VI, 2023/1

L'ombra del duce, Rethinking Fascism

Review by: Brunello Mantelli

Authors: Wolfgang Schieder
Title: L’ombra del duce. Il fascismo italiano in Germania
Place: Roma
Publisher: Viella
Year: 2022
ISBN: 9788833137742
URL: link to the title

Editors: Andrea Di Michele, Filippo Focardi
Title: Rethinking Fascism. The Italian and German Dictatorships
Place: Berlin/Boston
Publisher: De Gruyter Oldenbourg
Year: 2022
ISBN: 9783110766455
URL: link to the title

Reviewer Brunello Mantelli - già Università di Torino

Citation
B. Mantelli, review of L'ombra del duce, Rethinking Fascism in: ARO, VI, 2023, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2023/1/lombra-del-duce-brunello-mantelli/

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Il centenario della «marcia su Roma», caduto nell’anno appena conclusosi, ha visto un fiorire di iniziative, sia pubbliche, sia editoriali, di valore assai diverso tra loro, ma che, in misura notevole, hanno rischiato di provocare una ricaduta nell’«italocentrismo», che troppo spesso ha caratterizzato sia gli studi, sia la recezione pubblica del fascismo, inteso tanto come fenomeno storico sviluppatosi in Italia tra il 1922 e il 1943-1945, quanto come categoria interpretativa alla luce della quale leggere una cultura politica le cui radici appaiono antecedenti alla crisi del Primo dopoguerra e che si è prolungata ben oltre la fine del Secondo conflitto mondiale.

Molto utili perciò risultano, quale antidoto al possibile esito della ricorrenza, i due volumi, pur tra loro affatto diversi, di cui qui si ragiona: L’ombra del duce. Il fascismo italiano in Germania, e Rethinking Fascism. The italian and German Dictatorship. Diversi nel taglio, ma accomunati da una prospettiva internazionale (evito volutamente di usare l’aggettivo, ormai eccessivamente, a mio parere, tanto caratterizzato quanto inflazionato, «transnazionale», su cui tornerò più oltre) che però mette al centro il binomio Italia-Germania, cioè, come in più passaggi di entrambe le opere, si precisa, il paese in cui il fascismo come modello politico (da intendere nel senso più ampio possibile del concetto) è nato, e quello in cui ha assunto la forma più radicale e distruttiva.

Come scrive Wolfgang Schieder, fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco sono «gli unici regimi fascisti che si possono confrontare come tali … dal momento che sono gli unici che, dopo un iniziale periodo ‘movimentista’, si sono sviluppati fino a trasformarsi in veri e propri regimi politici»[1]; e tuttavia la comparazione tardò a svilupparsi, proprio perché la ricerca storica è inevitabilmente influenzata dalla politica della memoria: «in Italia …, dimenticando che i due paesi erano stati alleati in guerra, ci si sottraeva di fatto all’accusa di complicità con la Germania nazista; nella Repubblica federale tedesca si cercò di relativizzare i crimini commessi dal Terzo Reich equiparandoli a quelli commessi dal regime staliniano».

L’ombra del duce raccoglie, incorniciati da un’introduzione e da una sintesi conclusiva stese ad hoc, dieci saggi composti dall’autore, decano e spiritus rector degli studi di storiografia contemporaneistica dedicati all’Italia in ambito germanofono, nonché fondatore nel 1974 insieme a Jens Petersen, dell’Arbeitsgemeinschaft für die Neueste Geschichte Italiens, e maestro di non pochi tra gli studiosi citati nei due volumi di cui qui si ragiona.

Suddivise in tre parti, dedicate rispettivamente a «L’inventore del fascismo: Benito Mussolini», «Il fascismo in chiave comparativa», «Il fascismo italiano nel transfer con la Germania», vengono così resi disponibili al lettore italiano non in grado di accedere alle versioni in lingua originale testi pubblicati in un arco di tempo pressoché quarantennale, che – sebbene aggiornati e messi a punto dall’autore – riflettono ad un tempo sia il suo percorso di ricerca, sia il progressivo svilupparsi dello stato dell’arte sul tema dagli anni Ottanta del secolo scorso ad oggi. Come già nell’antologia Faschistische Diktaturen. Studien zu Italien und Deutschland[2], i saggi qui pubblicati vengono organizzati su base tematica e non temporale, ragion per cui testi scritti in anni anche lontani gli uni dagli altri sono stati messi in sequenza; sebbene siano stati sempre bibliograficamente aggiornati, sarebbe stato utile al lettore italiano conoscere l’anno della loro prima pubblicazione. Purtroppo, per cinque dei dieci saggi la «Nota ai testi»[3] si limita a far riferimento a Faschistische Diktaturen, dove essi erano già stati a loro volta ripubblicati, sebbene nel testo originale[4].

La tesi di fondo di Wolfgang Schieder, che, come una sorta di filo rosso, percorre larga parte delle sue ricerche, può essere riassunta nel titolo di uno dei paragrafi del saggio che chiude il volume[5]: «il fascismo come modello storico»; per quanto mi riguarda non posso che concordare con tale lettura, avendo sempre considerato il fascismo storico, nella sua interezza, come una sorta di baule o magazzino simile a quelli utilizzati dai trovarobe ingaggiati dalle compagnie teatrali: ben lungi dal rappresentare guardaroba coerenti, dagli universi simbolici prodotti dai regimi e dai movimenti fascisti si può trarre quello che appaia utile a questo o quell’imprenditore politico desideroso di avviare e gestire processi di modernizzazione conservatrice[6], si chiami egli Mustafa Kemal (più tardi detto Atatürk) oppure Vladimir (Zeev) Žabotinskij, giusto per fare due esempi esterni, ma a mio giudizio non meno significativi, ai più noti e studiati casi di «impregnazione fascista» in Europa.

Molto tranchant è poi la valutazione di Schieder sul terminus ad quem oltre il quale non si possa più «parlare di 'fascismo’ in senso stretto. Il fascismo storico … è definitivamente tramontato nel 1945»[7]. Anche su questo punto ho analoga opinione. Ciò che meno mi convince è invece una sorta di basso continuo che più volte serve a ribadire un (a mio giudizio presunto) distanziarsi del nazionalsocialismo dal più generale paradigma fascista, motivato dalla effettivamente ultraradicale capacità distruttiva che il regime capeggiato dal Führer dimostrò e di cui fu prova drammatica e salto quantico la Shoah. Sul fatto che le dinamiche che portarono alla Shoah debbano rimanere oggetto centrale di studio e riflessione, proseguendo il percorso già da alcuni decenni avviato, non ci piove, ma quanto al fatto che essa permetta di per sé di tracciare una discontinuità ho qualche dubbio.

Se per la raccolta di saggi L’ombra del duce è legittimo rilevare un approccio sostanzialmente di storia culturale al tema da parte dell’autore; ne è traccia, a mio giudizio l’assenza di richiami, nella pur vasta bibliografia[8], ad autori quali ad esempio Timothy W. Mason[9] e Hans-Erich Volkmann[10], totalmente interno al cultural turn mi è parso il volume collettaneo, curato da Andrea Di Michele e Filippo Focardi, Rethinking Fascism. Nata come sviluppo e ampliamento del quasi omonimo convegno organizzato dalla SISCALT all’Università di Bolzano nel novembre 2018, l’opera, articolata in sette sezioni per complessivamente quindici saggi più un’introduzione dei curatori, risulta di sicura utilità per l’impostazione prevalentemente di rassegna che caratterizza quasi tutti i contributi, assumendo perciò le caratteristiche di un centone non poco esaustivo; tuttavia l’assenza di apparati, quali un indice dei nomi e una bibliografia complessiva delle opere citate nei diversi saggi, ne rende assai meno agevole la consultazione. L’impostazione, come sottolineavo, essenzialmente culturalista traspare dalla prima sezione, dove viene presa in esame, appunto in un’ottica transnazionale, la storiografia dedicata rispettivamente al nazionalsocialismo (Arnd Bauerkämper) e al fascismo (Roberta Pergher); segue l’esame della questione, cruciale, del consenso, attraverso i saggi di Frank Bajohr (con al centro il concetto, considerato integratore, di «Volksgemeinschaft») e di Paul Corner. Ad illustrare figure e ruolo del duce e del Führer si sono dedicati Wolfgang Schieder, comparativamente, e, singolarmente, Richard J.B. Bosworth (per Mussolini) e Gustavo Corni (per Hitler); il tema chiave della violenza, dimensione costitutiva della Weltanschauung e della prassi politica fascista è trattato nei due contributi, ciascuno a suo modo interessante ma non poco asimmetrici tra loro, di Sybille Steinbacher, dedicato alla trattazione dello «spazio» fisico e geografico della Shoah, e di Amedeo Osti Guerrazzi, che spazia invece dallo squadrismo delle origini alla guerra civile (1943-1945) passando per le guerre coloniali, con il rischio ne scaturisca un quadro sicuramente ricco di informazioni ma privo di nuances. Le due sezioni finali sono dedicate rispettivamente al «fascismo di pietra», come è stato definito in diversi convegni, cioè manifestantesi nel complicato rapporto degli Stati postfascisti con le spesso ingombranti eredità architettoniche dei regimi, e alle relazioni tra nuove destre e fascismi. Nel primo caso, ad essere presi in esame, con simmetria non sempre perfetta, sono due luoghi puntuali, l’Obersalzberg, esaminato come luogo di visite di Stato nel periodo dell’alleanza «assiale» (Albert A. Feibel e Thomas Schlemmer), il monumento alla Vittoria, di Bolzano, oggetto di una rivisitazione, tanto ben riuscita quanto generatrice di (a mio parere, sani) conflitti (Andrea Di Michele, che ne fu parte attiva), nonché, più in generale, le operazioni che ebbero come oggetto l’architettura fascista in Italia, tra demolizioni (poche), rifunzionalizzazioni (parecchie), completamenti di grandi opere rimaste incompiute (Paolo Nicoloso). Concludono il volume una riflessione di Roger Griffin sui molteplici usi della categoria «fascismo» nel tempo presente, da parte sia di coloro che ai movimenti e regimi storici intendono richiamarsi, sia di chi usi il termine come stigma negativo, sia di chi ne faccia un uso totalmente decontestualizzato, a prescindere dal valore, positivo e negativo, che gli attribuisca, e due saggi, di Marzia Ponso sulle destre tedesche attuali, e di Matteo Albanese su Forza Nuova e Casa Pound.

Non intendo affatto negare la potenza conoscitiva dell’approccio culturalista, tanto più se abbinato a chiavi transnazionali, nel portare alla luce ciò che in passato si chiamava «circolazione delle idee»[11]. Non faccio mistero dei dubbi che nutro verso ogni tentativo di reductio ad unum di ciò che fu, ritengo, inevitabilmente frutto di ardito e tutt’altro che lineare bricolage, cioè un’opzione politica e culturale che da patrimonio di piccoli gruppi, inevitabilmente settari, divenne, nel corso del tempo, patrimonio prima di masse considerevoli, poi di regimi che si definirono (almeno nel caso del fascismo mussoliniano, che però applicò quell’aggettivo anche ai propri alleati, primo tra tutti il nazionalsocialismo) essi stessi «totalitari»[12]. Resto comunque perplesso verso la pressoché totale messa in parentesi, in opere di questa ispirazione, di ogni dimensione strutturale che si esprime, mi è parso di cogliere, nel mancato richiamo ad autori quali, ad esempio, Albert O. Hirschman[13], Willi A. Boelcke[14] e Charles S. Maier[15].

In sintesi, come si può avere un approccio realmente transnazionale se si trascurano i quadri generali in cui il fenomeno politico che si analizza ha avuto luogo, venendone e plasmato e influenzato, e contribuendo a sua volta a definire quegli stessi quadri generali?

 

[1] W. Schieder, L'ombra del duce, p. 9.

[2] W. Schieder, Faschistische Diktaturen. Studien zu Italien und Deutschland, Göttingen, Wallstein, 2008, pp. 591. Per un commento ad essa si rinvia a J. Scholtyseck: Rezension zu: Schieder, Wolfgang: Faschistische Diktaturen. Studien zu Italien und Deutschland, Göttingen 2008: ISBN 978-3-8353-0358-4, in «H-Soz-Kult», 29.07.2009, <https://www.hsozkult.de/publicationreview/id/reb-12115>.

[3] W. Schieder, L’ombra del duce, p. 311.

[4] Ibidem; degli scritti ivi pubblicati viene fornito il riferimento alle pagine, ma non – come pure sarebbe stato utile – il titolo originale. Non sono queste le uniche pecche editoriali: il volume è funestato sia da un numero francamente eccessivo di refusi, sia dalla mancata revisione tematica delle traduzioni, che troppo spesso rischiano di travisare il pensiero dello studioso di Königsberg tanto da rendere quasi indispensabile, per chi ne sia in grado, il ricorrere a riscontri sugli originali.

[5] Presentato nell’Indice come «Parte quarta. Il fascismo: una sintesi», il capitolo ha come proprio titolo Fascismo, fascismi, che – alle mie orecchie di allievo di Enzo Collotti – suona un po’ come un omaggio all’omonima sintesi dello studioso messinese, dove egli espresse tesi per molti versi consonanti.

[6] Mi rifaccio qui, parafrasandone il titolo, all’importante volume di J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il Mulino, 1986 (ed. orig.: Reactionary Modernism. Technology, Culture, and Politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge, Cambridge University Press, 1984)

[7] L’ombra del duce, p. 292.

[8] Ibidem, pp. 314-360; è compreso anche un esaustivo elenco di fonti.

[9] Rinvio, per brevità, alla raccolta di studi J. Caplan (ed), Nazism, Fascism and the Working Class, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.

[10] Mi limito anche questo caso a far riferimento alla raccolta di scritti B. Chiari (ed), Ökonomie und Expansion. Grundzüge der NS-Wirtschaftspolitik, München, Oldenbourg, 2003, 

[11] Imprescindibile, a mio giudizio, il richiamo sul tema a F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1968-1990.

[12] Va da sé, almeno così mi sembra di poter sostenere, che il costituirsi di miscugli ideologici creatisi dall’assemblaggio di concetti, opzioni, idee dalle più diverse, e non di rado contraddittorie, provenienze sia realtà valido non certo solo per i fascismi, ma per qualunque corrente politica che si presenti come portatrice di una Weltanschauung apparentemente coerente, comunismo bolscevico terzinternazionalista compreso. Si vedano a tale proposito le pagine che, in Raccontare il Novecento. Una storia politica, Milano, Garzanti, 2001 (ed. orig: Das Jahrhundert verstehen. Eine universalhistorische Deutung, München, Luchterhand, 1999), Dan Diner dedica alla Repubblica ungherese dei consigli del marzo-agosto 1919, dove Béla Kun presenta se stesso come il difensore della nazione ungherese di fronte al diktat del Trianon.

[13] Mi riferisco in particolare alla raccolta di saggi Albert O. Hirschman, Potenza nazionale e commercio estero. Gli anni trenta, l’Italia e la ricostruzione, a cura di P. F. Asso e M. de Cecco, Bologna, Il Mulino, 1987; un volume che purtroppo ben pochi storici hanno preso in seria considerazione.

[14] In particolare,W. A. Boelcke, Deutschland als Welthandelsmacht 1930-1945, Stuttgart, Kohlhammer, 1994.

[15] C. S. Maier, La rifondazione dell'Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bari, De Donato, 1979 (ed. orig.: Recasting Bourgeois Europe. Stabilization in France, Germany, and Italy in the Decade after World War I, Princeton, Princeton University Press, 1975)

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