Reviewer Marco Meriggi - Università di Napoli
CitationI decenni che precedono la Prima guerra mondiale sono stati spesso definiti dalla storiografia attraverso l’etichetta della Belle Époque: un termine più evocativo che propriamente analitico, con il quale si vuole enfatizzare la percezione fondamentalmente ottimistica della propria contemporaneità che mise radici in vasti strati della società europea dell’epoca. Progresso; emancipazione sociale; gioia di vivere e fiducia nel futuro: sono questi i concetti-guida che orientarono allora l’orizzonte di aspettative non solo delle élite dominanti del vecchio continente, ma anche di parte delle classi subalterne.
In questa percezione ottimistica si saldavano elementi diversi: la constatazione delle spinte in senso democratico presenti in molte delle società europee, che venivano prendendo congedo dalle angustie esclusivistiche tipiche dell’età del liberalismo classico, accentuando i principi garantistici dello Stato di diritto e accordando margini crescenti di riconoscimento politico ai lavoratori; la fiducia positivistica nella scienza e, insieme ad essa, l’aspettativa di realizzare grazie al suo contributo l’armonia sociale; ma anche il senso di quasi onnipotenza derivante dalle conquiste coloniali effettuate dai paesi europei in molte aree del globo; l’orgoglio, dunque, derivante da un diffuso sentimento di supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo.
In questo suo libro dedicato ai temi del conflitto sociale e della violenza nella Germania guglielmina, sullo sfondo di uno scenario contraddistinto dall’affermazione della politica di massa, Amerigo Caruso si pone l’obiettivo di controbilanciare la master narrative abituale della Belle Époque attirando l’attenzione sui lati oscuri che pure caratterizzarono quella stagione. E lo fa studiando a fondo un fenomeno sin qui relativamente poco indagato: quello del prender forma delle organizzazioni paramilitari e para-legali armate che cominciarono a venire istituite in Germania nella seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, su impulso di alcuni tra i maggiori capitani d’industria, al fine di contrastare l’avanzata del movimento operaio e sindacale e di sabotarne le iniziative. Queste ultime tendevano a cristallizzarsi in un fenomeno – quello degli scioperi – che in quei decenni si dilatò in modo sensibile, e che una parte consistente e influente del fronte conservatore percepì come una minaccia inquietante alla tenuta tanto dell’ordine sociale quanto di quello politico.
A rendere possibile la nuova articolazione del conflitto sociale che si esprimeva attraverso gli scioperi erano, per un verso, la democratizzazione in atto della società e il rafforzamento dello Stato di diritto, consolidatisi una volta abolite le leggi antisocialiste; lo «spirito» garantista e socialmente inclusivo della Belle Époque, per così dire. Ma, d’altro canto, i settori più tradizionalisti dell’establishment politico e del fronte padronale vedevano in quello che definivano come «Streiksterrorismus» l’espressione di una forma di antipatriottismo che rischiava di minare in modo rovinoso le fondamenta dell’ordine sociale. Gli scioperanti venivano considerati da questo versante politico-sociale come una sorta di quinta colonna del nemico all’interno della patria; uno straniero indebitamente infiltratosi nel corpo sano della nazione e sconsideratamente incline a indebolire e corrodere la compattezza di quest’ultima.
La motivazione che veniva addotta per giustificare l’istituzione di corpi armati privati incaricati di arginare gli scioperanti e le loro mobilitazioni, talvolta punteggiate da episodi di violenza o di intimidazione, era quella di tutelare i diritti di quanti, tra i lavoratori, non volevano invece scioperare. Le autorità pubbliche ebbero, in proposito, a seconda dei contesti, un atteggiamento ambivalente. In teoria, infatti, nella cornice giuridica dello Stato di diritto quello dell’esercizio legale della violenza sarebbe dovuto essere un monopolio statale. Di fatto, però, le milizie padronali private vennero non solo tollerate, ma in molti casi anche semi-ufficializzate. Tuttavia, le proporzioni che i corpi privati armati assunsero nei decenni anteriori alla Prima guerra mondiale rendono problematico parlarne come di un fenomeno di massa. Tra il 1905 e il 1912 – gli anni durante i quali il movimento degli scioperi raggiunse il suo picco – arrivarono a far parte delle polizie private anti-sindacali circa 2000 persone, in 117 fabbriche. Si trattava spesso di ex-militari, stipendiati dalle imprese ma in genere sostanzialmente ai comandi delle autorità pubbliche, e pronti non solo a proteggere i non scioperanti dalle minacce sindacali, ma anche talvolta a provvedere alla sostituzione in fabbrica di coloro che scioperavano.
Nel frattempo il movimento sindacale cresceva impetuosamente. Tra il 1905 e il 1907 si ebbero 8.500 scioperi; una lievitazione consistente, rispetto ai numeri di qualche decennio prima, visto che tra il 1871 e il 1873 gli scioperi erano stati solo 800. E se a fine Ottocento i lavoratori iscritti ai sindacati di ispirazione socialdemocratica erano 680.000, nel 1904 il loro numero risultava salito a 1 milione, e in capo al 1911 toccò la soglia dei 2 milioni e mezzo.
Come l’autore illustra estendendo lo sguardo ad altri contesti occidentali coevi, quello delle milizie padronali non fu un fenomeno soltanto tedesco; cosa che ribadisce nel suo Nachwort anche Matteo Millan, il quale, presso l’Università di Padova, coordina il team di ricerca internazionale dalla cui attività è venuto prendendo forma il libro di Caruso. Non ci si trova, dunque, in presenza di una situazione che possa eventualmente portare acqua al mulino della nota, ma forse oggi un poco meno condivisa di quanto non lo fosse un tempo, teoria del Sonderweg tedesco. Anzi, sotto il profilo dell’intensità della violenza scaturita dal conflitto tra operai in sciopero e forze dell’ordine – legali o semilegali – che cercarono di sabotarne l’esercizio, quella che ebbe luogo in quei decenni in Germania fu, rispetto a molte europee coeve, una storia relativamente poco cruenta. La violenza fu soprattutto verbale, e a esercitarla con insistenza furono alcuni organi di stampa di orientamento nazionalista e conservatore, che si specializzarono in campagne antisindacali finalizzate alla delegittimazione di un fenomeno che essi raffiguravano come vero e proprio terrorismo e al quale attribuivano una vocazione intimamente antipatriottica, spesso ricorrendo agli stereotipi dispregiativi di carattere razzista derivanti dalle esperienze coloniali in atto. Nell’ottica più monoliticamente conservatrice, la classe operaia organizzata era un nemico; un nemico insidiosamente disseminato all’interno del paese, e per questo da reprimere con durezza, anche a costo di disattendere le consuetudini garantiste dello Stato di diritto.
Anche se l’autore invita a non considerare teleologicamente la parabola d’anteguerra come una sorta di anticamera di quello che sarebbe avvenuto dopo il conflitto, al tempo delle violentissime lotte politico-sociali che scandirono la travagliata esistenza della Repubblica di Weimar, resta a mio parere il fatto che la ricostruzione solidamente documentata e ben dettagliata che egli offre in questo libro consegna al lettore quanto meno una serie di suggestioni che invitano a collocarla all’interno di uno scenario temporalmente più esteso. Il lato «oscuro» della Belle Époque di cui essa ci parla evidenzia infatti quel tema della crisi dello Stato liberale di diritto, e delle pretese di quest’ultimo di racchiudere «il politico» tutto all’interno della propria trama istituzionale, che cominciò allora a manifestarsi concretamente, e che avrebbe continuato in seguito a fornire linfa alle riflessioni di quella schiera di autori (non solo tedeschi) di ispirazione antiliberale, di cui una figura come Carl Schmitt costituì notoriamente la punta di diamante. Quando quest’ultimo, nei suoi scritti dei tardi anni Venti e dei primi anni Trenta, formalizzò il tema dell’ormai compiuta erosione della tradizionale linea di confine tra Stato e società, tra pubblico e privato, che aveva rappresentato il credo prevalente dell’età liberale, pensava certamente anche a fenomeni come quelli descritti da Caruso.