V, 2022/1

E. Natalie Rothman

The Dragoman Renaissance

Review by: Erasmo Castellani

Authors: E. Natalie Rothman
Title: The Dragoman Renaissance. Diplomatic Interpreters and the Routes of Orientalism
Place: Ithaca, NY
Publisher: Cornell University Press
Year: 2021
ISBN: 9781501758485
URL: link to the title

Reviewer Erasmo Castellani - Duke University

Citation
E. Castellani, review of E. Natalie Rothman, The Dragoman Renaissance. Diplomatic Interpreters and the Routes of Orientalism, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2021, in: ARO, V, 2022, 1, URL https://aro-isig.fbk.eu/issues/2022/1/the-dragoman-renaissance-erasmo-castellani/

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C’era una volta la decadenza dell’Impero ottomano (e, più generalmente, del bacino Mediterraneo) del diciassettesimo secolo. Numerosi lavori hanno rigettato ed esposto i limiti di una lettura così semplicistica, evidenziando come tale paradigma fosse fortemente influenzato da una prospettiva ‘orientalista’, così come concepita da Edward Said: una prospettiva figlia della modernità europea e del suo imperialismo. Tuttavia, rimane ancora viva una prospettiva decisamente eurocentrica che tende ad esotizzare il mondo ottomano, a considerarlo ‘altro’, separato in particolare dall’Europa e la sua storia. Con The Dragoman Renaissance, Natalie Rothman propone una lettura originale e provocatoria per riconsiderare le radici di questa narrativa decadente, ampliando, decentrando e problematizzando le genealogie dell’Orientalismo. Per farlo, lo studio si concentra su una figura professionale tanto affascinante, quanto spesso fraintesa: il dragomanno; non un semplice traduttore, ma un mediatore dotato di significative autonomie, la cui lunga formazione si articolava tra le corti e le élites diplomatiche di Istanbul.

Chiave per l’analisi dei dragomanni rimane la dimensione trans-imperiale dei mediatori culturali che Rothman aveva sviluppato nel suo precedente Brokering Empire: Trans-Imperial Subjects between Venice and Istanbul (2012). Questa volta però, l’interesse dell’autrice è quello di delineare la prospettiva dei dragomanni sul mondo ottomano, per poi evidenziare l’impatto che tale prospettiva ha avuto fuori dagli ambienti diplomatici di Istanbul, soprattutto tra gli intellettuali europei della «Repubblica delle Lettere» del diciottesimo secolo (p.12). Ciò che emerge è uno sforzo composito che ponga in rilievo la capacità dei dragomanni di rendere intelligibile l’Impero ottomano per un pubblico veneziano attraverso l’articolazione di spazi d’incontro in cui diversi codici linguistici, visuali, e performativi si contaminano. Nella creazione di questi spazi d’incontro, i dragomanni sottolineano – e costruiscono – l’alterità del mondo ottomano nei confronti di Venezia (e, più in generale, delle società europee), suggerendo allo stesso tempo la commensurabilità di queste due realtà attraverso le loro capacità di traduzione.

È proprio in questa apparente contraddizione che Rothman individua l’eredità più duratura del lavoro dei dragomanni. Si deve alla loro formazione all’interno delle corti di Istanbul, se i dragomanni hanno diffuso il mito, elaborato dallo stesso Impero ottomano nel sedicesimo secolo, di un Islam universale, eterno ed omogeneo – una concezione che finirà per influenzare il punto di vista orientalista sulle società islamiche. Si deve alla dimensione sociale e professionale sviluppata dai dragomanni se l’alterità linguistica ottomana è diventata sempre più alterità culturale: consolidandosi in una casta endogamica, i dragomanni hanno enfatizzato l’impenetrabilità del mondo ottomano, giustificando così l’esistenza di soggetti in grado di renderlo leggibile nelle peculiarità politiche ed etno-linguistiche (p. 139). Si deve al loro impiego a servizio del bailo veneziano e degli ambasciatori europei a Istanbul se l’Orientalismo è stato funzionale all’imperialismo ottocentesco europeo: il corpus testuale prodotto dai dragomanni sul quale si sono formati i primi ottomanisti, privilegiava per ragioni professionali testi di storia, politica ed amministrazione, omettendo le opere di scienza, letteratura e teologia prodotte dagli intellettuali di Istanbul (pp. 254-255).

Per sviluppare questa tesi, Rothman presenta sette densi capitoli tematici che presentano analisi minuziose di un numero di fonti ben selezionate (principalmente in Italiano ed in buona parte edite), ed un ragguardevole impianto teorico multidisciplinare che spazia dall’antropologia culturale, alla linguistica, dalla critica letteraria agli studi transazionali. Questo approccio, benché necessario per il tipo di indagine che l’autrice propone, non sempre dà particolare risalto al contesto storico. Vengono quindi privilegiati i percorsi biografici dei singoli dragomanni, utili a comprendere le differenti pratiche adottate, e in grado di sottolineare la dimensione relazionale del dragomanno, mentre si considera meno l’impatto dei processi storici nello sviluppo della relazione tra l’Impero ottomano e i suoi vicini europei.

I primi due capitoli si occupano di mettere in risalto la dimensione costantinopolitana dei dragomanni, che l’autrice vede emergere soprattutto nei processi di autoidentificazione. La dimensione giuridica (l’essere spesso sudditi ottomani) o di provenienza geografica (anche per coloro che provenivano da territori veneziani) non sembrano avere grande rilevanza, mentre si può notare come sottolineino in maniera forte la loro fede cattolica e perseguano l’instaurazione di legami di parentela con le altre famiglie cristiane di rito latino residenti nel quartiere di Pera (p. 78). Rothman dunque descrive molto bene le strategie performative adottate dai dragomanni per accattivarsi la fiducia e il rispetto delle élites costantinopolitane, gli sforzi per instaurare rapporti con gli ufficiali ottomani, e presentarsi al contempo come leali servitori della Serenissima.

Il costante bisogno dei dragomanni di sottolineare intimità con il mondo ottomano e al contempo prenderne le distanze emerge particolarmente nelle relazioni, dettagliati reportages delle loro missioni diplomatiche. Nel terzo capitolo, l’autrice confronta le relazioni di quattro diversi dragomanni per evidenziare come le diverse strategie adottate per descrivere le società islamiche (ottomana, persiana e nordafricana) rappresentino un elemento cruciale per il successivo sviluppo dell’idea europea di «Oriente» (p. 82). L’analisi letteraria dei testi mira a mettere in luce il valore epistemologico del lavoro dei dragomanni, capace di «generare l’archivio diplomatico di riferimento [per interagire con il mondo ottomano] e di dare forma alle modalità chiave della produzione delle conoscenze specifiche» (p. 112). I diversi processi di commensurazione tra la società europea e quelle islamiche presenti nei loro testi vengono valutati in base alla situazione socio-economica dei singoli dragomanni e al rapporto con essi avevano con i loro lettori, i patrizi veneziani. Questi temi vengono ribaditi con un taglio marcatamente antropologico-linguistico nel quinto e nel sesto capitolo, per sottolineare come il lavoro dei dragomanni abbia avuto un ruolo cruciale «nel definire e stabilire i contorni ideologici della sineddoche tra letteratura e cultura» (p. 210), cioè nel definire l’alterità linguistica e, conseguentemente, di allargare tale alterità più generalmente a tutto il mondo islamico.

Il quarto capitolo si muove sulla falsa riga del precedente, e rimarca la capacità dei dragomanni di stabilire la centralità della loro figura di intermediari anche nelle rappresentazioni pittoriche, sia come committenti di ritratti autocelebrativi, sia nella redazione di album d’illustrazioni ottomane. Ciò che emerge da questa opera di mediazione e manipolazione di linguaggi visivi veneziani e ottomani esprime secondo Rothman la prospettiva squisitamente trans-imperiale dei dragomanni.

Gli ultimi tre capitoli infine esplorano gli effetti nel lungo periodo della mediazione compiuta dai dragomanni nel tradurre e interpretare le epistemologie ottomane. L’analisi in questi capitoli si fa principalmente antropologico-linguistica, e sottolinea come le pratiche traduttive e le metodologie pedagogiche dei dragomanni abbiano determinato uno sviluppo dello studio dell’ottomano diverso rispetto a quello di altre lingue orientali. In altre parole, qui si chiude il cerchio e viene alla luce il ruolo fondamentale dei dragomanni nel gettare le basi per lo sviluppo dell’Orientalismo.

Nonostante The Dragoman Renaissance richieda una certa familiarità con il linguaggio specifico di teorie e discipline non strettamente storiche, il lavoro di Natalie Rothman merita attenzione anche perché si presta ad essere letto secondo diverse prospettive: da una critica all’Orientalismo, a quella di una storia trans-imperiale mediterranea; dal riconsiderare il ruolo della storia ottomana in relazione a quella europea, alla storia della produzione dei saperi nella costruzione della modernità. L’autrice propone ripetutamente degli spunti di riflessione che per vastità e complessità non possono essere affrontati nel testo. Ad esempio, nei primi tre capitoli, Rothman accenna più volte all’ambiguità di certi termini come «greco» o «turco», il cui uso può talvolta enfatizzare aspetti religiosi, linguistici, e/o etnici, e di come questi possano essere utilizzati nel costruire appartenenze ed identità. L’attenzione riservata ai dettagli delle traduzioni, al significato della scelta dei termini, contrasta con alcune scelte effettuate dall’autrice nel tradurre liberamente in inglese alcuni termini italiani (per esempio agreement per «promessa» e our lands per «nostri paesi», p. 194) che possono essere fraintesi dai lettori con limitate conoscenze della lingua italiana. Resta comunque indiscussa l’importanza del volume sia per il contributo che offre agli specialisti di storia veneta ed ottomana, sia per l’originale e sofisticata proposta metodologica di Natalie Rothman, che inserisce il suo lavoro in un dibattito scientifico aperto e multidisciplinare.

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