraici: partendo da Treviso (città magistralmente studiata da Angela Möschter), si dedica poi a Crema e Rovigo. Prosegue poi con i gruppi ebraici stanziati nella Patria del Friuli, in primis con Udine, estremo avamposto dell’ebraismo ultramontano in terra veneta. A Udine, a metà Quattrocento, dovevano transitare non pochi israeliti, se esistevano ben due 'ospizi' per alloggiare gli ashkenaziti. Uno di questi era gestito da un neofita, dato questo interessante, anche se l’autrice non rileva quanto ciò fosse indizio della mancanza di una legislazione che cercasse di limitare i contatti tra ebrei e cristiani novelli. Un altro dato è interessante, vale a dire la frequentazione del postribolo da parte ebraica e la preferenza per prostitute provenienti dalle terre tedesche (ma cristiane). Udine ospitava poi l’unica sinagoga pubblica della regione. L’autrice rileva come proprio Udine – dopo la gravissima crisi che aveva colpito Treviso – si avviasse a inizio Cinquecento a rivestire un ruolo centrale per l’ebraismo veneto.

Il settimo capitolo approfondisce la questione dei banchi feneratizi operanti a Mestre e Venezia nei secoli XV e XVI, anche se per stessa ammissione dell’autrice le informazioni sono poche e le fonti ebraiche non ci soccorrono, trattando prevalentemente di questioni culturali e rituali di tradizione ashkenazita. Indubbiamente la carenza documentaria può essere in parte fatta risalire agli incendi appiccati alla città nel 1509 e 1513 dalle truppe imperiali, ma forse ha anche a che vedere con il suo essere una sede percepita come «minore». Certo è che dalle poche testimonianze superstiti si ha l’impressione di un gruppo ebraico divisa in varie comunità, ognuna portatrice di diversi interessi economici. In ogni caso, Mestre fu l’unico insediamento di Terraferma a ottenere un riconoscimento ufficiale di una struttura comunitaria ebraica. La fine del Quattrocento, per altro, vide una gravissima crisi finanziaria alla quale sembrava che la finanza ebraica potesse in qualche modo offrire sollievo.

L’ottavo capitolo tratta dei rapporti di Venezia con gli ottomani e del coinvolgimento di alcuni ebrei. Si tratta di un capitolo interessante, che contribuisce a mettere in luce l’attività di alcuni personaggi, spesso utilizzati dalla Serenissima per delicate missioni diplomatiche, anche grazie ai contatti che gli ebrei veneziani avevano con correligionari dimoranti nelle terre ottomane. Particolarmente piacevole il paragrafo dedicato al medico ebreo del sultano, Jacob, e a David Maurogonato. I contatti tra i due accrebbero la buona disposizione del sultano nei confronti di Venezia, dei suoi nobili e dei suoi mercanti.

Il nono capitolo si concentra sulla questione degli ebrei iberici e dei marrani nel Levante, in Puglia e a Venezia, mentre il decimo è dedicato a L’Università ebraica da Mestre ad Agnadello (1509). L’undicesimo capitolo ruota attorno alle vicende della guerra anti-imperiale (1511-1515). Ciò che colpisce di questo periodo di inizio Cinquecento è la continua emorragia di denaro ebraico per sostenere le lunghe e non sempre vittoriose guerre della Serenissima. Furono, questi anni, caratterizzati da una politica se possibile ancora più ondivaga da parte delle autorità veneziane, indecise tra ideale aderenza a un principio religioso che avrebbe mirato a limitare la presenza ebraica e un continuo bisogno di denaro, fornito almeno in parte proprio dai ricchi banchieri ebrei dei loro dominii. Fu proprio questo, comunque, il periodo in cui la città lagunare si trasformò gradualmente da «città proibita» a nuovo centro dell’ebraismo veneto. Periodo, per altro, caratterizzato anche da un intensificarsi della predicazione minorita e da un aumento del numero delle conversioni al cristianesimo. Furono questi, anche, gli anni che videro perdere di importanza le tre comunità di Mestre, Padova e Treviso, che avrebbero cessato presto di rivestire un ruolo da protagoniste.

Il dodicesimo e ultimo capitolo, infine, cerca di analizzare la condizione ebraica a Venezia e di comprendere se si possa parlare di un preludio al Ghetto.

Completano il volume un apparato (glossario, norme editoriali, abbreviazioni), un elenco delle fonti manoscritte, una bibliografia e un indice analitico.

Nel complesso, il volume è di grande interesse e segna una pietra miliare negli studi sugli ebrei della Serenissima. Si presta, però, ad alcune critiche. In primo luogo, il materiale presentato è davvero moltissimo (e non si può certo considerare ciò una colpa), ma spesso si fatica a seguire il filo del discorso. La scelta di utilizzare un criterio rigorosamente cronologico non sempre – a mio avviso – risulta vincente. Mancano anche alcuni supporti (cartine geografiche, alberi genealogici) che avrebbero reso sicuramente più semplice la lettura del volume. Non si può non rilevare, inoltre, che esistono molte carenze nella bibliografia: vero è che l’autrice ammette di non essere pienamente aggiornata, in alcuni casi però la non conoscenza di alcuni interessanti contributi non le consente di valutare appieno il significato di taluni documenti; e nonostante quanto promesso nell’introduzione, lo spazio dedicato alla Dominante resta pur sempre limitato, mentre gran parte del discorso si snoda sugli insediamenti e sulle comunità di Terraferma. Naturalmente l’avere reperito così tanto materiale negli archivi aiuta a comprendere più a fondo la politica della Serenissima in tema di ebrei, e di questo non si può non essere grati all’autrice.

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