Reviewer Bianca de Divitiis - Università di Napoli
CitationUna delle questioni cruciali per gli storici di oggi è la democratizzazione della conoscenza, ovvero come far sì che i contenuti più aggiornati della disciplina non rimangano riservati a una élite ristretta, ma siano accessibili a un pubblico più ampio, senza per questo scadere in una banalizzazione della narrazione. Non si tratta, ovviamente, di appiattire i problemi, bensì di trovare i modi più efficaci per comunicarli.
L’esperienza della serie di apps «Hidden Cities» è un’ottima risposta in questo senso. A partire dal 2014, quando è stata lanciata «Hidden Florence», il progetto si è ora espanso fino a coprire altre cinque città europee, ovvero Deventer, Exeter, Amburgo, Trento e Valencia, mentre altre sono già in lavorazione. Il volume a stampa, fruibile in open access, curato dagli ideatori dell’app Fabrizio Nevola e David Rosenthal, insieme con Nicholas Terpstra, descrive nelle sue tre parti: le premesse teoriche (Part I); l’attuazione delle singole app (Part II); infine le ricadute e sviluppi in corso e futuri (Part III) di questo progetto collaborativo. Le sei apps di «Hidden Cities», facilmente fruibili sugli smartphones e scaricabili gratuitamente, propongono brevi percorsi di visita esperienziali, in un’ottica immersiva e attiva, costruiti a partire da accurate e aggiornate ricerche storiche su specifici aspetti che erano centrali nella vita e l’identità dei singoli contesti urbani nella prima età moderna. Servendosi di un sistema semplice della realtà aumentata (AR), i visitatori hanno la possibilità di vivere una experience della prima età moderna in una città contemporanea dell’Europa attraverso passeggiate geolocalizzate, lungo le quali possono ascoltare racconti che, riarticolando la comprensione degli spazi urbani e delle vite passate, restituiscono la complessità urbana e sociale di spazi pubblici e oggetti che sono stati oggetto di profonde trasformazioni nei secoli. Traducendo le tendenze più attuali della storiografia – la mobilità, la storia materiale, ecc. – il progetto nel suo complesso offre l’opportunità di un nuovo modo di fare storia come esperienza cinetica, utilizzando il muoversi per la città come occasione per portare luce su caratteri offuscati dalla ricerca ufficiale, colmare la distanza tra le fonti d’archivio e l’esperienza in situ, e riconnettere ai contesti urbani gli oggetti oggi delocalizzati all’interno delle collezioni museali, comprendendoli meglio.
Come spiega Nevola nell’Introduzione, gli elementi centrali delle app sono due: l’uso di mappe create in un momento vicino a quello scelto per raccontare la città e l’uso di una guida storica dello stesso periodo, che attraverso contenuti audio accompagna gli utenti contemporanei attraverso la città. Tali guide non sono scelte tra personaggi noti della storiografia, ma sono caratteri fittivi costruiti sulla base di una sintesi di fonti storiche, appartenenti a categorie marginali e solitamente neglette nella narrazione delle società di ancien régime e nella promozione culturale. Si tratta di una scelta che immediatamente propone una prospettiva diversa da quella solitamente adottata dalle guide, e che piuttosto che focalizzarsi sui monumenti più iconici, sulle cose notabili e sulle figure eminenti, porta i visitatori al di fuori dei circuiti turistici di massa, per farli immergere nelle questioni più rilevanti del periodo, facendo luce sulle funzioni quotidiane e sulla cultura materiale dello spazio pubblico.
La narrativa locative driven proposta nei percorsi adotta il metodo della microstoria, che consente di raccontare contesti urbani portando in vita il passato attraverso oggetti e luoghi specifici visti da vicino e con una preferenza per le storie dal basso all’interno. Allo stesso tempo, come spiega Rosenthal nel Capitolo 1, questo modo di comunicare la storia consente di rispondere alle istanze più urgenti della public history, intesa non solo come una storia accessibile, ma anche come forma di un attivismo operativo della memoria militante, in grado di problematizzare criticamente elementi materiali dello spazio pubblico. In questo senso uno strumento come «Hidden Cities» può aiutare ad affrontare momenti controversi, come ad esempio quello che nel 2020 ha portato ad abbattere statue associate al passato imperialista e razzista. Il modo alto con cui il progetto coniuga le pratiche delle digital humanities con le domande e i metodi più recenti della storia emerge dal contributo di Jo Morrison, direttore della Digital Innovation and Research di Calvium (Cap. 2) l’impresa che ha sviluppato l’app, che non si limita descrivere lo sviluppo di un nuovo software come content management system (CMS), ma ragiona sulla natura delle apps di «Hidden Cities» come espressione di un nuovo tipo di spazio sociale ibrido, nato dalla fusione dello spazio fisico e quello digitale al fine di migliorare l’esperienza umana dei luoghi.
La parte centrale del volume è dedicata alle app delle sei città finora coperta da «Hidden Cities», dove ciascun team racconta le scelte adottate nel definire la guida storica, la mappa utilizzata per la georeferenziazione e soprattutto il modo in cui la costruzione dell’itinerario riflette temi centrali per la vita dei diversi centri nella prima età moderna. Ad Amburgo (Cap. 3) Daniel Bellingradt e Claudia Heise affidano al carattere fittizio di Johan, un commerciante in carta di ritorno da un viaggio nel 1666, all’indomani del cosiddetto «tumulto Jastram-Snitger», il compito di restituire l’immagine della città come centro europeo per la produzione e il consumo della stampa, facendo emergere sia il ruolo degli spazi pubblici nell’accessibilità e nel flusso delle informazioni sia aspetti della vita urbana come punizioni pubbliche o roghi di libri. Incrociando ricerche storiche con una profonda riflessione riguardo agli studi sulla disabilità, il gruppo di «Hidden Valencia» formato da Mónica Bolufer, Juan Gomis e Blanca Llanes (Cap. 4) ci porta a conoscere Valencia all’indomani della rivolta delle corporazioni di artigiani nel 1519-1522 contro il governo della città, facendoci accompagnare da Josep, un cantore di strada cieco, concepito per essere rappresentativo di figure che nella città svolgevano ruoli di mediatori culturali non solo nel rapporto tra cultura orale e scritta e tra gruppi sociali diversi, ma anche per offrire una percezione sensoriale, sonora e visuale, dell’esperienza urbana. Seguendo Katrina Kerstkensm per le strade di Deventer (Cap. 5) i curatori Sabrina Corbellini, Peter Boonstra e Margriet Hoogvliet ci consentono di penetrare la rete socio-religiosa delle comunità dei Fratelli e Sorelle della Vita Comune che nel 1495 animava la città olandese, dove la trasmissione della conoscenza religiosa negli spazi pubblici come le biblioteche o le case dei Fratelli era accresciuta da pratiche rituali, come le letture comuni o l’accesso aperto a libri lasciati per «il bene comune». Ad accompagnarci per le strade di Trento è Ursula (Cap. 6), un’ostessa di origine tedesca la quale, attraverso il suo sguardo di donna migrante e artigiana, ci disvela l’ambiente socio-culturale di una città che intorno al 1520 si presentava come snodo di una rete transregionale che connetteva l’Impero asburgico con gli stati del nord Italia, a cavallo tra due culture, tanto nella lingua, quanto nelle istituzioni e nell’architettura. In questo caso i due curatori Massimo Rospocher ed Enrico Valseriati magnificano la dimensione della mobilità intrinseca all’app focalizzando la ricerca storica sugli aspetti materiale della mobilità e esplorandoli a più livelli, nella dimensione sociale e geografica, nella natura degli spazi pubblici come luoghi di comunicazione e socializzazione, e nell’indagine analisi delle strutture per l’ospitalità per persone in transito. L’itinerario storico attraverso Exeter, descritto nel Capitolo 7 da Kate Osborne, vede come protagonista Thomas Greenwood, un fabbricatore di cappelli che accede al ruolo di amministratore cittadino, una delle tante figure che emergono dai documenti della città negli anni drammatici della dissoluzione dei monasteri nell’Inghilterra elisabettiana, e che nel suo percorso rievoca il tessuto e segni urbani del secondo Cinquecento non più esistenti. La sezione si conclude con il saggio di Julia Rombough e Sharon Strocchia in cui vengono descritti due nuovi itinerari di «Hidden Florence» (Cap. 8): due tipi diversi di donne – Marietta, un’orfana che lavora come tessitrice di seta, e Niccolosa, appartenente all’élite urbana – offrono prospettive differenti sulla città e allo stesso tempo, nel loro insieme, nel vivere esperienze femminili di vedovanza, maternità, reclusione, mobilità, rivelano aspetti sommersi della storia economica, network di pietà e affiliazioni politiche. Nei loro diversi approcci l’insieme delle apps mostra la notevole flessibilità del software per poter fare e comunicare la storia di luoghi specifici, contribuendo allo stesso tempo al dibattito corrente su temi più ampi della storia della prima età moderna.
Se già in diverse parti del volume emergono le notevoli potenzialità del nuovo approccio alla locative history adottato da «Hidden Cities» per la disseminazione e per l’insegnamento, la terza e ultima sezione del volume esplora gli sviluppi e le ricadute future che il progetto sta promuovendo, soprattutto grazie alla collaborazione con istituzioni culturali ed enti museali. Attraverso le esperienze di collaborazione con la RAMM di Exeter e dell’Athenaeumbibliotheek in Deventer, nel Capitolo 9 Suzan Folkerts e Rick Lawrence spiegano come il nuovo tipo di narrativa proposto risponda alla necessità di presentare il patrimonio in modo innovativo, in cui riconnettendo gli oggetti delle collezioni con i siti per i quali erano stati originariamente creati, si ha la possibilità di raccontare storie nuove accessibili agli utenti anche all’esterno dello spazio espositivo, verso un’idea di un «museo senza mura». Il rapporto con il pubblico è anche l’oggetto del Capitolo 10 dove, partendo dalle criticità dell’overtourism, Tim Coles illustra come le app AR per la conoscenza del patrimonio quali sono quelle di Hidden Cities abbiano un potenziale considerevole se integrate nelle strategie del più ampio «ecosistema del turismo urbano». Mentre le app relative ad altre città sono in lavorazione (Copenaghen, Tours, Venezia), il progetto ha già sviluppato ulteriori linee di ricerca, sperimentando le nuove tecnologie AR/3D, e coinvolgendo gli abitanti dei siti interessati nel processo di ricerca e di disseminazione dei risultati: il volume si chiude con la descrizione dell’app «Hidden Florence 3D» sviluppato da Donal Cooper, Fabrizio Nevola, Chiara Capulli e Luca Brunke, in collaborazione con National Gallery di Londra: partendo dalla ricostruzione piena della perduta chiesa di San Pier Maggiore, di cui oggi resta la sola facciata, l’app fornisce ai visitatori di Londra l’esperienza unica di visualizzare il contesto storico fiorentino e la chiesa per cui erano state create dell’Assunzione della Vergine di Botticini e parti del polittico dell’altare maggiore di Jacopo di Cione, conservate nella National Gallery, mentre offre al visitatore a Firenze la possibilità di visualizzare le opere esposte nel museo inglese nel sito per dove erano state in origine create.
Possiamo solo augurarci che la varietà delle voci e prospettive proposte da «Hidden Cities» possa arricchirsi ulteriormente, portandoci a scoprire nuovi contesti urbani, ad ascoltare nuove storie e suscitare nuove ricerche.