Reviewer Debora Sicco - Università di Torino/Università del Piemonte orientale
CitationSuddiviso in otto capitoli, il volume di Giulia Iannuzzi si basa su un corpus di fonti primarie settecentesche prevalentemente anglofone (anche se, in alcuni casi, sono state prese in considerazione fonti francofone di notevole impatto sulla letteratura successiva) riguardanti le popolazioni nordamericane, la loro natura e i loro costumi. Frutto di un’osservazione diretta, tali fonti, che spesso consistono in resoconti di viaggio, permettono di mettere in luce come l’esperienza dell’incontro con le popolazioni nordamericane, indubbiamente influenzata da stereotipi e idee preconcette, sia stata fondamentale per ripensare e rielaborare le categorie culturali di partenza. Ne offre un’emblematica testimonianza il «mito del buon selvaggio», che può sia orientare il punto di vista del viaggiatore sia essere rivisto in seguito alle sue osservazioni sul campo. Nel momento in cui europei e nordamericani entrano in relazione, il reciproco condizionamento è ineludibile: come l’autrice sottolinea efficacemente nell’Introduzione (pp. 7-13), «il Nuovo Mondo funziona come correlativo storico-culturale del principio di indeterminazione di Heisenberg: l’osservatore entra inevitabilmente a far parte del sistema che si propone di descrivere, produce in esso un cambiamento, e a seguito di questo contatto l’osservatore risulta a sua volta mutato e il suo punto di vista riposizionato» (p. 10).
Anche la coscienza europea del tempo storico cambia in seguito ai contatti con le popolazioni nordamericane. Nel primo capitolo del volume (Distanze temporali, distanze spaziali. Cenni storiografici, pp. 17-52) l’autrice delinea il contesto storiografico della ricerca, con particolare attenzione alla concezione illuministica della storia, ancora svincolata dalla codificazione accademica che assumerà nell’Ottocento. Il diffuso interesse per la classificazione e la comparazione di diversi tipi di umanità, costumi, organizzazioni sociali e forme politiche trova un terreno di indagine privilegiato nei resoconti sui nativi americani redatti sulla base di esperienze dirette. Una panoramica dei testi presi in considerazione nel libro trova spazio nel secondo capitolo (Resoconti di viaggi e conflitti conoscitivi, pp. 53-101), dove si sottolinea la stretta interconnessione tra interessi scientifico-esplorativi, ambizioni coloniali e vicende biografiche dei viaggiatori. Inoltre, è degna di nota la riflessione sulla pretesa equivalenza tra nativi americani e «selvaggi» o «primitivi», frequentemente accostati ai progenitori degli europei, nel frattempo pervenuti a uno stadio successivo di civilizzazione: «Nel XVIII secolo l’uso dei selvaggi come evidenze del passato europeo acquisisce una centralità senza precedenti» (p. 55).
In questa prospettiva, «il selvaggio è, con apparente paradosso, un primitivo appartenente all’età moderna» (pp. 105-106), più arretrato ma meno corrotto dei suoi contemporanei europei. Proprio la categoria di «europeo», come viene osservato nel terzo capitolo (Declinazioni diacroniche della diversità americana, pp. 103-151) si sviluppa a partire dalla constatazione di una radicale alterità rispetto ai nativi nordamericani, alla luce della quale le differenze tra coloro che arrivano dall’altra sponda dell’Atlantico, nonostante l’accesa competizione tra potenze coloniali, appaiono meno significative. All’elaborazione del concetto di europeo contribuiscono anche elementi medico-epidemiologici: i nativi rispondono in maniera diversa a malattie diffuse in Europa, il vaiolo in primis. A questo proposito, grande rilevanza hanno i resoconti della spedizione di Lewis e Clark, incaricati da Thomas Jefferson di raccogliere indicazioni sulle caratteristiche dei popoli incontrati, nonché di contribuire al contenimento delle epidemie di vaiolo promuovendo la pratica dell’inoculazione. All’origine della volontà di raccogliere sistematicamente la maggior quantità di informazioni possibili sulle popolazioni native vi è anche la presa di coscienza che alcune di esse potrebbero essere prossime all’estinzione, a causa delle malattie, delle continue guerre e del consumo smodato di alcol.
Dopo aver mostrato nel quarto capitolo del volume (Scrivere la storia degli altri, pp. 153-186) che «tempo e spazio sono terreni di competizione tra potenze coloniali anche a un livello conoscitivo» (p. 170), Giulia Iannuzzi dedica il quinto capitolo (Inscrivere gli altri nella storia, pp. 187-226) a una più approfondita disamina della complessa relazione tra fonti testuali ed esperienza diretta tipica della storicizzazione delle popolazioni native del Nord America nel Settecento. In questa prospettiva, risultano cruciali il resoconto ufficiale del terzo viaggio di James Cook e la History of the American Indians di James Adair, opera che ebbe grande impatto nei dibattiti successivi, in particolare per la tesi della discendenza ebraica degli americani in essa sostenuta. Come viene sottolineato, se indubbiamente Adair osserva la realtà influenzato da tale tesi, è altrettanto vero che proprio per questo osserva con attenzione usi e costumi delle popolazioni con le quali entra in contatto, desideroso di registrarne le peculiarità o indagarne i significati (cosa che forse non farebbe, o farebbe in minor misura, senza questo stimolo). La volontà di trovare argomenti a favore della propria tesi si manifesta anche sul versante linguistico, dove Adair non tralascia di individuare somiglianze tra le lingue dei nativi e quella ebraica.
In generale, il linguaggio è un altro aspetto centrale nell’incontro tra europei e nativi, e permette di far luce su una serie di atteggiamenti e problematiche che lo caratterizzano. Oltre all’inadeguatezza degli strumenti a disposizione dei soggetti coinvolti, colpiscono soprattutto la diffusa impressione che l’altro non sia davvero del tutto conoscibile, la difficoltà di superare un forte pregiudizio riguardo al legame tra capacità di astrazione e di ragionamento razionale, l’incapacità di comprendere l’interazione tra oralità e oggetti materiali tipica dei linguaggi nativi. Questi aspetti sono affrontati nel capitolo sesto (Storia e discorso: interpreti, genealogie, gerarchie, pp. 227-256), che trova il suo completamento nel successivo (Vocabolari selvaggi, pp. 257-281). I vocabolari, che i viaggiatori europei annettono abitualmente ai loro scritti, sono fonti piuttosto trascurate dalla storiografia, eppure risultano interessanti per molte ragioni: sono, infatti, rivelatori dell’atteggiamento di chi li compila nei confronti dei suoi interlocutori, considerati meno civilizzati, ma anche del rapporto con le fonti (ad esempio, l’avversione di Carver nei confronti dei francesi non gli impedisce di far ricorso a fonti francofone per il suo vocabolario della lingua chippeway).
Infine, lo sguardo di questi autori si rivolge anche al futuro, rivelando lo stretto legame tra osservazione dell’umanità americana, diplomazia e progetti politici; a questo aspetto è dedicato l’ottavo capitolo (Un futuro malleabile, pp. 283-301). L’importanza del nesso tra aspirazioni conoscitive e aspirazioni coloniali è ulteriormente ribadita nelle Conclusioni (pp. 303-308), che chiudono questo volume ben documentato, di lettura scorrevole, ricco di spunti di riflessione per ulteriori approfondimenti. Il suo contributo più significativo è forse quello di indurre lettori e lettrici a prendere coscienza delle ricadute storiografiche tutt’altro che marginali di una vicenda tanto complessa quanto affascinante, quale è quella dei rapporti tra popolazioni native del Nord-America ed europei nel Settecento, e della loro influenza sui tentativi dei secondi di comprendere e scrivere la storia dei primi.